
– Da come si descrive, sembrerebbe un uomo tutto d’un pezzo e mi pare di capire che la decisione di diventare una guardia carceraria sia stata presa dopo un ragionamento per nulla superficiale.
Certo, nascere in Sicilia e in un paese con quella tradizione mafiosa, non poteva lasciare spazi a compromessi; o di qua o di là. Ha avuto un bel coraggio.
Ah… le ha girate quasi tutte le carceri e poi… anche quelle di sicurezza. Interessante. Mi ha fatto venire un’idea. Dice di aver conosciuto Dalla Chiesa. Bene, vediamo se può spiegarmi i meccanismi nascosti del carcere duro… si, si, gli chiederò proprio questo -.
Ora Sebastiano si sentiva totalmente compreso nella parte, quella cioè che aveva sempre svolto; fare domande, fare indagini e cercare di capire per poi trasmettere ai lettori. Al momento questi ultimi non erano ancora previsti; ogni notizia che avrebbe ricavato da quel colloquio epistolare, sarebbe rimasta a lui o, quantomeno, nella comune disponibilità, e sapere di condividere qualcosa con uno sconosciuto – almeno al momento – lo spingeva a rispondere con passione ed anche con furbizia a quel Brandimarte desideroso solo di raccontare il mondo delle carceri dal suo punto di vista.
Cortese Signor Brandimarte,
ho letto con piacere e molta attenzione la sua ultima lettera e devo riconoscerle una capacità descrittiva ed una fluidità nel linguaggio che credevo ormai scomparse con l’avvento del computer.
Tutto ciò le fa onore come le motivazioni che lo hanno indotto a svolgere quel servizio che, come dice bene lei, non si abbraccia per scalare l’albero della cuccagna statale, bensì lo si può affrontare soltanto se sorretti da solide convinzioni che, intuisco, non l’hanno mai abbandonato in tutta la sua vita.
Personalmente, come lei saprà avendo avuto la pazienza di leggere i miei articoli e i miei libri, ho sempre pensato – e ad oggi non ho cambiato idea – che il mondo carcerario e la sua amministrazione rappresentassero lo specchio del Paese.
Intendo dire che nella creazione delle norme per la gestione di quel serbatoio di uomini che, più o meno volontariamente, si sono posti al di fuori delle regole civili, si riflettono non solo i principi universali del rispetto della vita umana qualunque essa sia, ma anche – in forme non sempre chiare e manifeste – le nostre più recondite idee e convinzioni che se espresse, appunto, in forma libera, al di fuori, diciamo, della protezione normativa, potrebbero causare molti più danni di quelli prodotti da chi è detenuto.
Quando scrissi nel 1977 il libro “Scordiamoci di loro” del quale, purtroppo, non possiedo più copie, volevo intendere proprio quello che ho espresso nelle righe che precedono.
Il sentimento se non comune, almeno prevalente, di abbandonare ad un oblio totale chiunque fosse stato segnato da una condanna. Ecco che tutto ciò mi avvicina alla seconda parte della sua lettera, lì dove cita le carceri speciali.
Devo dire che pur avendo mantenuto vivo l’interesse per l’argomento in discussione, non sono mai stato in grado di approfondire l’argomento e, per tanto, le sarei grato se potesse fornirmi elementi per una personale riflessione su quei luoghi di detenzione, sperando di non arrecarle eccessivo disturbo con la mia richiesta.
La ringrazio e le invio i miei saluti.
Sebastiano Colli
Quando la lettera di risposta raggiunse Angelo, questi non stava più nella pelle.
Tante erano le cose che gli correvano per la testa; ad esempio che aveva fatto bene a rompere ogni indugio e scrivere quel primo messaggio al famoso giornalista-scrittore; poi era inorgoglito dai complimenti che Colli gli aveva espresso riguardo la scrittura e la sua rettitudine morale ed in ultimo, provava un profondo senso di appagamento nell’apprendere, da chi reputava più colto ed istruito di lui, che le memorie di una guardia carceraria non potevano essere considerate alla stregua di un banale racconto bensì, se ben trattate, delle importanti fonti per capire il mondo dei reclusi.
Angelo ora aveva ben chiara la situazione; il ghiaccio era stato rotto e, dal tono delle lettere, anche con discreto successo.
