
La storia dell'architetto Antonio Memoli è una storia individuale e contemporaneamente un pezzo della storia di Napoli. Ho bevuto con golosità le sue parole e i suoi racconti che parlavano di lotte, di amori giovanili, di passione civile. Antonio è un signore pacato di 85 anni imponente e dalla criniera bianca, lucido nelle sue analisi. Con competenza e semplicità mi ha spiegato la differenza tra architettura organica di Wright e quella razionalista di Le Corbusier. Attraverso i suoi occhi ho assistito alle lotte per abbattere le Vele di Scampia, esempio di ecomostro spacciato per edilizia popolare. Con lui e i suoi ricordi ho nuotato nel mare di Bagnoli.
Con Antonio Memoli ho capito ancora una volta quanto sia importante la memoria dei nostri vecchi. Senza questa memoria siamo privati del futuro. Senza radici siamo come alberi destinati ad abbatterci al primo soffio di vento.
Chi è l'architetto Antonio Memoli? Sei un uomo di 85 anni che non ha mollato mai; e poi?
Io ho avuto un'intensa vita professionale, non è che ho fatto semplicemente il lavoro nel sociale. A maggio sono stati approvati un paio di piani regolatori che ho fatto nell'area aversana. Un comune si chiama Carinaro, l'altro si chiama Sant'Arpino. Non ho mai accettato supinamente l'idea che l'architetto fosse un personaggio semplicemente da tecnigrafo o da studio professionale. Noi architetti abbiamo una responsabilità non indifferente, nelle nostre traiettorie intercettiamo continuamente il problema della casa. Il problema della casa non lo si può vedere esclusivamente dal punto di vista del convegno intellettuale in cui si ragiona dal punto di vista numerico. Io ho fatto una scelta dovuta anche al fatto che – politicamente – a suo tempo stavo in Democrazia Proletaria, ed ero un dirigente del gruppo di Napoli che si interessava delle lotte sociali. Questo mi ha dato occasione di conoscere la situazione delle Vele. Però già prima avevo partecipato a un altro comitato che ha contribuito all'abbattimento e alla ricostruzione di un altro rione di Napoli, il Sant'Alfonso. Quattrocentoquaranta famiglie vivevano in alloggi parcheggio, costruiti nel dopoguerra e nei quali era impossibile vivere.
Antonio nel dipanare il filo della memoria mi parla dei suoi studi alla scuola per geometri al Giambattista della Porta. Della sua infanzia a Roma, del padre che lavorava allo stato maggiore dell'esercito, del trasferimento a Napoli, dell'adolescenza e poi dell'università, che ha attraversato affamato di vita, tanto da fargli ritardare la laurea al contrario del fratello.
Mario, mio fratello ha finito in cinque anni, poi è partito. Ha fatto due giorni sulle panchine di Milano poi ha bussato alla porta di Bruno Morassutti, architetto milanese che era stato anche nello studio di Frank Lloyd Wright, un nume dell'architettura organica, che io ho sposato moltissimo. All'università il mio maestro è stato un grande architetto napoletano, Nicola Pagliara. Con Nicola l'architettura era la storia, era la Secessione Viennese, era la conoscenza dei rapporti con il sociale. Era un'architettura di fermento. Quel modo di intendere l'architettura mi ha segnato. In quel periodo conobbi anche Felice Pignataro. Il rapporto con Nicola Pagliara è stato molto significativo. C'era tutto un clima culturale che ti investiva, che ti coinvolgeva e che ti toglieva tempo rispetto agli esami.
Mi piace ascoltarti, prendi il tuo tempo.
Il racconto di Antonio continua con il trasferimento in un alloggio dell'Ina Casa, dove incontra la giovane Irma, con la quale avrà un amore adolescenziale, e che poi incontrerà nuovamente da giovane. A lei dovrà la sua prima formazione politica.
