Antisemitismo: il lato oscuro della storia. Intervista alla ricercatrice Betti Guetta

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Mentinfuga ha intervistato Betti Guetta, ricercatrice presso il Centro di documentazione ebraica contemporanea (CDEC) di Milano, e autrice della ricerca: “L’immagine degli ebrei. Indagine qualitativa”.

Betti Guetta

In concomitanza con le crisi economiche o con altri momenti d’incertezza politica e sociale, l’antisemitismo sembra riesplodere e proporsi come uno dei lati oscuri della storia europea.
Diffidenza e pregiudizi, a volte semplicemente sopiti, sembrano riesplodere anche in forme nuove. Indagare tali fenomeni e lavorare per la diffusione di una puntuale conoscenza della cultura ebraica, possono essere strumenti per una corretta interpretazione dei fenomeni.

Partirei da un’affermazione forte e diretta: l’antisemitismo è una costante della storia europea. Nei passaggi critici riemergono linguaggi e posizioni che sembravano superati. Non è dunque lecito abbassare la guardia.
Dal suo punto di vista quest’affermazione appare eccessivamente perentoria?

Farei un primo chiarimento rispetto alla ricerca da me condotta, che risale ormai a circa un anno fa.
Nel momento in cui ho svolto la ricerca, il clima era meno preoccupante rispetto ad avvenimenti, prese di posizione e dichiarazioni che si sono andate succedendo negli ultimi mesi.
Il livello della provocazione, ad opera ad esempio di gruppi di estrema destra, con il persistere della crisi economica, è in costante aumento.
Nel momento in cui svolgevo la ricerca, era già avvertibile un clima di recrudescenza di pregiudizi e forme d’odio, ma non era così evidente come nei mesi successivi.

Potrebbe chiarire quale immagine degli ebrei emerge dalla sua ricerca?

Mi sento di poter dire che emerge un’immagine molto confusa.
Ritrovo, nell’analisi degli elementi che ho potuto controllare una scarsa conoscenza e un basso livello di  informazione.
Evitando comunque facili schematizzazioni, è nettamente evidente che non ci sia una reale conoscenza storica e sociale degli ebrei e della cultura ebraica.
La distanza fra quanto è proposto dagli organi di stampa o dalla letteratura sull’argomento e il bagaglio di conoscenze della popolazione comune è molto forte.
Non mi soffermo sulle élite colte o bene informate, ma pongo la mia attenzione agli atteggiamenti comuni delle persone d’istruzione media e riscontro che molti stereotipi provengono anche da persone inattese.
In generale, l’antisionismo, rivolto in maniera a tratti pregiudiziale nei confronti dello Stato d’Israele, non aiuta a creare un desiderio di comprensione anche verso gli ebrei.
Anche se si prescinde dal livello culturale delle singole persone, e si superano le immagini di facciata che esse vorrebbero mostrare, è possibile riscontare un forte e radicato condizionamento ideologico contro Israele o l’influenza di una lettura cattolica integralista.
La valutazione della componente religiosa dell’antisemitismo ci dice che molto è cambiato, ma che essa ancora emerge, con chiarezza, in nicchie e gruppi fortemente condizionati da tale pregiudizio.
L’altro elemento da tenere sotto osservazione, riguardo a quanto ho esposto, e in una realtà sociale sempre più condizionata dall’accesso all’informazione, è il controllo e l’utilizzo di strumenti di comunicazione – più o meno forti – che tali gruppi possono avere per trasmettere la loro visione degli ebrei.
Questi pregiudizi possono determinare un clima pericoloso, anche legandosi alla crisi economica e al conseguente diffondersi del complottismo.
Vorrei, infine, affermare che il silenzio connivente – quel silenzio che non si oppone allo stereotipo o al pregiudizio – è complice. Anche nelle indagini quantitative, si evidenzia che l’omissione di risposta o il silenzio sulle questioni trattate intorno agli ebrei, è la prima forma di antisemitismo.


