
Dopo aver passato le serate pre-estive davanti alle otto stagioni di “Game of Thrones”, ho utilizzato la soluzione dello streaming per animare anche le mie sere d'agosto, nel tentativo di rendere meno opprimente il consueto vuoto pneumatico televisivo tipico della stagione. I risultati non sono stati sempre buoni anzi, direi che la delusione ha fatto spesso capolino, nonostante sia riuscita ad evitare “ostacoli” seriali di lampante mediocrità. Ma il mondo della serie è ricco, finanche ingolfato; alla fine qualcosa che stuzzichi la curiosità si trova.
Dopo aver eliminato d'emblée “Hudson & Rex”, remake del “Commissario Rex” austriaco, ambientato in Canada e con il pronipote canino del lupo capostipite come co-protagonista; essere rimasta indifferente alla ragazzina di “The Rook” che si risveglia da un lungo stato di incoscienza per scoprirsi con poteri speciali e con un sicario alle calcagna; essere passata oltre l'ennesima pan-epidemia virale che risparmia solo due fratelli adolescenti in “The Rain”, sono inciampata in “The Alienist”.

Il drammone tra poliziesco e metafisico, ispirato al romanzo omonimo di Caleb Carr è molto truce e non lesina immagini di omicidi efferati e personaggi altrettanto atroci. La storia si svolge nella New York del 1896 e prende avvio dal ritrovamento del cadavere di un ragazzo mutilato barbaramente; la ricerca dell'assassino coinvolge uno psichiatra criminale e alienista, un artista illustratore, il nuovo commissario incaricato delle indagini e la di lui segretaria. Efferatezze a parte, la sceneggiatura è pesante e direi anche piuttosto indigesta; sin dal primo episodio la verbosità dei protagonisti, soprattutto del medico, così ricca di cliché pseudo-intellettuali ha calato un macigno su attenzione e coinvolgimento, uccidendo l'entusiasmo.
La frustrazione e la canicola dei pomeriggi romani hanno comunque rafforzato la volontà a godere del fresco ventilato del mio comodo domicilio. Benché ammetta di essere uno spettatore piuttosto difficile da accontentare, in nome di fiacca e pigrizia non ho dichiarato la resa e memore dell'entusiasmo della giovane nobile Pia di “Non ci resta che piangere”, ho fatto mio il suo mantra “provare, provare, provare…” . E così nel tunnel si è aperta una luminosa finestrella grazie all'esperienza di Stephen Frears e alle capacità di arguzia e narrazione di Nick Hornby e il loro “The State of the Union”.

Il matrimonio in crisi messo in scena dal regista e dallo scrittore è tutt'altro che un déjà vu, sia perché gli episodi non durano più di 10 minuti, sia perché l'idea di far incontrare i due coniugi nel pub di fronte allo studio del loro consulente matrimoniale poco prima dell'appuntamento, non permette alcuna lungaggine. La penna di Hornby sceneggiatore è la stessa dei suoi romanzi, analitica e sagace e i due protagonisti, Rosamunde Pyke e Chris O'Dowd, sono particolarmente capaci nel rendere effervescente ogni battuta: riflessioni scapigliate sulla propria unione, sul tempo speso dal consulente, gli errori, le paure; ci scappa anche qualche riferimento alle contraddizioni politico-sociali del nostro tempo, sempre però letti all'interno della sfera della coppia che i due formano da oltre 10 anni.
Visione piacevole e divertente, ma purtroppo si è trattato di poco più di un'ora e mezzo di spettacolo. E quindi ho dovuto riprendere la ricerca il giorno dopo.
Scoraggiata dal breve ma dissuasivo riassunto di presentazione di “The Kids are Alright”, sono finita davanti al reboot “BH 90210” e mi ci sono trattenuta un tempo minimo per autentica curiosità; me ne sono pentita immediatamente. Dopo 25 minuti ho ripreso la ricerca. Il ritorno un po' ammaccato degli ex teen-ager di “Beverly Hills 90210” che negli anni '90 batterono ogni record di incassi e fama, rasenta pericolosamente il patetico. Non sono la sola: l'esperimento ideato e scritto da due delle protagoniste, Jennie Garth e Tori Spelling, non ha convinto neppure il pubblico USA. Difficile per tutti dunque, ascoltare le chiacchiere nevrotiche del gruppo di ultra quarantenni (quasi cinquantenni) sulla fama di ieri che nessuno di loro ha saputo trasformare in una autorevole carriera.

