Alice Dal Gobbo, ricercatrice per nuove “relazioni tra noi e il mondo”.

Alice Dal Gobbo
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Leggendo e ascoltando interventi di , quello che mi aveva colpito, in particolare sui temi connessi alla profonda connessione delle ecologie che ci circondano, è il connubio di leggerezza e acume analitico con cui sostiene la necessità di un capovolgimento totale del modello di produzione e consumo attuale «per renderlo compatibile con le ecologie planetarie». Filoni di studi e interventi, come avrete modo di leggere nell'intervista, che hanno nelle prospettive femministe un'urgenza per scardinare il «dominio materiale sulle donne che va di pari passo con la cancellazione e la svalorizzazione delle loro forme di sapere, di valore, di affettività che sono proprie del loro posizionamento» e per assicurare libertà e giustizia sostanziali. Femminismi che costituiscono, secondo Dal Gobbo, una parte fondamentale delle prospettive critiche sulla transizione socio-ecologica. Di questo e molto altro, dalla al , abbiamo parlato con lei.

Alice Dal Gobbo è ricercatrice presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell'Università di Trento. Autrice tra l'altro di di Vita quotidiana e materialismo sostenibile in Pellizzoni, L. (a cura di), Introduzione all'ecologia politica, Bologna: Il Mulino, 2023; Everyday Life Ecologies: Sustainability, Crisis, and Resistance, Lanham: Lexington Books; Rowman and Littlefield, 2023; Of post-animal meat and other forms of food innovation: a critical and intersectional reading from the perspective of political ecology in CONSUMPTION AND SOCIETY, v. 2, Bristol University Press; Per una critica del nesso donna/natura: il ecologico nella crisi capitalista in Quaderni della Decrescita, v. 0, n. 0 (2023

Chi è Alice Dal Gobbo oltre essere la valente ricercatrice al Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale all'Università di Trento? Quando e come nasce il suo pensiero sulla crisi ambientale?
È in parte difficile scindere me stessa dal lavoro che faccio, anche se ci tengo sempre a specificare che “io” sono molte cose oltre al mio lavoro. La mia vita è fatta di diverse traiettorie, alcune delle quali difficilmente conciliabili tra loro, e una parte del divertimento è stato definirmi in questo strano arcipelago. Ciò che mi muove maggiormente, in generale (nel lavoro, nel rapporto con le mobilitazioni sociali e l'agire collettivo, nelle relazioni personali), è la tensione, la volontà e la ricerca della trasformazione: delle pratiche, delle relazioni, delle narrazioni. Ho sempre avuto un brutto rapporto con l'“autorità”, soprattutto nella sua pretesa di definire alcune cose come fisse e immutabili – cose che spesso sono la giustificazione di disuguaglianze, di pratiche di dominio, sopraffazione, o semplicemente non-gioia. Quindi mi sono sempre chiesta: come vivere una vita bella? Quali potenze liberare per mettere in campo affetti gioiosi nelle relazioni tra noi stesse e il mondo (umano e non umano) intorno? Mi è sempre stato chiaro che queste domande hanno a che vedere con la giustizia e la libertà. Questo è anche ciò che guida il mio rapporto con la piccola creatura che ho messo al mondo un paio di anni fa e che occupa tanta parte della mia vita e del mio mondo affettivo. Ma è anche ciò che implicitamente ha sempre dato forma alla mia attenzione per i rapporti con le ecologie che ci circondano. Poi il fatto che questo sia diventato il tema centrale delle mie ricerche è stato in parte fortuito: la mia relatrice della tesi triennale all'Università di Cardiff si occupava di approcci psico-sociali alla crisi ecologica e quando abbiamo ragionato su proporre un progetto dottorale (e di Master), mi sono mossa con piacere in quell'ambito.