Conobbi Giovanni Russo Spena, che è stato un parlamentare, e con lui è partita la storia politica. In quel momento mi sono reso conto che il contributo che mi interessava dare non era quello del dirigente politico, o di tentare una scalata. Il mio interesse era di capire come il mio approccio professionale potesse essere utile nel sociale. All'inizio ho lavorato molto sui piani regolatori, a Cosenza, a Villapiana, a Sibari.
Ed è in quel periodo che incontri il quartiere Sant'Alfonso?
Una volta capitò a casa Pier Paolo Polizzi, studente di medicina, il quale aveva organizzato un comitato nel rione Sant'Alfonso, ignorato completamente dall'ufficialità napoletana. Il Sant'Alfonso era un rione destinato a quattrocentoquaranta famiglie che originariamente vivevano nelle baracche di via Marina, e che avevano perso la casa per la guerra. Avevano promesso a queste famiglie di toglierle dalle baracche, che erano dei tuguri, per spostarle in alloggi parcheggio per sei mesi prima di arrivare alle case definitive. I sei mesi sono diventati sessant'anni. Questo rione adesso è stato distrutto, anche per l'iniziativa che avevamo avuto noi. Si trovava in via Canola al Trivio. Era un rione molto ghettizzato, molto isolato, quindi con tutti i problemi di marginalità, di ghettizzazione, di violenza sulle donne, di prostituzione. Il Sant'Alfonso era vicino a un altro rione emblematico di Napoli, dal nome particolare che si chiamava rione Siberia, proprio sulla faglia di Poggioreale. Adesso non c'è più. L'incontro con Pierpaolo è stato il passaggio nodale fra il rapporto politico con Irma, che era molto teorico, e il rapporto fattivo invece col sociale. Per cui andai al Sant'Alfonso e incominciai a frequentare le riunioni che facevano nei sottoscala. I ragazzi del comitato intervenivano sulle donne, che spesso erano prese a calci dai mariti per i problemi familiari che si possono immaginare, oppure facevano assistenza familiare o l'asilo, o il doposcuola. La loro attività mi coinvolse molto. Tutto l'aspetto professionale era continuamente messo alla prova e stimolato ulteriormente da queste cose.
Ti sei fatto le ossa al rione Sant'Alfonso prima di arrivare alla lotta delle Vele?
Ci sono delle fasi di queste esperienze in cui si fanno assemble in continuazione e c'è coinvolgimento. Poi ci sono delle fasi calanti, in cui resti quasi da solo a dover interloquire con l'Amministrazione, con il Comune. Poi, all'inizio degli anni Novanta, con Bassolino come sindaco, furono stanziati settantacinque miliardi con la legge del dopo terremoto, la 219. Questo consentì di incominciare a progettare. In quell'occasione, Mario – da Milano – venne a Napoli. Mi fece piacere perché insieme abbiamo progettato il rione Sant'Alfonso che restava in piedi ma ricostruito grazie alla nostra lotta: facendo la via di Poggioreale, che va da due posti non particolarmente eccezionali, il carcere da un lato e l'emiciclo del cimitero; sulla sinistra si vedono dieci torri bianche di undici piani. Sono le dieci torri in cui mettemmo le quattrocento quaranta famiglie, quaranta per ogni torre. Ovviamente, il nostro progetto prevedeva la struttura sanitaria, le tre scuole dell'obbligo, il parco che aveva rapporti con la parte alta di Poggioreale. Tutte queste cose, ovviamente, non sono state fatte.
Sembra che si possano avere progetti fantastici ma poi – come a Scampia – non vengono attuate le parti essenziali. Sembrerebbe che il fallimento dell'edilizia popolare consista proprio nell'idea di dare la casa, ma di darla nel nulla.
Hai centrato il problema. Per quanto riguarda la storia delle Vele, nel 2017 ci fu un gruppo del Corviale di Roma [Corviale, altro esempio di edilizia popolare monstrum; ndr] che organizzò un incontro a Montecitorio nella sala Aldo Moro. E qui furono chiamate varie esperienze, da Torino fino a Palermo. L'esperienza di Torino esprimeva l'esigenza di avere un parco verde vicino a una zona residenziale, quindi cose importanti ma abbastanza limitate. Da Corviale in giù, quindi per noi delle Vele, per lo Zen di Palermo o anche per Bari, la domanda era “Che case ci avete dato?”.
