
Ha ragione Lucio Caracciolo, il direttore di “Limes”, quando in un recente articolo in poche righe sintetizza le vicende di quella Nazione da sempre in guerra contro tutti: ”Il territorio afghano… misura da un paio di secoli la temperatura dei grandi o miseri giochi che le potenze ingaggiano nel cuore impervio dell'Asia” [1].
Per buona parte del XIX secolo quel territorio impervio, incastonato e quasi schiacciato fra Persia – ora Iran – e il nord-est dell'India – ora Pakistan, è stato il teatro di scontri fra l'Impero britannico e quello russo zarista, preoccupati rispettivamente di impedire l'espansione russa in Persia e quella inglese proprio in Afghanistan. Quest'ultimo riuscì, pur non conquistandone l'intero territorio, a stabilire un controllo effettivo sulla politica estera di Kabul ma non fino al punto di condizionarne l'entrata come alleato nel Primo conflitto Mondiale.
Agli inizi degli anni '50 l'Afghanistan strinse una salda relazione con l'Unione Sovietica in funzione anti Pakistan il che scatenò, nel corso degli anni, una violenta lotta politica fra i partiti sostenitori dell'accordo con i sovietici e le formazioni conservatrici e monarchiche fino a quando, nel 1978 dopo un colpo di stato guidato dal partito comunista filo sovietico, si formò un Consiglio Rivoluzionario che diede vita alla Repubblica Democratica dell'Afghanistan ovviamente sorretta dall'Unione Sovietica.
Furono avviate riforme profonde e sostanziali che, pur non toccando le gerarchie religiose islamiche, di fatto le privavano di molti benefici. Come conseguenza, furono proprio le autorità religiose a scatenare una opposizione armata proclamando la “jihad” – cioè la guerra santa – che fu combattuta dai mujaheddin contro il governo comunista. Nel 1979, dopo l'entrata delle truppe sovietiche a Kabul a supporto del governo, gli USA con l'Amministrazione Carter iniziarono a inviare aiuti militari ai mujaheddin per ristabilire un bilanciamento strategico in quella zona dopo aver perso il controllo sulla Persia con la presa del potere da parte di Khomeini.
L'Afghanistan sopportò altri 10 lunghi anni di guerra, tra le forze armate russe e i mujaheddin sorretti e riforniti di armi dagli Stati Uniti, che culminarono con l'abbandono del Paese da parte dei Sovietici nel 1989, il che permise, nel 1992, la proclamazione dello Stato Islamico dell'Afghanistan. Al governo del nascente Stato si insediarono i talebani, cioè la fazione più conservatrice dello schieramento dei mujaheddin, che per prima cosa instaurarono una versione corretta e restrittiva della shari'ah, cioè un complesso di regole di vita e di comportamenti dettate da Dio per la condotta morale, religiosa e giuridica dei suoi fedeli.
Ma il calvario per quella Nazione e per i suoi cittadini è solo all'inizio, potremmo dire, perché dopo l'attentato alle Torri Gemelli del settembre 2001 gli Stati Uniti decisero di invadere l'Afghanistan e annientare i talebani sorretti da al-Qa'ida guidato da Osama Bin Laden.
Sono altri 20 anni di guerra fra le montagne dove si scontrano forze USA appoggiate dai contingenti NATO, fra cui ovviamente l'Italia, e i quasi inafferrabili talebani tanto che l'Amministrazione Trump decide nel gennaio del 2020 di ritirarsi definitivamente dal terreno afgano, cosa che come sappiamo è avvenuta e sta avvenendo in questi giorni, lasciandone l'attuazione al suo successore Biden.
Guardando alla sua storia, non si può non provare un senso di smarrimento e di angoscia per la sorte toccata a questa Nazione, fatta di uomini e donne fieri e coraggiosi, abituati a combattere contro tutto e contro tutti ma, più che altro, ora dovranno annoverare fra le cose da non fare quella di concedere la massima fiducia a chiunque si avventuri ancora una volta nella loro terra.
Commentare quello che sta accadendo in queste ore in Afghanistan e nel mondo Occidentale è abbastanza arduo, sia perché la situazione in loco è in continua mutazione sia perché ancora una volta bisogna ripetere quello che negli anni passati era stato quasi urlato dai tanti osservatori di politica estera.
Quasi si potrebbe fare una tabella decrescente formata da semplici slogan, corti ed essenziali, degli errori commessi coscientemente e delle loro conseguenze.