Cosa significa per lei fare ricerca? Intendo in senso “filosofico” e pratico? Qual è la sua opinione dello stato della ricerca e dell'Università in Italia? La ricerca è libera da impedimenti dalle fasi di pensiero al lavoro vero e proprio alla pubblicazione dei risultati o è definitivamente soggiogata ai principi aziendali?
Per me fare ricerca significa primariamente due cose: avvicinarsi al mondo, e trasformarsi. Se siamo abbastanza capaci e fortunate, significa anche riuscire contribuire a dei processi di cambiamento – nel senso in cui dicevo prima. In senso filosofico quindi significa “divenire”, tanto per citare il lavoro a me molto caro di Deleuze e Guattari: entrare in zone di prossimità dove l'io si disloca, si perde, e il cosiddetto “oggetto” della ricerca stesso appare come soggetto, agente di trasformazione e aperto. Ricerca poi è sempre una pratica situata, che parte dai corpi, necessita dei corpi e si svolge su diversi piani che includono la sensibilità tanto quanto i concetti, le parole e le immagini. Per questo la mia pratica preferita di ricerca è l'etnografia, e mi spiace ci sia sempre meno spazio per praticarla in contesti in cui l'accademia pretende risultati veloci e velocemente concretizzabili. Fare davvero ricerca richiede tempo, che poi significa anche cura e dedizione.
Per quanto riguarda il presente della ricerca in Italia, ci sono molte e fortissime energie creative, un gran numero di menti e corpi brillanti e capaci di fare ricerca al di fuori di ciò che è dato. Da un punto di vista istituzionale questo è un po' più complicato, spesso a volte la volontà di stare dentro spazi innovativi (dibattiti, pratiche, ecc.) non è valorizzato. Una parte è legata alla cultura, un'altra all'organizzazione burocratica (si pensi ad esempio alla difficoltà di fare ricerca inter- e trans-disciplinare nel contesto della estrema parcellizzazione dei settori disciplinari e concorsuali, e di ciò che in ognuno di questi si valorizza come “vera” ricerca). Il posizionamento soggettivo di chi fa ricerca è poi sempre un tema complesso e ambivalente in questo contesto: quanto dovremmo essere “neutrali” rispetto al contesto che studiamo? È possibile esserlo? Qual è il ruolo pubblico e politico della ricerca? Per quanto riguarda il tema dell'aziendalizzazione, sicuramente – e si tratta di un processo globale – siamo sempre più spinte a produrre (risultati, report, paper scientifici) e a farlo nel contesto di finanziamenti da bandi competitivi, che rivestono una parte fondamentale nel permettere a molte persone di entrare e sostenersi nel campo della ricerca. Tutto ciò produce precarietà e una corsa costante alla produttività. Ciò non significa che non sia possibile coltivare relazioni di cura sia all'interno dell'accademia che tra l'accademia e il suo esterno, io da questo punto di vista sono sempre stata molto fortunata, in particolare con il gruppo di ricerca con cui collaboro a Trento (Francesca Forno, Natalia Magnani, Michela Giovannini e Mattia Andreola) e con il gruppo di ricerca POE (Politica Ontologie Ecologie, che fa riferimento al prof. Luigi Pellizzoni): la mia “famiglia” accademica.

