
Se non siete mai stati nella zona della Chiesa Rossa a Milano chiudete gli occhi. Vi ci accompagno. Se invece la conoscete già tenetemi compagnia mentre ne parlo. Ci troviamo all’estrema periferia meridionale della città. Le case sono quelle tipiche a schiera di un’edilizia popolare povera e anonima. Eppure incuneata tra vie arroventate d’estate e solitarie d’inverno si innalza la Chiesa Rossa. Conosciuta anche come la Chiesa di Santa Maria alla Fonte dei frati cappuccini, immersa in un bellissimo parco. Le vecchie stalle sono state recuperate e ristrutturate. Cosicché i tipici mattoni rossi del medioevo si mischiano a vetro e acciaio. Adesso ospitano una accogliente biblioteca.
I bambini giocano tranquilli senza chiedersi la nazionalità dei loro compagni. Madri con l’hijab che incornicia splendidi volti da madonne nere si mischiano a madri dai costumi occidentali. Lì la gente si incontra, sorride, passeggia. I bambini fanno la caciara che fanno i bambini.
Se quel quartiere non assomiglia a tutti i quartieri di periferia lo si deve anche ad ATIR che in quei territori è radicato, che per anni ha portato avanti i suoi laboratori aperti alla cittadinanza.
Se la zona di Chiesa Rossa non è un territorio desolato, percorso dalla microcriminalità lo si deve anche ad ATIR che con la cultura, il teatro, e tanta, tanta passione ha rubato le piazze al nulla. Negli ultimi tre anni sta continuando a farlo, con ostinazione, per dovere civico, per un atto politico, nonostante non abbia più una sede. ATIR continua ad esserci nonostante la Covid-19, nonostante lacci e lacciuoli della politica. ATIR vive nonostante le promesse della politica.
Vive e continua a fare la sua politica. A modo suo. Come in questi giorni estivi assolati, lanciando il festival La prima stella della sera. Per 22 serate sul palco, adagiato all’esterno della chiesa, si passeranno il testimone ospiti illustri che hanno accettato la sfida di intervenire al buio. Il pubblico non sa fino all’ultimo chi si presenta in scena. Questo per dare ancora più rilievo all’atto teatrale in sé. L’intenzione è quella di onorare la voglia dei cittadini di essere comunità, piuttosto che il singolo attore o la singola performance.
Al buio sì. Ma è un buio che risuona e pur nel rispetto delle norme fa il tutto esaurito ogni sera. Anche ieri è stato così con Il Teatro dell’Elfo e con Cristina Crippa, che ci ha ammaliato con il monologo della Favola di Tommaso Landolfi. Impressionante la grande capacità dell’attrice di percorrere un ampio spettro di registri recitativi. Complesso il testo di Tommaso Landolfi. Scrittore elegante e raffinato.
In quanto a eleganza e raffinatezza non è stata da meno Cristina Crippa, con la sua maschera dotata di una rara potenza espressiva. L’attrice, aiutata da scarni artifici scenici, ha interpretato una cagna che al limite della vita racconta ciò che è stata la sua vita. Racconta i tanti cuccioli, i pochi padri premurosi, gli umani. Ma soprattutto racconta del suo amore. Ecco, questa Favola è la storia di un amore. Non importa per chi o per cosa. Non vogliamo svelarvi la sorpresa, ma tenere presente che Ogni amore è importante per ciò che svela di noi all’altro e dell’altro a noi.
Sono queste le parole di Pier Paolo Pasolini con cui Cristina Crippa ha voluto accomiatarsi da un pubblico caloroso. Tra gli applausi l’attrice è stata omaggiata da Serena Sinigaglia, direttrice artistica di ATIR che ha innalzato un grido di dolore per il teatro. Serena Sinigaglia ha sottolineato che il Presidente del Consiglio nei suoi discorsi non è in grado di pronunciare la parola cultura, e tantomeno di unirla a quell’altra a cui dovrebbe accompagnarsi, sua sorella l’istruzione.

La direttrice artistica di ATIR, con la sua abituale determinazione e incisività ci ha ricordato che se questo accade non si può costruire un paese sano.
Abbiamo un unico rammarico per quanto riguarda lo spettacolo di ieri. Cristina Crippa è stata superlativa. Ma abbiamo fatto appena in tempo ad entrare nei colori della sua narrazione che questa si è conclusa. Troppo breve lo spettacolo portato in scena per avere realmente il tempo di calarsi nei paesaggi e nei personaggi. Ma che potenza, che semplicità unità a un altrettanto alto grado di sofisticazione e di impareggiabile padronanza degli strumenti attoriali.
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