Quindi capì che non poteva commettere errori nella compilazione della lettera di risposta che ora sarebbe dovuta essere ricca di notizie, ma anche contornata dai suoi giudizi e dalle sue valutazioni dato che, trentacinque anni di servizio, non erano trascorsi senza permettergli di formarsi una opinione.
Tutto sembrava procedere sotto i migliori auspici; non era trascorso neppure un mese da quando si era deciso ad inviare la prima richiesta di contatto ed ora che aveva ricevuto una incondizionata accettazione della sua proposta, Angelo avvertiva vivo quasi un senso di repulsione per quello che aveva fatto.
Non riusciva a capirne razionalmente il motivo del passaggio repentino dall’euforia allo scoramento; per tanti anni aveva tenuto repressa questa voglia di scrivere, di far conoscere la sua storia, di spiegare, a chi avesse voluto ascoltare, che cosa significasse vivere accanto ai detenuti ed ora, come un fulmine a ciel sereno, sentiva perdere quella spinta che lo aveva portato ad aprirsi e a mettere sul tavolo del confronto tutto quello che aveva da dire.
Adesso, al contrario, provava maggior conforto nel ritrarsi a riccio, scomparire quasi dalla circolazione, stracciare – se solo avesse potuto – quelle lettere e dire a Colli: ”Scusi del disturbo, ma non me la sento di mettere allo scoperto la mia vita. Anzi, le dirò di più. Si dimentichi di Angelo Brandimarte”.
Ecco quale era il punto. La sua pudicizia morale, la mai confessata vergogna, provata ogniqualvolta avesse dovuto parlare di sé stesso.
Una riservatezza eccessiva, quasi patologica, gli aveva sempre precluso la possibilità di manifestarsi compiutamente nei confronti degli altri. Erano questi che dovevano attaccarlo, quasi aggredirlo, strappargli di dosso quell’armatura che lo proteggeva da ogni possibile attacco.
Ma quanti erano interessati a farlo? A chi stava a cuore la sua persona?
Sebastiano Colli, con semplicità e naturalezza, gli aveva aperto tutte le porte, invitandolo a parlare garantendogli l’interesse per quello che avrebbe detto, forse senza fare commenti o esprimere giudizi.
Sentiva che doveva fidarsi di quell’uomo; poteva fidarsi.
Forse fino al punto di raccontargli la storia della sua famiglia e di quel cognome che con la Sicilia aveva nulla a che fare.
Angelo doveva convincersi che la strada che aveva imboccato era quella giusta e che forse, solo in tarda età, proprio percorrendola fino in fondo avrebbe potuto liberarsi anche da quella predisposizione alla diffidenza, al sospetto, l’ultimo subdolo legame con la cultura della sua Terra.
La sua battaglia interiore ora divampava senza tregua; lo scontro non prevedeva compromessi di sorta. Un solo sentimento sarebbe stato vincitore. A lui toccava la scelta.
Mentre questi pensieri si affollavano nella sua mente, senza accorgersene Angelo si ritrovò seduto al tavolo con la penna in mano, fissa sul vertice alto del foglio di carta bianca.
Come colpito da una frustata, la sua mano prese a correre iniziando quel racconto confessione che lo avrebbe reso libero con sé stesso.
Gentile Dottor Colli,
ricevere la sua lettera è stato per me motivo di gioia e di soddisfazione. Mi ha confortato sapere che ancora prova interesse per un argomento da molti ritenuto tabù.
Mi accingo quindi con rinnovato vigore a mettere a sua disposizione tutte le notizie in mio possesso accompagnate dalle mie personali valutazioni che, spero, possano da lei essere condivise. Ho davanti a me la sua lettera dove, con la precisione e l’obiettività che l’hanno sempre contraddistinta, riassume i principi giuridici che regolano la detenzione carceraria. Ma attenzione, non possiamo generalizzare; una cosa è il carcere, un’altra è il carcere di massima sicurezza.
Come lei saprà, queste strutture furono pensate ed attivate nell’estate del 1992, in pratica subito dopo gli attentati che fece la mafia a Roma e Firenze. Furono scelte località in parte disagiate che già ospitavano carceri ed altre furono appositamente individuate perché presentavano caratteristiche di deterrenza assoluta.