Spesso le Vele le chiamo gli stabulari. Lo stabulario è il sistema con cui si tengono in gabbia gli animali da esperimento. E il modo in cui si sono prodotte queste case, con questi agglomerati di duecentoventi – duecentotrenta famiglie per ogni vela replica la logica dello stabulario.
Perché?
Ti do una risposta che non è completamente esaustiva ma è una risposta secondo me è importante. Bisogna fare una digressione, tornando all'architettura dell'anteguerra, a Le Corbusier. Io ho seguito molto anche, con Nicola Pagliara, l'architettura cosiddetta organica di Wright, che è un'architettura americana con una logica americana. Perché gli Stati Uniti hanno una grande disponibilità di spazi. Wright procedeva avendo un focus, avendo un living centrale. E da quel punto, che in genere nelle sue abitazioni era il camino, il fuoco, lui progettava.
L'alternativa era Le Corbusier, con l'architettura razionalista – praticamente l'architettura europea – in cui lo spazio è molto più limitato e i problemi sono più legati al sociale. Nell'anteguerra, Le Corbusier aveva progettato le Unité d'habitation, che sono delle strutture realizzate anche a Marsiglia e a Nantes. Lui prevedeva di concentrare centocinquanta – duecento famiglie in questi unici grandi complessi, che avevano però una serie di caratteristiche molto intelligenti. Innanzitutto le Unité erano sollevate dal terreno, erano molto distanti fra di loro. Quindi c'era un sistema naturale di parco, di verde, che praticamente consentiva poi la vita sociale. Stiamo parlando dell'inizio degli anni Trenta. Già si incominciava a ragionare della concentrazione della vita nelle aree urbane.
Poi a metà di queste abitazioni era prevista una strada pubblica. Lui immaginava che la gente dai piani superiori o dei piani inferiori potesse trovare negozi. Sulla copertura dovevano esserci l'asilo e i giochi per i bambini. Questa esperienza lui l'aveva già fatta in modo particolare a Parigi, la casa Savoye aveva questi elementi.
L'idea funzionava?
Purtroppo non ha funzionato molto.
Non ha funzionato perché l'idea di partenza era fallimentare o perché le Unité d'habitation di Le Corbusier non sono mai state costruite secondo i criteri teorici che lui aveva indicato?
Questo è un po' il problema. Noi abbiamo spesso il vizio di avere una spinta utopistica. Fra l'altro c'è un professore, Nikos Salingaros, docente di teoria urbanistica all'Università di San Antonio in Texas, che ha criticato molto questo modo di pensare degli architetti, cioè di essere entusiasti di una loro idea utopistica senza rendersi conto di doversi confrontare con il modo di vivere la gente.
Faccio una breve salto sulle Vele per farti capire. Il problema nasce da Le Corbusier, che aveva fatto queste unità di abitazione prima della Guerra. Nel dopoguerra, quindi negli anni Sessanta, c'era la necessità di dare la casa a persone che vivevano nelle baracche o nel centro storico di Napoli. Il problema è che si è progettato prendendo come riferimento queste unità di abitazioni di Le Corbusier, e anche ipotesi di architetture che erano già state realizzate (per esempio a Montreal, in Canada). Da qui la forma triangolare delle Vele, da cui il nome. Però quelli in Canada erano state fatte per i Giochi olimpici, per alloggi momentanei. Invece a Napoli si sono realizzate le Vele mettendo in concentrazione duecentoventi – duecentotrenta alloggi per ogni vela, nelle sette vele iniziali. In cui fin dall'inizio si cominciò ad avere difficoltà di gestione, problemi che andavano dagli ascensori che non funzionavano ai contatori della luce elettrica che non avevano più le porte, con grave rischio per i bambini.