Con la fine di questa guerra si è sgretolato il principio, ingiustificato e malsano, che la democrazia liberale – nelle forme e nei modi a noi occidentali cari – possa essere esportata sempre e comunque in ogni parte del mondo. Dietro la volontà di esportare la democrazia c'è quasi sempre la convinzione della superiorità dei sistemi politici occidentali, oltre a biechi interessi economici su tutti gli altri, come ad esempio quello tribale, largamente utilizzato non solo in Afghanistan ma anche in Libia. L'innesto di principi di democrazia liberale sono alla fine avvenuti sempre la forza direi quasi ottocentesca, delle baionette che per troppi non sono mai passate di moda, e non con il confronto di idee.
La drammatica storia dell'Afghanistan di questi ultimi decenni ha negli USA uno dei maggiori responsabili.
Il presidente Joe Biden già al corrente al momento della sua elezione che avrebbe dovuto sbucciare la patata bollente afghana, ora quasi si vergogna in diretta tv per il disonore che è caduto sull'America causa la sconfitta o mancata vittoria, il distinguo fra i due termini non è di poco conto, parzialmente recuperabile solo forse agli occhi di una parte della Nazione – quella più sensibile alla salvaguardia dei diritti umani – accogliendo i profughi afghani e fra questi quelli che hanno collaborato per vent'anni con i militari sul campo.
In questa spirale di sconsiderata voglia espansionistica e di colonizzazione del mondo, sorretta e sponsorizzata dallo strapotere delle aziende operanti nel campo militare della Difesa, si sono alternati al comando delle operazioni tutti i Presidenti americani, iniziando da Jimmy Carter fino a Trump, passando per Reagan, Clinton, fino a George W. Bush – quello cioè che obbligò il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito Colin Powell a dire in mondo visione che Saddam Hussein aveva stoccato armi chimiche di sterminio – e poi a Obama, persona degnissima e nel cuore di tutti, ma che ha ha mancato di commettere errori in politica estera.
L'Europa, non priva di enormi responsabilità, l'altro giorno con Josep Borrell, Alto Rappresentante dell'Unione Europea per gli Affari Esteri, di fronte alla disponibilità di aperture politiche ai talebani da parte delle tempestive Cina e Russia, ha riconosciuto di fronte al Parlamento europeo, con senso di realismo e coraggio morale, il totale fallimento dei venti anni di sforzi per “liberare” l'Afghanistan dalla barbarie talebana.
Ha poi aggiunto: ”La Russia e la Cina non possono intervenire e sostenere Kabul e noi essere completamente messi da parte”[2]. Ma anche queste parole dell'Europa sembrano più quelle di chi deve continuare a controllare che di chi deve dare una mano dopo aver fatto danni. Mi sembra che noi europei ancora una volta facciamo come il lupo: perdiamo il pelo ma non il vizio. Il vizio di sfoggiare arroganza e supponenza, di voler insegnare a tutti le “buone maniere”. Saranno i talebani o il nuovo governo che si insedierà a Kabul a decidere con chi parlare.
Ma c'è di più, perché il Premier inglese Johnson ha chiesto con urgenza la convocazione del G7 per studiare la situazione, ormai in caduta libera. Lo si farà al più presto, puntando però gli occhi in una malcelata forma di strabismo politico, al sontuoso e più stimolante G20, presieduto dall'Italia, dove, oltre alla presenza degli Stati Uniti, saranno ospiti forse una tantum i pesi massimi Cina e India.
Questa assemblea plenaria e planetaria mi fa venire in mente il film “Pirati dei Caraibi”, proprio la scena memorabile della riunione della “Fratellanza dei Pirati” dove, appunto, tutti i capi delle varie bande piratesche decidono come fare per spartirsi l'immenso bottino in parti pressoché uguali.
Poi c'è la grande paura di questi giorni in Europa e che va sotto il nome di profughi dall'Afghanistan. E l'obiettivo è quello di impedire al più alto numero possibile di diseredati di arrivare dalle nostre parti nonostante siano ancora una volta figli delle nostre guerre.
Comunque vada, l'Occidente ha ancora con questo G20 una grande opportunità. Quella di provare a riordinare le fila della politica estera affinché sia meno quella della cannoniere e più quella dell'aiuto allo sviluppo e a rapporti basati sul dialogo. Ma i dubbi che ciò accada sono quasi una certezza.
Stefano Ferrarese
Note:
[1] Lucio Caracciolo, “Grandi e miseri giochi di potenza sullo scalpo dell'Afghanistan” – Limes, 18/8/2021
[2] Josep Borrell “bbiamo fallito, stop a fondi UE per lo sviluppo e aiutiamo il popolo” – Rai News Europa, 19/8/2021
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