Tutto fu pensato in funzione di un solo obiettivo, che non era quello di togliere dalla circolazione pericolosi criminali, bensì quello più sofisticato di bruciare quei cervelli malati, mi passi il termine, lasciandoli però fisicamente in piedi; insomma, provo a sintetizzare, si voleva salvare la facciata di legalità dello Stato che distribuisce giustamente la condanna, per poi spegnere i riflettori su come quella condanna venisse scontata.
Ho provato a sintetizzare, dottor Colli, le convinzioni che ho acquisito avendo prestato servizio presso uno di quei carceri e cioè quello di Pianosa.
Forse potrà trovare superfluo o addirittura marginale, rispetto al principio della sicurezza, la descrizione che vorrei farle di quel carcere, definito da qualcuno la Cayenna italiana.
La struttura del carcere che ha ospitato quegli ergastolani era il padiglione ‘Agrippa’ che aveva al suo interno i rinomati Reparti Speciali.
Celle singole inferiori ai 20 mq., con una panca e un tavolino in ferro, tutto saldato a terra.
Era consentito un’ora d’aria, e di luce, che si potevano godere in una apposita stanza. L’isolamento in cella era di 23 ore.
Va da sé, che a questo trattamento erano sottoposti i boss mafiosi ed altri criminali, cioè tutti coloro che avevano il c.d. ‘ergastolo ostativo’ che non prevede la concessione di nessun beneficio di legge.
Sulla loro cartella era stampigliato, con l’inchiostro rosso, la famosa frase ‘Fine pena mai’ .
Io ho prestato servizio in quel carcere in due distinti periodi e nell’ultimo, agli inizi del 1998 anno in cui fu chiuso, mi sono imbattuto in un evento che credevo potesse essere pensato solo nei romanzi. Ma questo ritengo di non doverlo raccontare perché fa parte di un vissuto personale sul quale sto ancora riflettendo.
Ecco, questo era ed è il carcere duro. La necessità di questi trattamenti ci venne spiegata dal Generale Dalla Chiesa che, da quanto posso ricordare, era stato il teorizzatore di questa tecnica di annientamento che, a lungo andare, ha dato i suoi frutti se pensiamo – come ci dicono le statistiche – che la frequenza dei suicidi fra chi è soggetto al ’41 bis’ è di tre volte e mezzo superiore a quella riscontrata fra i detenuti comuni.
Insomma, dottor Colli, non ho la capacità di intrattenerla sugli aspetti sociologici di questa forma di detenzione, però una sensazione posso esternarla. Aver prestato servizio anche per pochi anni, ed in tempi diversi, in quella struttura, mi ha determinato un senso di temporaneo distacco, indotto, dal mio lavoro; avvertivo il fallimento della mia idea, anzi della mia certezza, e cioè quella di contribuire ad un ravvedimento del detenuto affinché trovasse le modalità per rientrare nella società.
Chissà, potrà apparirle singolare il fatto che vedere uscire dal carcere un detenuto, ha sempre significato per me il successo della Società, delle sue regole e del suo sistema.
Al contrario, in quegli anni, a me e ai miei compagni ci venne richiesto di accantonare quell’ idea per aderire a dei comportamenti che privilegiavano l’azione vendicativa dello Stato.
Forse, dottor Colli, la mia esternazione le potrà apparire grossolana e confusa, perché priva di un supporto culturale, ma le ricordo che provengo da una Terra che ha conosciuto da parte dello Stato solo quel tipo di comportamenti e per me, poter dimostrare con il mio lavoro, che la vicinanza alle difficoltà delle persone fosse uno degli strumenti che lo Stato potesse mettere in campo, era motivo di orgoglio.
Spero di non averla tediata con questo mio lungo panegirico, e con questa convinzione attendo i suoi commenti.
Con i migliori saluti.
Angelo Brandimarte
Stefano Ferrarese
L’albero della cuccagna è uno dei racconti della raccolta
Mettersi in gioco di Stefano Ferrarese
Casa Editrice Serena
pag. 219
€ 15,00
Copertina
Sarah Del Giudice
Mettersi in gioco
Opera in bronzo, 2008
Le successive puntate saranno pubblicate ogni sabato alle ore 15:00
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