Alzheimer tra troppi insuccessi e nuovi studi

Alzheimer dementia
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È dal 1906 che, grazie agli studi di Alois , il medico che dette il nome alla malattia di Alzheimer (Alzheimer Diseas- AD), si ipotizzò  che le placche amiloidi fossero responsabili dei devastanti disturbi cognitivi che si riscontravano. A quelle ricerche partecipò anche un collaboratore di Alzheimer, l'italiano Gaetano Perusini, medico precoce  con interessi in psichiatria e nelle neuropatologie. Da allora ad oggi, le problematiche neurodegenerative erano attribuite a questa sorta di “cementificazione” dei neuroni cerebrali che si iniziarono a studiare. Era consequenziale che l'attività terapeutica si orientasse a bloccare o lenire la sintomatologia attraverso un'aggressione verso le modifiche apportate sui neuroni da queste nuove formazioni. Dopo decenni di tentativi a questo rivolti, notizie di ricerche dell'ultim'ora attribuiscono come ipotesi alla diminuzione della forma solubile delle proteine, detta beta-amiloide 42, la responsabilità del calo di memoria e di altre forme cognitive [1].Si tratta di un approccio satellite alle ipotesi precedenti dalle quali, purtroppo, non erano pervenute le conferme ipotizzate. Alcune di esse, come per il farmaco Aducanumab, un anticorpo monoclonale della Biogen che avrebbe dovuto ritardare il peggioramento della malattia di Alzheimer, non erano state confermate le attese di quella parte della comunità scientifica che ne aveva perorato l'autorizzazione all'uso. Su questo aspetto continuano invece ad appuntarsi ipotesi di inefficacia e di bilancio tra benefici e controindicazioni sfavorevoli. Tali ipotesi non sono nuove e comunque si erano già generate durante il controverso percorso di autorizzazione regolamentatorio nella Food and Drug Administration. Aducanumab, farmaco prima bocciato poi autorizzato, è adesso soggetto sempre più a considerazioni sui suoi effetti terapeutici. Non sarebbero stati osservati effetti benefici attesi sia sul ridimensionamento della sintomatologia sia sulla progressione della malattia [2].

Sul fronte farmacologico, gli scarsissimi risultati ottenuti, come quello descritto in precedenza, hanno anche spinto ad un rallentamento nello sviluppo di soluzioni che l'industria non intravede se non nel rinunciare a percorsi difficili e dai costi enormi [3].

Resta la placca amiloide però come la definizione della strada sugli studi da percorrere per indagare la malattia che vedrà soluzione quando le informazioni sulle cause scatenati potranno facilitare l'individuazione dei rimedi. Per adesso si procede a piccolissimi passi da quando, ad inizio secolo scorso, si osservarono la presenza di accumuli di placche di una proteina amiloide sui neuroni di una paziente di 55 anni affetta da diminuzione di memoria ed altri disturbi connessi. Da allora per decenni si sono elaborate teorie e sviluppate terapie mai completamente soddisfacenti nel tentativo di lenire, ritardare, se non risolvere, i problemi devastanti cui si incorre quando, disturbi cognitivi così invalidanti ed ad andamento crescente colpiscono umani anche in età non certo avanzata. Abbiamo visto che al momento l'uso di anticorpi monoclonali come farmaci non produce effetti attesi. E' stata quindi esplorata anche la strada dell'autoimmunità secondo la quale si ipotizzava una similitudine tra rivestimenti lipidici delle membrane batteriche e la superficie dei neuroni. L'ipotesi metteva in relazione la formazione di rivestimenti lipidici di un'infezione batterica che scatenava l'aggressione della proteina beta amiloide sia verso i neuroni che verso i batteri da neutralizzare. Ovviamente ne deriva una perdita di funzionalità dei neuroni colpiti che però non beneficia di risultati soddisfacenti se si utilizzano come terapie i farmaci prescritti in caso di malattie autoimmuni. [4]
Preso atto degli insuccessi si esplorano oggi ipotesi connesse, come quella su cui in questi giorni si fondano nuove speranze. Si parte dai presupposti secondo i quali molti anziani, con placche considerevoli di beta amiloide insolubile nel loro cervello, non manifestano alcuna sintomatologia riconducibile alla malattia di Alzheimer. Probabilmente la ragione, secondo alcune teorie, deve essere individuata nelle zone sinaptiche rese libere dall'aggressione beta-amiloidea [5].