Lei si sta occupando del progetto europeo Sustainable Food Platforms: Enabling sustainable food practices through socio-technical innovation. Ricordando che il sistema alimentare globale contribuisce a circa il 20-30% del totale delle emissioni globali di gas serra, state studiando come l'innovazione socio-tecnica, in particolare le piattaforme orientate sia alle imprese piattaforme sia ai consumatori in Norvegia, Svezia, Germania, Italia e Irlanda, influisca sulle pratiche quotidiane di consumo alimentare, e sulle possibilità che essa fornisce per promuovere la loro sostenibilità. Ce ne parla? A che punto siamo nel nostro paese? Qualche esempio e risultato significativo?
Si tratta di un progetto che in realtà si è concluso un paio di anni fa. Era iniziato prima della pandemia, quando il tema del consumo alimentare in piattaforma era, soprattutto in Italia, davvero minoritario. Stavo facendo il lavoro di campo proprio quando è scoppiata la pandemia e – nonostante le difficoltà logistiche – penso che siamo state molto fortunate a poter studiare i processi di cambiamento che avvenivano durante il lockdown, e come e se questi si sarebbero stratificati e integrati nella vita quotidiana dopo il “ritorno alla normalità” (spoiler: pare che molte delle pratiche di consumo alimentare siano tornate alle abitudini pre-pandemiche).
Tornando al perché della ricerca: volevamo capire se e in che modo l'esistenza di piattaforme volte a connettere produzione e consumo di potesse favorire delle pratiche quotidiane più sostenibili non solo al livello dell'acquisto ma anche per esempio della pianificazione, della conservazione, dello scarto, ecc. All'epoca soltanto poche piattaforme erano davvero attive in Italia e principalmente erano localizzate nei grandi centri urbani, infatti noi ci siamo occupate di Milano, dove abbiamo comparato le pratiche di persone che utilizzavano queste piattaforme digitali con persone che invece consumavano attraverso canali “alternativi”, ma fisici (per es. i gruppi di acquisto solidale, GAS, o negozi biologici).
I risultati sono stati molto interessanti e significativi. Innanzitutto, le persone si avvicinano ai metodi di approvvigionamento alternativi principalmente alla ricerca di “cibo buono”: gustoso, certamente, ma anche salutare e sicuro, eco-compatibile (biologico, imballaggi ridotti), socialmente giusto, che offre un'esperienza di spesa più gradevole. Un elemento importante è la fiducia (nei marchi e negli organi certificatori, nella “filiera corta”, nel contatto personale). Il prezzo ha importanza, ma non nel senso della ricerca di prezzi bassi in assoluto – anzi, un prezzo eccessivamente basso viene visto con sospetto. L'effetto “collaterale” è che le persone diventano più attente a ciò che comprano, evitano acquisti compulsivi, pianificano maggiormente e imparano a utilizzare parti delle verdure che erano abituate a scartare. Ciò favorisce la sostenibilità diminuendo lo spreco: meno e/è meglio. Infine, in casa aumentano auto-produzione, consumo di prodotti freschi e verdura, diminuisce l'utilizzo di prodotti pronti. C'è maggiore inventività nelle ricette per includere tipi di cibo prima meno utilizzati o sconosciuti e maggiore attenzione ai metodi di conservazione per sperimentare forme meno impattanti e/o evitare lo spreco. Cambiano così anche le idee di “dieta buona”, con maggiore consapevolezza riguardo alla salubrità degli ingredienti e al loro bilanciamento, ma anche riguardo a temi ambientali e di benessere animale: spesso la partecipazione a canali auto-organizzati implica il passaggio a diete vegane o a forti riduzioni nel consumo di .
Una delle cose più significative che abbiamo notato è che c'è una differenza di motivazione nella scelta/uso di canali di acquisto auto-organizzati o “business”. Mentre per questi ultimi il cibo è il fine ultimo del consumo, per i primi il cibo è un mezzo per la promozione di rapporti sociali migliori: partecipazione, solidarietà, socialità, costruzione di sistemi alimentari equi ed ecologici. Ciò va oltre il “consumo sostenibile” a livello individuale e si articola in pratiche collettive, politiche: promozione attiva di sistemi agricoli locali e sostenibili; pressioni sulle istituzioni contro il consumo di suolo; mutualismo; ecc. Ciò promuove maggiormente la trasformazione profonda delle pratiche alimentari e una messa in discussione dell'organizzazione e delle narrazioni della vita contemporanea. In un apparente paradosso, è proprio la minore comodità a farne la forza perché nell'impegno e nella partecipazione si costruiscono rapporti che vengono molto valorizzati dalle persone intervistate.
Le principali barriere all'aumento del consumo di cibo attraverso questi canali sono legati alla loro accessibilità, intesa in senso ampio. Da un punto di vista economico, per i redditi bassi e medio-bassi è molto difficile sostenere la spesa “alternativa” su piattaforme business e negozi biologici. Su questo livello c'è da dire che i GAS o le piattaforme auto-organizzate offrono prezzi più sostenibili tagliando le intermediazioni. Altri fattori riguardano: la temporalità della spesa, che rende difficile una programmazione esatta e in cui l'approvvigionamento “salta” se non si prenota entro il termine o si può ritirare un dato giorno; la quantità: per i GAS spesso gli ordini sono molto grandi per cui è necessario spazio in casa, mentre nel caso delle cassette fisse di frutta e verdura spesso sono “troppo per una settimana ma troppo poco per due” quindi devono essere integrate; la disponibilità e varietà dei prodotti.

