
Dopo la guerra c’era una voglia di ballare che faceva luce.
Sono parole di Francesco Guccini, che ben rappresentano lo stato d’animo di chi, il 25 aprile 1945, ritrovava la gioia di vivere dopo una lunga stagione di tragedie, coincisa con il regime fascista e con la prima guerra “totale”, cioè con il pieno e drammatico coinvolgimento della popolazione civile.
Il 25 aprile è diventato festa nazionale nel 1946, prima della nascita della Repubblica, su proposta dell’allora Presidente del consiglio Alcide de Gasperi, democristiano a capo di un governo di coalizione, e, a dispetto degli “smemorati” e dei nostalgici di Benito Mussolini, rappresenta l’unità delle culture politiche da cui si generarono le radici della democrazia, comprese quelle comunista, socialista e azionista. Coloro che presero parte alla Resistenza mai dimenticarono la durezza della lotta e i sacrifici di chi, con il determinante aiuto degli anglo-americani, ha consentito che la libertà non fosse solo un valore astratto in cui credere ma anche un elemento molto concreto nella vita di tutti i giorni dei cittadini della Repubblica italiana. Persino di coloro, una minoranza, ma sempre troppo ampia, che nella democrazia non si riconoscono e che, senza riflettere minimamente sul senso delle loro stesse parole, ne usufruiscono inneggiando alla sua cancellazione.
Vittorio Foa, ostile a ogni forma di retorica, chiarì con grande efficacia la differenza tra fascismo e antifascismo durante un colloquio pubblico con Giorgio Pisanò, senatore, tra i fondatori del Movimento Sociale Italiano, erede dichiarato della Repubblica di Salò, fino alla fine alleata dei nazisti nella realizzazione della Shoah e nella feroce repressione dei partigiani. Quando Pisanò disse che, in fondo, tutti erano degni di rispetto perché avevano sì combattuto su fronti diversi ma per il bene della patria, certo diversamente declinata, Foa lo interruppe. Gli spiegò, con gentile fermezza, l’impossibilità di avvicinare i due fronti: “un momento. Se si parla di morti, va bene. I morti sono morti: rispettiamoli tutti. Ma se si parla di quando erano vivi, erano diversi. Se aveste vinto voi, io sarei ancora in prigione. Siccome abbiamo vinto noi, tu sei senatore”. Foa, militante di Giustizia e Libertà all’inizio degli anni Trenta, durante la Resistenza dirigente del Partito d’Azione e poi deputato dell’Assemblea Costituente, era rimasto in galera otto anni e tre mesi per aver scritto alcuni articoli di critica al corporativismo fascista e per aver svolto attività politica considerata “sovversiva” da un regime liberticida e totalitario. Ecco, è proprio questo il punto: da una parte la libertà e l’inclusione, dall’altra l’oppressione e il carcere. Non tutte le ragioni erano uguali, quelle dei vinti erano sbagliate anche quando portate avanti in buona fede.
La storia è, per definizione, una scienza umana sottoposta a costante revisione, ma bisogna evitare di fare confusione tra il sano revisionismo e l’oltraggiosa alterazione della realtà. Scrisse Foa nell’aprile del 1993, agli albori della cosiddetta Seconda Repubblica: “il revisionismo è indispensabile se aggiorna o cambia le interpretazioni, è intollerabile se nega i fatti. E il confine tra l’indispensabile e l’intollerabile a volte si confonde”.
Buon 25 aprile a tutti.
Andrea Ricciardi
-----------------------------
-----------------------------
Se sei giunto fin qui vuol dire che l'articolo potrebbe esserti piaciuto.
Usiamo i social in maniera costruttiva.
Condividi l'articolo.
Condividi la cultura.
Grazie