Il motivo inoltre che spinge i ricercatori ad esplorare nuove ipotesi è da ricondurre al fatto che, la forma solubile della beta-amiloide, che ha ruoli utili alle funzioni cognitive ed a quello della memoria, la si osserva in evidente calo nella forma libera detta beta- amiloide 42. Su questa diminuzione in circolo si appuntano gli interessi delle responsabilità delle forme patologiche che tanti disastri procurano.
Una controprova è data da quei pazienti che hanno bassi livelli di beta-amiloide42,  che sono proprio quelli sui quali si osservano le manifestazioni più gravi della malattia. Vi è anche notizia di un lavoro dell'Università di Cincinnati e del Karolinska Institute di Stoccolma che si spera dia riscontri sulle responsabilità maggiori sulla malattia circa la loro attribuzione all'aumento di placche oppure alla diminuzione della forma solubile della beta-amiloide. [6]
È comunque comprensibile che si tentino in tutti i modi iniziative terapeutiche, oppure di natura sociale, miranti a dare sollievo a pazienti, 55 milioni nel mondo più le loro famiglie in modi diversi comunque coinvolte nei disagi dei pazienti ( per il 2050 il numero dei pazienti viene ipotizzato in circa 130 milioni; numeri che raddoppiano all'incirca ogni 20 anni). Per chi soffre di disturbi, che sono progressivi ed irreversibili, bisogna considerare che si è preda di situazioni difficili anche per chi vi è in contatto. I soggetti si ritrovano con il subire considerevoli perdite della memoria, difficoltà nel linguaggio, problemi nell'orientarsi, mutamento di umore e personalità, impossibilità a svolgere le elementari attività quotidiane per la propria persona fino ad assumere atteggiamenti distruttivi verso se stessi. Per queste sintomatologie gravissime, un aiuto è stato individuato nella realtà nei servizi erogati nel Paese Ritrovato, a Monza,  a cura della Cooperativa La Meridiana.  Si tratta di un villaggio interamente dedicato alla cura delle persone affette da forme di demenza e da sindrome di Alzheimer. Organizzati in questo modo i pazienti che vi vivono hanno almeno il loro percorso di malati più orientato alla sostenibilità dei disagi che si manifestano con l'incedere della malattia.
Emidio Maria Di Loreto

Questo articolo non propone terapie o diete; per qualsiasi necessità sul proprio stato di salute, su modifiche della propria cura o regime alimentare, si consiglia di rivolgersi al proprio medico o dietologo.

[1]  Elisabetta Intini   C'è una nuova ipotesi sulle cause dell'Alzheimer, 20 ottobre 2022
[2] https://www.mentinfuga.com/alzheimer-nuovo-farmaco/; https://www.mentinfuga.com/alzheimer-dopo-laducanumab-in-arrivo-donanemab-lecanemab-ed-altri-farmaci/; https://www.mentinfuga.com/alzheimer-note-su-cause-concause-e-approcci-terapeutici-medico-sociali/; https://www.mentinfuga.com/diritto-alla-salute-e-costi-nota-su-alzheimer-e-aducanumab/
[3] Amelia Beltramini, Alzheimer: i fallimenti della ricerca, le nuove speranze, 4 aprile 2018
[4]Felix S. Meier-Stephenson,Vanessa C. Meier-Stephenson,Michael D. Carter,Autunno R. Meek, e altri. La malattia di Alzheimer come malattia autoimmune dell'immunità innata modulata endogenamente dai metaboliti del triptofano  06 aprile 2022
[5] Zolochevska Olga, Bjorklund Nicole, Woltjer Randall, Wiktorowicz John e Taglialatela Giulio, Postsynaptic Proteome of Non-Demented Individuals with Alzheimer's Disease Neuropathology, 21 agosto 2018
[6] L'β amiloide ad alta solubilità 42 predice la cognizione normale in individui amiloide-positivi con mutazioni che causano la malattia di Alzheimer; Alzheimer's disease testing solutions,

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