Non sono stati costruiti o i materiali erano scadenti e si sono deteriorati rapidamente?
Il materiale non era eccezionale. Inoltre, nella costruzione fu usato il sistema dei “tompagni”, sistema costruttivo obsoleto già allora, che limita anche la possibilità di modificare la dislocazione degli alloggi. Perché hai degli elementi di cemento armato sui quali non si può intervenire. Alle Vele tu hai uno scheletro di cemento armato con dei pilastri. Però se vuoi salire sulla facciata hai il pilastro poi l'altro pilastro, in mezzo hai delle murature che non sono portanti, sono appunto i tompagni. Alle Vele sono di dodici – tredici centimetri, con un po' di polistirolo dentro. Quindi, con il freddo il vapore interno porta la muffa sulle pareti. La muffa la respira l'anziano, il neonato. Queste sono cose che ho denunciato dal momento in cui, dopo il Sant'Alfonso, è partito il discorso delle Vele.

Come è iniziato il tuo impegno per le Vele?
Ricordo ancora il giorno. Era il primo marzo del 1988. Mi arriva un volantino che alla sala Santa Chiara a piazza del Gesù, nella piazza centrale di Napoli, si faceva un convegno, e che un comitato delle Vele avrebbe proiettato delle diapositive, facendo vedere le condizioni inumane in cui si viveva in questi alloggi. Per cui, da responsabile della Commissione lotte sociali di Democrazia Popolare, andai. In quell'occasione incominciai a conoscere i componenti del Comitato, in modo particolare Vittorio Passeggio che è stato l'anima centrale di questa storia.
Insieme a Vittorio, con il mio supporto e quello di altri siamo riusciti ad avere la bellezza di 920 alloggi e l'abbattimento delle prime tre vele, grazie all'esperienza che abbiamo fatto insieme tra il 1999, il 2001 e il 2003. Questo abbattimento è collegato al fatto che si sono costruiti alloggi avendo ottenuto un finanziamento di 120 miliardi nella finanziaria del 1993.
Antonio Memoli interrompe il racconto per un momento. Mostra il suo dossier sulle Vele, che parafrasando il Padre nostro invece di dacci oggi il nostro pane, ha intitolato Dacci oggi il nostro alloggio quotidiano. [in copertina].
Antonio snocciola dati, rievoca aneddoti. In uno degli incontri al Quirinale, Cossiga si rivolse al sindaco socialista Polese e a Scotti – che in quell periodo era ministro dei lavori pubblici – apostrofandoli. “Se voi non vi decidete a togliere queste famiglie da queste case faccio venire l'aeronautica militare e faccio abbattere tutto”.

C'è un'altra zona di Napoli che mi interessa, Bagnoli. Come sta procedendo la bonifica e la riqualificazione? Tu sei coinvolto?
So di questa storia, ovviamente, perché è una storia che dura dai tempi in cui c'erano i Verdi nell'amministrazione napoletana. Quindi avevamo fatto qualche incontro su questa storia. Ci sono tante ipotesi ma sono fallite tutte.
Da quanti anni va avanti questa storia?
Dal momento in cui è stata tolta l'Italsider.
Quanti anni fa?
Ormai siamo intorno ai ventotto – ventinove anni. L'Italsider, a pieno regime, aveva 19.000 persone tra operai, funzionari, addetti.
Adesso che cos'è Bagnoli? È una zona morta?
Bagnoli è un quartiere dormitorio. Non ha più una funzione così come l'aveva allora. L'ipotesi più logica era quella di fare un grande parco per Napoli di 130 ettari, che avesse poi come sponda naturale tutto il lungomare che inizia da Nisida.
Era un progetto affascinante.