Rimanendo al progetto europeo leggo che tra gli scopi ci sono «esplorare come le innovazioni socio-tecniche nelle piattaforme di fornitura alimentare possono guidare/facilitare il consumo alimentare sostenibile nelle famiglie; suggerire strategie per implementare ed enfatizzare i fattori di sostenibilità in questo contesto». Come per tutti i progetti di transizione, in particolare quella ecologica, c'è il tema di allargarla alle aree più disagiate che spesso non hanno risorse e competenze per poter andare facilmente in quella direzione e così le forze economiche e politiche hanno praterie per una narrazione negazionista. Quale approccio è necessario?
Lo accennavo anche prima: per quanto riguarda le società occidentali, il consumo “alternativo” è per lo più appannaggio delle classi medie e medio-basse (ma con alto capitale culturale e sociale). Innanzitutto, bisogna sottolineare che il motivo principale alla base di questo ci paiono essere le disuguaglianze di accesso alle risorse materiali (e in secondo luogo all'informazione) per parti significative della società. In questo senso è sbagliato dal mio punto di vista attribuire la responsabilità dei comportamenti alimenari ai singoli soggetti e alle loro scelte. Ci pare più che altro una questione sistemica. Questo dovrebbe portare riflessività sia nei movimenti che nella ricerca, riguardo ai problemi di accesso a comportamenti di consumo che definiamo come virtuosi. Ma dobbiamo sicuramente anche andare contro la narrazione che il cibo per essere veramente egualitario e accessibile a più persone possibili dovrebbe essere sempre più economico: sappiamo che questa corsa al ribasso è una dinamica che svalorizza chi consuma e sostiene pratiche produttive ecologicamente e socialmente violente. Lottare per un cibo migliore per tuttə ci pare allora implicare una lotta per una maggiore redistribuzione della ricchezza e per diminuire (o meglio annullare!) le diseguaglianze socio-economiche e ambientali. C'è anche un altro lato della riflessione che spesso non viene affrontato. Molti dei soggetti più svantaggiati che vengono visti come consumatori non sostenibili in realtà sono costantemente coinvolti in pratiche di “sostenibilità silenziosa” – prima tra tutte la riduzione degli sprechi e il riuso – che non sono facilmente visibili, eppure spesso molto più significative che forme di consumo cospicuo, per quanto dipinto di verde. Dovremmo quindi andare contro una narrazione classista della sostenibilità delle diete che spesso involontariamente lascia nell'ombra queste pratiche, riportartando l'agentività e la voce dei soggetti meno visibili al centro delle nostre riflessioni sulla transizione alimentare.

Se ho ben compreso il suo quadro di rifermento alle problematiche ambientali, alla «crisi ecologica» è all'interno dell'analisi del capitalismo, dei suoi modelli di produzione/riproduzione e di consumo attuali che hanno portato sul baratro di un punto di non ritorno per tutto il Pianeta, evidentemente inclusi gli esseri viventi. Non bastano quindi le pur necessarie politiche e pratiche che favoriscano la transizione ecologica? Bisogna sradicare le logiche di dominio del sistema capitalistico? E questo a partire – come ha sostenuto in un dibattito alla Bicocca lo scorso maggio – dall'uso del termine Ecologia rispetto a quello di Natura al quale la modernità capitalistica nei secoli «hanno tolto tutto il senso della complessità che invece il termine Ecologia porta con sé»?
Si tratta di un tema molto complesso, ma la risposta breve è che sì, non basta “riformare” questo sistema per renderlo compatibile con le ecologie planetarie. Le logiche del capitalismo (profitto, crescita, accumulazione, competizione) sono strutturalmente in contraddizione con le logiche della riproduzione della vita, a loro volta caratterizzate dal rapporto col limite, con la circolarità, con la cooperazione. Le forme del valore e del lavoro promosse dal capitalismo, così lontano dalla concretezza della materia e della vita nella loro specificità, tendono ad annichilire e ridurre tutto il mondo a qualcosa di scambiabile, appropriabile, valorizzabile. Abbiamo bisogno di riconnetterci con ciò che ha senso per la vita invece che per il capitale: di che cosa abbiamo davvero bisogno per vivere una vita buona? Di quanto lavoro e quante merci? Scopriremmo sicuramente che ridurre la quantità di cose ed “esperienze” che produciamo/consumiamo è la precondizione per liberare tempo e spazio alle relazioni, al gioco, alla lettura, a prenderci cura di cose e persone. Per questo il termine “sostenibilità”, se inteso come sostenibilità di questo modello, non ha senso. Forse dovremmo ripoliticizzarlo per comprendere e comunicare che un sistema che si (auto)sostenga nel tempo necessita un ri-centramento sulle logiche dei bisogni, dei desideri e del limite: che ponga al centro la ricchezza e la riproduzione invece che il valore e la produzione – per parafrasare Stefania Barca. Parte di questo processo è anche quello di ri-immaginare e ri-formare i rapporti tra umano e non umano: se la Natura è stata questa cosa esterna e poco significativa che ha abitato gli immaginari di un modello di sviluppo predatorio, allora negare questa alterità e riconoscerci parte di una “rete della vita” multiforme è un passo nella direzione di rapporti socio-ecologici liberati. Ma non basta, è importante mettere a critica i molteplici assi di dominio che organizzano la vita oggi: razza, classe, specie, genere. Questi sono funzionali al mantenimento di questo sistema ma hanno anche una vita propria, per cui non sono riducibili tra di loro o a una matrice unica. Le lotte per la liberazione si muovono allora su diversi piani e in campi di alleanza.

