
Ebbene essere chiari: l'Accordo di Abramo non è un accordo di pace. Lo spiega bene Annalisa Perteghella di ISPI quando precisa che «i paesi in questione non sono mai stati formalmente in guerra; in secondo luogo perché non coinvolgendo la componente palestinese esso non rappresenta un avanzamento del processo di pace. È semmai la ratificazione dell'esistente, l'ufficializzazione di relazioni in corso da anni a livello non ufficiale».
Dal punto di vista della politica estera di Donald Trump è un passaggio fondamentale nel processo di ridefinizione dell'assetto geopolitico del Medio Oriente. Il progetto di ridimensionare o annullare l'influenza dell'Iran nella regione, oltre ad un sostegno pieno ad Israele anche per far uscire dall'isolamento di Tel Aviv tra i paesi arabi, fa un ulteriore passo, iniziato con la ricusazione dell'Accordo sul nucleare con Teheran voluto dal suo predecessore Obama.
Questo accordo consentirà alla luce del sole una maggiore cooperazione tecnologica, sulla sicurezza e commerciale e di sicurezza con Israele e consentirà la vendita di armi americani all'emiro. Israele si è impegnato a non proseguire nella politica di annessione come se fosse un suo diritto.
Israele, Emirati Arabi Uniti (EAU) e Bahrein sono gli attori, sotto l'egida saudita e soprattutto americana, che in pompa magna alla Casa Bianca hanno apposto la firma su questo accordo e lo si è fatto negli stessi giorni in cui ventisette anni fa avveniva la storica stretta di mano dopo la firma degli Accordi di Pace di Oslo tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat.
I tempi di questa firma sono anche figli delle urgenze interne dei vari protagonisti a partire da Trump che è in grande svantaggio per le elezioni del 3 Novembre e può raccontare di un successo diplomatico perché finora, nonostante abbia sbandierato ai quattro venti la sua capacità negoziale, non è ancora riuscito a portare concretezza ai negoziati come ai colloqui di pace nordcoreani e afghani.
Lo stesso Netanyahu da questo accordo, che lo ha portato nuovamente alla Casa Bianca in pompa magna, ottiene un paravento alle sue sconfitte, da quelle elettorale non riuscendo ad avere una maggioranza parlamentare all'accusa di corruzione per finire alle critiche per la gestione della pandemia da Covid-19 che ha riportato il paese ad un lockdown totale.
E non è molto diversa la situazione, secondo l'editoriale di The Observer, per lo sceicco Mohammed bin ‘ayed Al Nahyan, principe ereditario degli Emirati Arabi Uniti il cui «sostegno alla disastrosa guerra a guida saudita nello Yemen e la sua intromissione in Libia hanno danneggiato la sua posizione internazionale e del suo paese» [2].
Questo accordo è un errore storico. Non si può pensare ad una risoluzione duratura di uno dei principali problemi in Medio Oriente isolandone una delle parti in causa. Un popolo non può continuare a vivere in una prigione a cielo aperto come per coloro che vivono nella Striscia di Gaza, senza poter darsi le proprie leggi, governare i propri territori e sotto la costante minaccia di occupazioni illegali. L'unica soluzione di pace duratura è quella di due Stati.
L'accordo è stata considerata dai palestinesi una pugnalata alle spalle. A Ramallah la situazione continua a peggiorare per mancanza di fondi per la crisi economica e per le donazioni diminuite di molto e che potrebbero diminuire ulteriormente perché gli Emirati si potrebbero tirare indietro. La leadership dell'Anp e di Abu Mazen vacilla, con critiche estese. Il Centro Palestinese per Ricerca politica ha pubblicato un sondaggio che «che se elezioni presidenziali si tenessero oggi in Cisgiordania e Gaza, le vincerebbe il leader di Hamas Ismail Haniyeh con il 52% dei voti. Il 61% degli intervistati vuole che Abu Mazen si dimetta. Il 62% inoltre attribuisce al fallimento della diplomazia palestinese la virata di Emirati e Bahrain dalla parte di Israele. Resta immutato il carisma di Marwan Barghouti, alto dirigente di Fatah incarcerato da 18 anni in Israele e considerato il «Nelson Mandela» della Palestina. Se fosse lui e non Abu Mazen a sfidare Ismail Haniyeh riceverebbe il 55% dei voti» [3].
Il fronte arabo non è più compatto. Non lo era già da tempo ma è stato formalizzato quanto di sotterraneo già c'era. I palestinesi rischiano di essere sempre più isolati, abbandonati al loro destino. Le voci di un ulteriore allargamento di questo fronte sono diverse: uno dei primi paesi sarebbe l'Oman, il cui ambasciatore negli USA era a Washington durante la firma, poi il Sudan e il Marocco «dopo che è stata annunciata una linea aerea diretta Tel Aviv – Casablanca. Già oggi esiste de facto una sorta di normalizzazione con il Paese magrebino: centinaia di migliaia di israeliani visitano ogni anno il Marocco grazie a un permesso speciale concesso dal Re, […]. E pure dal Libano si fanno sentire voci di approvazione: il giornalista libanese Nadim Koteich ha scritto su Asharq Al-Awsat che “il Libano dovrebbe essere il prossimo Paese a fare la pace con Israele”, per ripudiare Hezbollah aggregandosi all'asse anti-iraniano in Medio Oriente» [4].
Anche l'Europa fa poco o nulla per difendere il diritto dei palestinesi alla loro terra e per difendere le risoluzioni internazionali che accusano Israele.
Ma intese che si basano sull'ingiustizia hanno le gambe corte e possono essere foriere di crisi ancora più drammatice. La pace si fa in due.
Pasquale Esposito
[1] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/israele-emirati-e-bahrein-laccordo-di-trump-27416
[2] “The Observer view on the ‘historic' Middle East breakthrough”, https://www.theguardian.com/commentisfree/2020/aug/16/the-observer-view-on-the-historic-middle-east-breakthrough, 16 agosto 2020
[3] Michele Giorgio, “Dopo l'Accordo di Abramo, Abu Mazen al bivio”, https://ilmanifesto.it/dopo-laccordo-di-abramo-abu-mazen-al-bivio/, 17 settembre 2020
[4] Sharon Nizza, “Il nuovo Medio Oriente che emerge dall'accordo Israele-Emirati-Bahrein”, https://www.repubblica.it/esteri/2020/09/16/news/accordo_nuovo_medio_oriente-267492054/?ref=RHPPTP-BH-I267499572-C12-P5-S1.4-T1, 16 settembre 2020
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