Berlino. Memoriale per gli  ebrei assassinati d’Europa

Possiamo indicare, per aiutare i nostri lettori ad avere una migliore comprensione dei dati e dell’analisi, attraverso quali procedure si svolge una ricerca qualitativa e perché Lei ha sentito l’esigenza di uno studio con un’impostazione non quantitativa?

Vengo da una formazione universitaria, da ricerche e da un’attività che hanno sempre privilegiato le indagini quantitative. Anche i lavori portati avanti per il CDEC sono stati in massima parte di natura quantitativa.
Il passaggio a un livello d’analisi qualitativo è stato quasi una necessità, per avere una visione più diretta e un approccio divergente rispetto a quello consentito dai dati quantitativi.
Si è trattato in fondo di fare, per così dire, un “carotaggio” che, pur non misconoscendo il valore delle ricerche quantitative, mi consentisse, attraverso il lavoro su gruppi, una visione più diretta e immediata dei pregiudizi o delle informazioni.
Il lavoro su piccoli gruppi mi sembra quello che si presti meglio quando si tratta di temi sociali: in un piccolo gruppo si creano specifiche dinamiche che consentono alle persone coinvolte di sciogliersi. I gruppi sono stati costituiti con criteri rigorosi riguardanti il genere, l’età, l’orientamento politico e religioso.
I risultati che sono stati raccolti non sono generalizzazioni, ma servono come traccia e guida qualitativa per chiarire concetti, emozioni e parole.
Posso riferirmi a trenta anni di ricerca per indicare come rilevanti i dati di una grande confusione storica. Arabi, israeliani, palestinesi, sionismo, antisionismo: tutto si trasforma in una contrapposizione tra buoni e cattivi, senza storia. L’unica certezza, in molti casi, sembrano essere le colpe degli ebrei.

L’obiettivo della ricerca, se ho ben compreso le indicazioni, è indagare su quale sia oggi l’immagine degli ebrei, quali le conoscenze, le opinioni e i sentimenti che gli Italiani hanno nei confronti degli italiani ebrei.
Conoscenza, opinioni e sentimenti non racchiudono necessariamente un unico orizzonte interpretativo. Possiamo provare a leggere separatamente questi tre momenti?

Per arrivare al cuore della questione, direi che conoscenze, opinioni e sentimenti servono spesso a non acquisire altre informazioni. Sono selezionate soltanto quelle voci che servono per confermare il proprio punto di vista e non metterlo in discussione.
Tale atteggiamento è anche legato all’educazione casalinga e familiare e alla formazione scolastica.
Alla base del pregiudizio c’è di fatto che la competenza dei singoli non è tale da mettere in discussione i convincimenti ereditati.
In questo campo conta, quindi, in maniera rilevante il lavoro di formazione e d’informazione che si può rivolgere alle nuove generazioni, per aiutarli ad avere una coscienza critica e capace di una lettura attenta della storia dei pregiudizi.

La crisi, se mi consente una piccola divagazione, non è soltanto economica. In discussione, credo, ci sono anche le nostre certezze secolari di occidentali e in qualche modo è messa in crisi la nostra stessa identità. I paradigmi che abbiamo usato negli ultimi secoli non bastano più a rappresentarci. Possiamo aspettarci anche qualche passo positivo da una riflessione sull’identità e sull’appartenenza che superino steccati di genere, di razza, di religione e ci preparino davvero a un’identità plurale e aperta? Insomma, secondo Lei, ci sono più opportunità o più pericoli nei mutamenti che stiamo affrontando?

Non ritengo di avere informazioni sufficienti per leggere tutti gli aspetti di questa crisi. In senso generale, direi però che la crisi economica accentua la distanza fra élite e le persone d’istruzione media.
L’Italia si avvia a essere un paese di “vecchi” e dovremmo, quindi, guardare positivamente a quei mutamenti che concorrono all’aumento della popolazione più giovane e in età lavorativa.  Inevitabilmente, però chi è in basso, nella scala sociale, ha paura di perdere quello che ha. Anche da questo punto di vista conta molto la formazione.
Antonio Fresa

Per saperne di più
http://www.cdec.it
http://www.museoshoah.it/home.asp
http://www.osservatorioantisemitismo.it

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