Poi di nuovo ho avuto fortuna, con la scoperta di un'altra serie in costume “The Long Song”, ispirata all'omonimo romanzo di Andrea Levy pubblicato nel 2011 da Dalai Editore. È la storia struggente di July, giovane schiava in una piantagione di canna da zucchero della Giamaica degli inizi ‘800, attraverso la quale si disamina la schiavitù più crudele di cui anche gli inglesi furono maestri.
Trasmesso in Gran Bretagna a fine 2018, il racconto si sviluppa in tre episodi e, nonostante la drammaticità degli eventi non manca una lettura anche ironica; ma il riso beffardo degli schiavi davanti all'inettitudine dei loro padroni sottolinea la tragicità della storia, e dimostra che anche il più convinto fautore della libertà può diventare il più feroce degli schiavisti che ha scacciato e sostituito.
Molto sangue, dolore e rabbia prima dell'ultimo riscatto.

Poi d'un sol balzo dal passato al futuro con Luchshe, chem lyudi (Better than Us), serie tv russa in otto episodi ambientata in un domani non poi così lontano dal nostro oggi, in cui accanto agli uomini lavorano robot imperturbabili ma solerti e competenti. In realtà questi uomini-macchina non lavorano solamente, ci sono anche dei robot femmina molto belli e sopratutto accondiscendenti, destinati ad una compagnia intima e perlopiù maschile. Alla consuetudine del robot senza pensieri né emozioni si affaccia l'ovvia eccezione: il robot femmina Arisa, particolarmente pericolosa, decide di trovare da sola un “carica-batterie” e allontanandosi dalla Cronos, la società che l'ha acquistata, vaga sola per le vie della città. Nonostante le autorità e il CEO della Cronos si lancino in una caccia senza quartiere, il robot trova rifugio nella casa di una bambina. La vicenda non è particolarmente appassionante; e anche qui ci sono parecchi cliché: da una parte gli uomini con i soliti problemi di relazione interpersonale e dall'altra robot che invece destabilizzano mostrando una crescente autonomia. I cattivi molto crudeli e i buoni piuttosto ingenui.
Ho concluso il mio personale “festival d'agosto” con la docu-fiction “The Last Czars”, racconto del breve e tragico impero russo di Nicola II. Una pessima idea!
Mai documentario è stato così ricco di imprecisioni se non addirittura di madornali errori. L'alternanza di fiction, con tanto di attori, regia e sceneggiatura, e di interventi di studiosi e storici universitari, infiacchisce il coinvolgimento e purtroppo non informa correttamente. Fra stereotipi e banalizzazioni ci ritroviamo davanti a scene di sesso sfrenato tra zar e zarina allo scopo di generare il sospirato erede maschio che si avvicendano a filmati e fotografie originali dei più tragici avvenimenti legati al crollo economico del Paese e alla nascente idea rivoluzionaria. Un pot-pourri caotico e frammentario, che non è in grado di perseguire la propria ambizione e raccontare in immagini e in documenti un periodo fondamentale della storia europea del primo ‘900.
Esausta dopo tanto guardare e poco apprezzare, torno allo schermo nero e alla sana e silenziosa compagnia di un buon libro. E magari riprendo in mano proprio un grande russo.
V. Ch.
-----------------------------
-----------------------------
Se sei giunto fin qui vuol dire che l'articolo potrebbe esserti piaciuto.
Usiamo i social in maniera costruttiva.
Condividi l'articolo.
Condividi la cultura.
Grazie