Giustizia. ANM e CSM, una crisi tra attualità e storia

consiglio superiore della magistratura
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Le vicende che riguardano alcuni componenti del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) sembrano configurarsi non come le solite bagatelle interne al massimo organo di autogoverno dei giudici – del quale è doveroso ricordare che il Presidente ne è il Capo dello Stato ex art. 104, 2°comma della Costituzione – ma come vere e proprie cariche esplosive il cui brillamento potrebbe addirittura fare inclinare su di un lato il bastimento Italia, almeno per come personalmente avverto la pericolosità dei fatti che quotidianamente ci vengono raccontati. Siamo al capolinea del CSM?

E allora andiamo proprio a ricordarli quei fatti che cominciano a mettere paura a molti.
Come ogni storia che si rispetti, c’è sempre una introduzione e nel nostro caso tutto ha inizio nel maggio del 2019 quando l’allora Pubblico Ministero della Procura di Roma, ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (ANM) dal 2008 al 2012, esponente centrista della corrente “Unicost” Luca Palamara, “viene raggiunto da un ordine di perquisizione in cui gli si contesta l’accusa di corruzione per aver ricevuto 40 mila euro per una nomina (accusa poi caduta) e aver avuto rapporti con l’imprenditore Fabrizio Centofanti, mettendo a disposizione la sua funzione giudiziaria” [1].
In pratica, favori in cambio di denaro e/o altre “prelibatezze”. L’indagine su Palamara si allarga e grazie all’inserimento di un “trojan” – cioè una microspia – nel suo cellulare vengono registrate conversazioni serrate con alti membri del CSM con l’obiettivo di definire una strategia comune fra i rappresentanti delle varie correnti che raccolgono i magistrati di carriera e i membri stessi del Consiglio, per designare il candidato gradito a tutti che sostituisca Giuseppe Pignatone, prossimo alla pensione, sulla poltrona più ambita da ogni magistrato e cioè quella della Procura di Roma.
Un vero e proprio mercato degli incarichi dal soddisfacimento dei quali, i destinatari avrebbero poi – come facilmente intuibile – provveduto a cascata a provvedere ad ogni richiesta di favori.
Ai componenti di questa che sembra una storia di malaffare e sicuramente di indegnità professionale elevata all’ennesima potenza, parve necessario puntellare meglio l’architrave ed ecco che l’8 maggio 2019 nel corso di una cena presso l’hotel “Champagne” fece la sua apparizione la politica o, meglio, un personaggio di spicco di quel mondo e cioè Luca Lotti del PD, tra l’altro inquisito per il caso “Consip” e già rinviato a giudizio. La squadra è fatta e il cerchio sembra chiudersi.
Nella ragnatela delle indagini rimane invischiato anche il Procuratore Generale della Cassazione Riccardo Fuzio, reo di aver spiattellato proprio a Palamara i contenuti delle indagini in corso.
La presenza del P.G. della Cassazione nella compagine dei complottisti non deve essere vista come casuale perché, anzi, proprio per le funzioni che gli vengono attribuite può porsi come un vero e proprio ago della bilancia nella distribuzione degli incarichi.
Infatti la loro disciplina normativa attribuisce le seguenti funzioni che riporto in stralcio “(Il P.G.) veglia alla osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti dello Statorisolve i conflitti di competenza insorti tra Procure della Repubblica appartenenti al medesimo distretto o a distretti diversi” [2]. Quindi nella posizione ottimale per smistare, secondo sollecitazioni di parte, magistrati più o meno graditi nelle varie procure.

A fronte di questa inchiesta, il CSM è costretto a sottoporre a provvedimento disciplinare ben cinque suoi componenti e, come prassi, passa il fascicolo alla Procura di Perugia competente distrettuale sui reati (eventuali) commessi dai magistrati romani.
A maggio del 2020 la Procura di Perugia, diretta da Raffaele Cantone, chiude le indagini e deposita gli atti che, come prassi, diventano pubblici.
Più di un centinaio di chat fra Palamara e i suoi colleghi, che hanno sempre come argomento richieste di incarichi, indipendentemente dalla “corrente” di appartenenza.
A luglio dello stesso anno, l’ANM instaura la procedura per l’espulsione di Palamara dall’Associazione stessa, espulsione che viene confermata il 19 settembre. È un colpo durissimo all’immagine della giustizia che rafforza l’idea presente nell’immaginario collettivo del motto “tanto sono tutti uguali” e che non c’è più via di scampo dalla corruzione dilagante in questo Paese.