Quello che è importante è il fatto che la città possa avere un rapporto con questo grande parco di 120 – 130 ettari, con il lungomare che andrebbe da Nisida fino alla Pietra. Poi ovviamente c'era l'ipotesi di fare degli alberghi e contemporaneamente fare anche delle residenze, ma molto limitate, all'interno di questa area verde che avrebbe acquisito Napoli. Ma il punto centrale qual è? È la loppa, che sarebbe poi il residuo degli altiforni attivati dall'Italsider, insediata erroneamente lì dal 1903. Se non fosse accaduto, Napoli avrebbe avuto un'espansione verde, un'espansione ambientalmente importante da quella parte. Il primo insediamento di Bagnoli, l'Ilva, è del 1903 con altiforni per la produzione di acciaio. Ricordo che con mia madre ho imparato a nuotare lì.
Bello il racconto di quei primi bagni in cui la madre prendeva per mano lui e suo fratello e insieme a loro si allontanava a rana. Bello quell senso di sicurezza che solo il materno è in grado di restituire.
Ricordo di essermi trovato in una situazione in cui qui c'era l'acqua fredda e subito accanto l'acqua calda. Erano gli scarichi dell'Italsider, era un'acqua gialla. Per fortuna non l'avrò bevuta. Era arsenico, magnesio, manganese. Era la loppa dell'altoforno, il materiale prodotto dall'Italsider.
Il problema è che prima di fare il grande parco verde bisogna bonificare un enorme quantità di questo materiale che sta a mare, a Bagnoli. Ristagnando non dà inquinamento, ma appena lo tocchi ti porta manganese, magnesio, arsenico. Ma non è l'unica ragione per cui non si procede con la bonifica. Ci sono anche ragioni politiche.
La disabilità come viene affrontata anche a Scampia nelle nuove progettazioni?
È quasi facile risponderti. Nelle vele non esiste nulla dal punto di vista progettuale, non è stato previsto. A Franz De Salvo, progettista delle vele, sono state criticate molto le passerelle centrali, che avrebbero dovuto rappresentare il vicolo napoletano ma che in realtà del vicolo napoletano non hanno niente. Perché a cinquanta metri di altezza hai queste passerelle con le facciate interne delle due vele che si avvicinano. Quindi, devi tenere la luce accesa in continuazione perché la luce non arriva. E queste passerelle poi ti portano con delle scalette o a scendere o a salire agli appartamenti e hai così un effetto carcere, un effetto Alcatraz.
Con le Vele di quante centinaia di persone stiamo parlando?
Se moltiplichi il numero delle famiglie, 230 per tre e mezzo, che è la media dei componenti di ogni famiglia e poi per 7, che è il numero delle Vele, arrivi a più di cinquemila persone. Novecentoventisei famiglie, grazie alle nostre lotte, furono trasferite in via Gobetti, via Labriola, via Linzeri, vie note a Scampia. Là dove furono costruite le prime case.
In un'intervista, una vecchia signora che aveva avuto uno dei nuovi alloggi, dice: «Adesso io sto in una palazzina di tre piani. Siamo sei famiglie, ci chiudiamo il nostro portone, puliamo le scale, facciamo la statua della Madonnina». Rendeva con parole semplici che cosa significa vivere in una condizione di degrado come quella delle Vele.
Tutta questa storia ha un nucleo centrale. La dimora è una dignità che tu non puoi togliere alle persone. Cioè, se tu togli la dimora intesa proprio come diritto alla socializzazione, come capacità proprio di essere e di avere un decoro, tu veramente togli un elemento di qualità. Se dai una casa decente, sicuramente troverai ancora quello che spaccia dentro, però incominci già ad avere delle relazioni che consentono al ragazzo forse di avere un'alternativa. Insomma, la modalità con cui tu stabilisci un modo di costruzione non è semplicemente un elemento ex tempore nell'università. È un modo con cui tu ti avvicini a dire: metto un falansterio con duecento – trecento famiglie, oppure incomincio a dare una vita?

Mi sembra che le responsabilità siano a due livelli: da una parte gli architetti a un certo punto perdono il contatto con la realtà, con il quotidiano, con la carne viva della gente che nelle case dovrà viverci; dall'altra parte c'è la responsabilità della politica, che avalla progetti inadeguati.
