13 Rojava

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Caro Alessandro,
sì caro. Permettermi di chiamarti ancora così: caro. Perché tale mi sei. Nonostante l’impossibilità di continuare insieme, mi sei caro.
Ce lo siamo detto mille volte e mille, che non è l’amore a mancare tra noi due. L’impossibilità di un reale incontro è data dalle differenze che ormai hanno scavato un abisso.
Nonostante il mio amore, non posso più accettare il tuo ritiro dal mondo.
Le tue riflessioni sono corrette. Le rispetto, le condivido.
Ma come sai c’è un ma. Un ma che col tempo si è trasformato. Quella che all’inizio era una piccola crepa è diventata una frattura insanabile, nonostante me, nonostante te, nonostante noi.
Ciò che tu affermi è vero, incontestabile.
Ma… a volte… Ed è questo il ma a cui mi riferisco.
A volte, bisogna avere il coraggio di andare contro la ragione.
È vero. Tutto è inutile. L’Io è un’illusione. I nostri valori sono soggetti alla legge del tempo. Sono idoli, totem precari, destinati a essere cancellati dalla storia.
È vero.
Hai ragione.
Ma io sento ancora l’esigenza, la necessità di sporcarmi le mani.
È per questo che sono andata in Rojava.
Ed è per questo che domani andrò in Procura.
Non so che cosa vogliano. Ma ci andrò.
Il mio avvocato dice che sono convocazioni effettuate di prassi, quando una persona torna da zone di guerra. La Procura, e per suo mezzo lo Stato, vogliono sapere se rappresento un pericolo. Se la mia familiarità con le armi, gli esplosivi, la morte, rappresentano un pericolo per lo Stato.

Caro Alessandro, rappresento un pericolo?
Sono arrivata in Italia da pochi giorni. I miei non sanno nulla. Ho preferito non dirglielo. Con i pochi soldi rimasti ho preso una stanza nell’albergo dove andavamo a vivere la nostra passione.
Ho prenotato la stanza 313. La nostra stanza. Quella che dà sul vicolo, chiuso dal grande cancello in ferro sbalzato. Quella da cui si vede uno spicchio di paesaggio. Non è cambiata. C’è sempre la grande specchiera, il lampadario finto Calder con le gocce rosse, la caffettiera americana.
Sono appoggiata al piccolo tavolo in mogano, e ti scrivo, mentre sorseggio la brodaglia scura del caffè americano. È una brodaglia, ma durante le notti passate al freddo, a montare la guardia tra gli uliveti, la sognavo.

Caro Alessandro, ti scrivo perché l’amore non si cancella con un tratto di penna. Ti scrivo perché so che il nostro incontro è stato un bene per entrambi.
Tu sei uscito per un attimo dal tuo sonno prolungato, dalla tua indifferenza per la vita. Ma anche io ho ripreso a vivere.
Come vedi questa lettera è colma di ma. Quasi che siano stati i ma a caratterizzare il nostro incontro, il nostro commiato.
Caro Alessandro, con te mi sono riaffacciata alla vita. Ho scoperto di essere ancora desiderabile. Che la vita è desiderabile. Con te ho scoperto che non volevo riaddormentarmi. In questo non volermi riaddormentare trovo la ragione profonda della mia partenza per il Rojava.
Avevo iniziato a sentire le prime notizie confuse dalla stampa, poi dai compagni che tornavano da quei territori. Si parlava di battaglioni femminili, di una costituzione all’avanguardia, che metteva al centro l’ambiente, le donne. Si vociferava che in ogni villaggio, in ogni campo, ci fosse una casa delle donne. Si diceva che prima di prendere qualsiasi decisione le donne fossero interpellate.
Poi iniziai a sentire le storie di chi partiva per il nord della Siria.
Si partiva come si faceva durante gli anni trenta per andare in Spagna.
Si partiva come facevano i compagni comuni da tutto il mondo, come fecero i fotografi Robert Capa e Gerda Taro, i giornalisti scrittori Ernest Hemingway e Martha Gellhorn. Come fecero i noti e i meno noti.
Si partiva per un credo politico, per ingenuità, in cerca di avventure. Si partiva, si tornava, si moriva. Sì perché lì c’erano gli ideali, ma c’era anche la morte.
C’era la guerra in Spagna.
C’è la guerra in Rojava.
Il Rojava è un lembo di terra incuneato tra Siria, Iran, Iraq, Turchia.
Tu conosci quelle zone. Ci sei stato, ci hai viaggiato per mesi in treno, in autobus, in taxi. Eri affascinato dalla Siria, colpito dalla modernità dell’Iran.
Mi mettesti in guardia.
“In quelle terre litigano su tutto. Si trovano d’accordo solo quando si tratta di dare addosso ai Curdi. E quando non serviranno più per combattere l’Isis, torneranno a dargli addosso. Così come stanno facendo i Turchi, che se ne sbattono dei trattati internazionali e portano avanti i loro massacri”.
Avevi ragione. Eppure. Nonostante la tua ragione, là in Rojava c’era ancora chi sognava, lottava, e moriva.
I curdi non avevano proclamato uno Stato indipendente. Ma cercavano di dare vita a una regione autonoma, dove cristiani, mussulmani, arabi, curdi, peshmerga, yazydi, potessero vivere in pace. Dove ogni popolo potesse pregare il suo dio.
Come vedi ci troviamo ancora davanti a uno di quei ma, che alla fine hanno costruito un solco insormontabile tra me e te.

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