Ora, le vicende fin qui riassunte riguardanti l’ex giudice Luca Palamara e alcuni membri del CSM sono indissolubilmente legate insieme dall’esistenza del vincolo “ideologico” che promana dalle c.d. “correnti” interne all’intero corpus della magistratura, sia essa inquirente che giudicante. Per capirne l’origine e le esigenze bisogna riandare alla Costituente e alla Costituzione che, in sostanza, hanno ridisegnato dal 1° gennaio del 1948 la Magistratura repubblicana.

Nella pratica, però, negli anni successivi al secondo dopo guerra rimaneva ancora in piedi quell’immagine quasi sacrale del giudice al quale si richiedeva di vivere come in una specie di mondo separato, lontano da ogni tentazione e specialmente distante dalle passioni politiche. Quindi, se da una parte questo status di quasi ascetismo richiesto ai giudici permetteva di salvaguardare l’indipendenza e la terzietà del potere giudiziario da ogni sollecitazione esterna, dall’altro lato impediva la presa di contatto con la “domanda” proveniente da una società in progressiva espansione e crescita, specialmente nel periodo del c.d. “boom economico”.
Questo rifiuto di affacciarsi sulle vicende che poi erano chiamati a giudicare, si traduceva nell’uso quasi provocatorio di un linguaggio criptico, non comprensibile da quei soggetti che erano poi i destinatari finali delle decisioni prese.
Altro problema non da poco, che interessava tutta la magistratura era il rapporto fra il suo ordinamento e i dettami della Carta Costituzionale che, entrata in vigore nel 1948, creava ancora almeno fino alla metà degli anni ’50 non pochi attriti. In sostanza si vedeva la Costituzione come una intrusa; un corpo estraneo che si era inserito nell’ordinamento statuale con il chiaro intento di rompere quella continuità con il passato.
Passato, poi, non del tutto se si considera ad esempio il codice di diritto e di procedura penale scritto in pieno regime fascista e che l’organo supremo della magistratura, cioè la Corte di Cassazione, era composta dai vecchi giudici che avevano fatto carriera proprio sotto il regime (le cosiddette toghe di ermellino) o che comunque erano, per cultura generale, contrari ad ogni innovazione.
Ma ormai i cambiamenti erano nell’aria e nel 1959 entra in funzione il Consiglio Superiore della Magistratura, primo elemento che aprì la crisi del sistema unitamente all’immissione nell’ordine giudiziario di giudici giovani, fatto messo in risalto dal sociologo De Masi che in suo articolo del 1965 sulla rivista “Nord e Sud” affermava che il 77% dei magistrati in servizio proveniva da zone rurali o sottosviluppate, laureatisi in piccole università di provincia data la loro provenienza sociale da ceti medio-borghesi [3]
Quindi la mutazione del corpo giudiziario stava avvenendo, non senza difficoltà, quasi in parallelo con lo sviluppo frenetico della società la quale poneva domande di giustizia nuova, approfondite e anche differenziate. Il giudice tradizionale non bastava più, bisognava dare spazio ad una nuova cultura. Ma se questa necessità appariva impellente per molti, altra cosa era poterla individuare e metterla in pratica.
Mi sembra importante riportare, seppure in stralcio, il pensiero di alcuni giudici raccolto dal giornalista de “L’EuropeoGian Franco Venè nel 1966 a seguito di una sola e semplice domanda: ”Che cosa non va nella giustizia?”.
Ecco le loro risposte.

Salvatore Giallombardo, presidente di sezione al Tribunale di Roma:
Oggi i giudici, per mantenere al corrente il diritto, dovrebbero utilizzare fonti estranee allo stesso diritto e trarre aiuto anche dai fattori sociali, economici, culturali e storici. Ma il congegno giudiziario che possediamo non consente ciò, perché è organizzato per esigenze opposte…”

Marco Ramat, pretore di Borgo San Lorenzo, Firenze:
La magistratura, in un paese civile, deve essere una élite, non di censo o di casta, bensì una èlite culturale; e come tale deve essere senza clamorose esternazioni all’avanguardia piuttosto che alla retroguardia del costume sociale, deve insegnare essa stessa la strada da seguire affinché la società non ristagni in posizioni di conformismo e di paura della libertà”.

Mario Berruti, magistrato di Cassazione:
Molte leggi sono superate dal costume, ma il potere esecutivo non promuove le necessarie riforme e il potere legislativo non assume le iniziative rese doverose dall’inerzia del governo”.