Nelle logiche e pratiche di dominio dobbiamo evidentemente includere quelle che subiscono le donne. Riprendiamo il discorso sugli effetti nefasti del capitalismo dal femminile. Da dove cominciamo? Nei suoi lavori di ricerca e analisi cosa significa sia in termini di impostazione degli studi che di risultati pratico-teorici?
Sebbene sia evidente che il patriarcato non è un fenomeno ristretto al capitalismo – e anzi si potrebbe dire, viceversa, che è il capitalismo ad essere lo stadio più avanzato del patriarcato – tuttavia si tratta di una alleanza particolarmente ben riuscita, meglio ancora: al capitalismo è intrinseco il patriarcato, non potremmo immaginarlo senza la mole di lavoro gratuito appropriato dal corpo delle donne, spazio di una fetta fondamentale di “accumulazione originaria” su scala globale. Il dominio materiale sulle donne va di pari passo con la cancellazione e la svalorizzazione delle loro forme di sapere, di valore, di affettività che sono proprie del loro posizionamento. Significa negare, soggiogare, sfruttare la corporeità, l'essere situate, il parlare da una posizionalità non neutrale. Fabulare e con-fabulare all'epoca della crisi (ecologica) del capitalismo significa reclamare fortemente l'importanza e la necessità di forme di relazione e di sapere che non arrogano per se stesse universalità incorporea e una razionalità astratta. Invece, tornare a conoscere il limite, la precarietà, la fragilità, la parzialità e l'interdipendenza come logiche positive di vita, capaci di aprirci a ciò che è, alla sua differenza, ad alleanze inaspettate. Questo vale sia per la vita che per le pratiche di ricerca.

Un'ultima domanda che esula dalle sue attività e impegni di ricerca ma che credo sia la cartina di tornasole delle sue analisi e riflessioni sulle ecologie. È ancora grande la sua passione per il vino, frutto e oggetto di «pratica culturale e creativa», come le ho sentito dire? Da dove deriva questa passione? Che cos'è il Paradiso dei Conigli?
La mia passione per il vino nasce da relazioni personali, soprattutto di amore e di amicizia, che mi hanno avvicinata a questa materia viva, in evoluzione, vibrante. Del vino mi ha sempre affascinato la potenza: potenza sui corpi, ma anche quella di intessere relazioni e di esprimere territori, modi di vita, sensibilità, saperi. Stavo con una persona che produceva vino, e siamo stati trasportati all'Isola del Giglio, un posto che nella sua forza di elementi, profumi, colori, climi… ci ha fortemente attratto. Ma non si tratta solo dell'”ambiente” in quanto tale: lì c'è ancora una viticoltura fatta da (ormai pochi) signori anziani che continuano ad arrampicarsi per sentieri e terrazzamenti impervi per produrre un vino completamente naturale, con un procedimento che da decenni si trasmettono, e poi la tradizione di bere nelle cantine sottoterra su, a Giglio Castello. È stato questo insieme di terra, mare, cielo, mani logore di lavoro, racconti e animali selvatici che ci ha spinto a iniziare questa avventura che abbiamo chiamato Paradiso dei Conigli: il progetto di un “vino utopico”, che dialogava con la natura-cultura dell'isola anche quando prendeva sentieri un po' suoi. Forse “inattuale”, senza senso se visto dentro i canoni egemonici e produttivistici del mercato del vino, eppure una nostra isola di sperimentazione, scoperta, cura e piacere. Siamo partiti da qualche migliaio di metri di vigna in forte pendenza e affacciata sul mare, a cui si arriva solo a piedi. Così la mia passione per il vino si è consolidata in relazioni più-che-umane che certamente hanno anche dato forma al mio modo di sentire e pensare le ecologie e le culture che vi si intrecciano. Al momento il progetto si consolida ed è seguito dal mio ex compagno, dato che le mie traiettorie di vita mi ci hanno in parte allontanata, ma è uno spazio che continuo (e continuiamo) a sentire anche mio, un pezzo di casa e di cuore, tra le rocce e i profumi della macchia e il rumore del mare e dei gabbiani.

Pasquale Esposito

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