
Nella situazione storicamente data, quando la “logica” (l'imperante logica economica del capitalismo globale) finisce con il violentare i fondamenti ontologici del reale, il mondo degli “oggetti” (nel lessico capitalista, le merci, compresa la merce forza-lavoro umana) prodotti dall'uomo tende a costituirsi come “mondo mercantile” che non ha più la sua ragion d'essere nel soddisfare i bisogni dei produttori, ma si sviluppa secondo leggi proprie, estranee a questi bisogni (il “valore di scambio” si sostituisce al “valore d'uso”).
L'alienazione è, quindi, la condizione esistenziale oggettiva dell'uomo, agli albori del sistema capitalista nel XV secolo e, allo stesso modo, nella contemporaneità. György Lukács utilizza il termine Verdinglichung, cioè il “diventare una cosa” (in particolare, nel saggio “La reificazione e la coscienza del proletariato”, contenuto in Storia e coscienza di classe, 1923), che allude ad una sostanziale legittimazione in itinere (nel consolidarsi vittorioso della formazione economico-sociale capitalista contrastando le alternative manifestatesi nei secoli XIX e XX) delle “cose così come sono”, un'efficace smascheramento della santificazione dell'esistente. Tuttavia, l'uomo che appare essere precisamente determinato, può svilupparsi in modo onnilaterale (a tal proposito, utile rif. è “La concezione pedagogica nel pensiero di Karl Marx” di Giovanni Dursi, in Studi urbinati, B2 Anno LX 1987, pagine 143-172), e questo non può che apparire in stridente contrasto con una realtà, esemplificata dalla fabbrica delle merci, in cui l'uomo viene ridotto alla monodimensionalità più completa.
Le caratteristiche psichiche e fisiologiche dell'uomo sono adattabili e comprimibili solo fino a un certo punto. L'effetto omologante e giustificatorio dell'acquisizione inconscia individuale dell'ideologia del proprio tempo non può funzionare in condizioni estreme, che minino persino le possibilità di sopravvivenza. Karl Marx proprio per questo motivo, nel Manifesto aveva diagnosticato l'incapacità della borghesia di mantenersi come classe dominante. A tal riguardo, riprendendo proprio queste considerazioni marxiane, Erich Fromm si esprime in questo modo: «Se un ordine sociale trascura o frustra i bisogni umani fondamentali oltre un certo limite, i membri di tale società cercheranno di cambiare l'ordine sociale» (E. Fromm, “Marx e Freud”, Garzanti, Milano, 1974, p. 95). Nei Manoscritti economico-filosofici (1844-1932)
Marx dedica un intero capitolo, il frammento più completo del testo, al “lavoro alienato” riconoscendo ad Hegel il merito di aver concepito «l'uomo oggettivo, l'uomo vero perché reale, come il risultato del suo proprio lavoro». Hegel si mostra consapevole della dialettica di autoproduzione dell'uomo, come qualcosa che risulta quindi diveniente, piuttosto che astrattamente fissato: l'essenza dell'uomo è storica, è un autoprodursi dell'uomo attraverso il tramite del lavoro. Per Marx (K. Marx, F. Engels, Ideologia tedesca (1845-46), K. Marx, Manoscritti economico – filosofici) l'uomo, oggettivandosi con il medium lavoro, “costruisce” la propria essenza, intesa quindi in modo non trascendente ma contingente. La divergenza che Marx vuole sottolineare tra il suo pensiero e quello idealistico sta nell'interpretazione di tale processo. Il “rovesciamento” di cui è colpevole il pensiero hegeliano, porta il filosofo di Stoccarda, secondo Marx, a conoscere e riconoscere solo «il lavoro astrattamente spirituale». Non potrebbe, d'altra parte, essere altrimenti: concependo «l'essere, l'uomo» come «autocoscienza» è ovvio che Hegel releghi il processo dialettico del lavoro nella sfera del pensiero, della coscienza.
Tornando alle cose dell'oggi, è conclamata verità che i proprietari della ricchezza dei profitti multinazionali sono costretti a valorizzare il capitale, seguendo le dinamiche ad esso proprie, per non cadere nella miserevole condizione della precarietà esistenziale che caratterizza le vite dei lavoratori subordinati, i quali a loro volta, in una situazione massimamente coercitiva, non possono che, questione di vita o di morte, continuare a vendere la propria forza-lavoro al peggior offerente. Il tema del “feticismo delle merci” è, dunque, il “tema”, non nuovo (si pensi alla più ficcante e diretta critica della “società dei consumi”, ovvero La società dello spettacolo di Guy Debord, testo pubblicato nel 1968, come aggiornamento), ma irrisolto. « [… ] il problema della merce» continua ad essere, seguendo la critica marxiana, il «problema strutturale centrale della società capitalistica in tutte le sue manifestazioni di vita». Non c'è proposta trade-unionistica, non c'è rivendicazionismo economico-normativo, non c'è prospettiva politica riformista che possa risultare strumento di contrasto efficace alla sussunzione formale e reale del lavoro umano al capitale. Le categorie con le quali è concettualizzato il modo capitalistico di produzione – sottomissione a sé, vale a dire includendo nel rapporto sociale di cui esso consiste e rende quindi funzionale alla logica della sua autoriproduzione, modi di essere del lavoro umano che si sono costituiti prima e indipendentemente da esso, e che esso piega ai suoi interessi senza modificarne il contenuto; inoltre, la logica stessa della sussunzione formale conduce alla sussunzione reale, in quanto la sola forma della produzione capitalistica esige una accumulazione allargata di plusvalore, la quale esige un incessante aumento di scala della produzione, che ad un certo momento esige un'appropriata modificazione del processo lavorativo, di cui sono strumenti le macchine industriali e le scienze fisico naturali; questa logica ha un campo di applicazione potenziale che è più vasto di quello pensato da Marx, e che è diventato attuale proprio nel nostro presente storico – sono l'armamentario teorico che non è stato recepito da chi si ostina ad aridamente caldeggiare compatibilità tra Stato e “mercato”, tra “democrazia” e sfruttamento, tra capitale e lavoro. Su quest'altare dell'alienazione di massa si continua ad officiare il rito del massacro sociale e delle risorgenti illusioni legalitarie di “cessione” del potere.
Giovanni Dursi
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