È evidente che questo ormai inarrestabile processo di trasformazione della figura del magistrato, portava inevitabilmente ad esaltare la “coscienza del giudice” il quale non poteva più essere una macchina, un robot, che applica la norma scritta della legge, norma che invece deve essere individuata nel rispetto delle fonti e resa compatibile con il suo sentimento di giustizia.
Proprio su questo tema si svolgerà l’acceso dibattito che avrà luogo a Firenze nel 1961 dove, al termine del quale, si costituiranno tre mozioni o “correnti” portatrici, come abbiamo visto, di distinte posizioni altamente idealizzate ma convergenti tutte su di un punto e cioè l’interpretazione delle leggi alla luce dei principi della Costituzione che rappresentano le nuove fondamenta dell’ordinamento giuridico statuale.
Accennato alla genesi e a motivi che hanno determinato la creazione delle “correnti”, proviamo ora a vederle nel dettaglio, la loro costituzione, il loro portato ideologico.

Magistratura Indipendente
È la corrente più anziana della magistratura, costituita nel 1962, i suoi componenti si sono sempre definiti tradizionalisti con spiccata propensione verso posizioni conservatrici. Questa corrente afferma l’unità e l’apoliticità dell’ordine giudiziario e persegue la tutela della dignità morale e materiale della magistratura.

Magistratura Democratica
Fondata a Bologna nel 1964, fu subito considerata molto vicina alla Sinistra e ai movimenti sociali. Per questo motivo ebbe al suo interno varie scissioni. La corrente si distingue per la strenua difesa dell’indipendenza e autonomia della magistratura. Nelle ultime vicende politiche, la “corrente” si è dichiarata contraria alla proposta di legge sulla legittima difesa e in tema di immigrazione ha espresso giudizi favorevoli sull’apertura dei porti.

Unicost
Unità per la Costituzione, è considerata di orientamento centrista molto vicina ai poteri ex democristiani. Attualmente conta il maggior numero di aderenti sebbene sia stata la “corrente” più colpita dagli ultimi scandali.

Autonomia e Indipendenza
Nata nel 2015 a seguito dalla fuoriuscita da “Magistratura Indipendente”, elegge Pier Camillo Davigo come primo presidente. La maggioranza degli appartenenti abbraccia il principio di un rigoroso rispetto delle regole e l’incompatibilità della magistratura con qualunque incarico di natura politica.

Questa è la cornice entro la quale operano quotidianamente i magistrati e regolano le attività degli stessi i componenti del CSM. Ma attraverso la vicenda Palamara e quella ancora in fase di evoluzione, per quanto riguarda le indagini, che potremmo definire come in uno scioglilingua il caso Amara-Storari-Greco-Davigo-CSM, appare più che mai impellente mettere un punto fermo, costituire – mi si permetta questo paragone – una “linea del Piave” oltre la quale non è possibile andare.

Sembra proprio che questo atteggiamento di fermezza sia, se vogliamo, la stella polare che guida gli ultimi interventi del vice presidente del CSM, David Ermini, il quale nel discorso di saluto al corso Superiore della magistratura dedicato all’etica del magistrato, ha messo a fuoco i punti sui quali deve intervenire la riforma e che sintetizzo qui di seguito.

Siamo tutti in attesa che il Parlamento porti a conclusione la riforma del CSM… serve un coraggioso rinnovamento culturale, serve il ripudio secco del carrierismo e dei metodi correntizi, serve soprattutto ritrovare una forte carica etica che valga a riconquistare nell’interesse generale fiducia e legittimazione” [5].

Fiducia e legittimazione, i due pilastri sui quali si fonda il potere giudiziario nella speranza, anche per l’intera comunità nazionale, che la magistratura nel suo insieme abbia il coraggio di cogliere questa occasione per rigenerarsi in profondità.

Stefano Ferrarese

Note:
[1] Liliana Milella su “La Repubblica” del 19/09/2020
[2] Riferimenti normativi: – Art. 73 del Regio Decreto 12/1941
– Legge 24/05/1951 n.392
– D. Lgs. 20/02/2006 n.106
[3] Domenico De Masi su “Nord e Sud” – La giustizia senza qualità – XII, n.69, settembre
1965, pp.64 e ss.
[4] Gian Franco Venè in “L’Europeo” XXII, 14/04/1966, pp. 36-39
[5] Redazione ANSA, News, “Ermini, è urgente la riforma del CSM”, 19/05/2021

 

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