Attualmente, nel lotto M, dove c'era la prima vela, quella verde che è stata demolita, c'è una seconda vela, quella celeste. Nell'ipotesi che è stata fatta con l'università deve restare in piedi. Con Luigi De Magistris si ipotizzava che divenisse la sede della Città metropolitana. Noi spingiamo in questa direzione perché se a Scampia crei un polo con delle funzioni hai una commistione. Quindi il ghetto non c'è più, o per lo meno tendi a cambiare il rapporto con la periferia, crei situazioni in cui la gente arriva piuttosto che andare via. Un evento importante è stato a ottobre l'inaugurazione dell'università, con il Polo di scienze infermieristiche. Bene o male arrivano docenti, studenti da fuori. Quindi c'è una convivenza, un incontro.
Poi ci sono le ultime due vele, la rossa e la gialla che devono essere abbattute. Con Laura Lieto – che è l'attuale vicesindaco – con il Patto per Napoli ci sono 70 milioni di euro che serviranno per l'abbattimento anche di queste due vele. Non si possono mettere insieme famiglie con un reddito così basso. Sappiamo che il Comune poi non saprà, non sarà in grado di intervenire. Perché sappiamo che le ditte che vengono chiamate per gestire gli edifici non lo fanno. La Romeo era stata chiamata ma non ha fatto niente, e ti ritrovi poi con queste condizioni di vita abnormi, allucinanti.
Questo è un primo aspetto. Il secondo è che dal punto di vista architettonico è errato mettere delle strutture edilizie così vicine. Al di là del fatto che le Vele sono costruite in modo che prima di poter entrare in casa ti arriva la pioggia, il vento, il che è assurdo. Ma tu pensa che cosa significa ancora oggi l'emergenza di un terremoto o di un incendio? La gente è costretta a scappare lungo delle passerelle. Ci sono problemi di pratica edilizia che sono proprio inconcepibili, che vanno messe al bando. Non è possibile che non sia stata pensata questa cosa nel progetto originario. E poi c'è un problema di tipo edilizio, come il tompagno del quale ti dicevo.
Io sto proponendo a Laura Lieto, che è docente anche di progettazione, un tavolo tecnico dove si discuterà di una mia proposta su cosa fare del lotto M.
Sono partito dal fatto di avere delle unità di vicinato, in cui hai quattro palazzine intorno a un nucleo centrale, con i parcheggi sotto e i giochi per i ragazzi. Le macchine non arrivano se non in emergenza e sono semplicemente sulle strade laterali all'esterno. Tutto questo, ovviamente, significa che queste unità di vicinato le ripeti in maniera itinerante.
Le unità di vicinato sono distanziate fra di loro rispetto a una spina centrale, che è una spina pedonale con un sistema di verde che va da un lato, lo attraversa e arriva al parco che sta dall'altro lato. Ma soprattutto con delle connessioni verso una zona adiacente dove c'è un complesso scolastico. Da questa, zona tramite un percorso, si arriva all'università, e al vicino parco. La vela celeste, che è l'unica che resta in piedi, quella della Città metropolitana, viene attraversata dal percorso principale che passa nelle Vele.
È già stato deciso che la Città metropolitana andrà là?
È una volontà di De Magistris. De Magistris ha fatto questa proposta che è stata messa anche in una ipotesi progettuale che si chiama Restart Scampia. Laura Nieto non conferma ufficialmente questo, ma parla comunque di una funzione.
Quindi, il concetto centrale è non vivere la periferia semplicemente come luogo da cui la gente cerca di scappare ma anche come luogo in cui arrivare?
Tieni conto che Scampia è molto in fermento non da oggi. Infatti, ci sono molte associazioni, alcune importanti. Per esempio, ci sta L'uomo e il legno, cioè una struttura che fa artigianato sul legno.
Una delle strutture più importanti forse è quella di Maddaloni. Maddaloni è stato un olimpionico di judo. Il padre e lui hanno messo su una palestra a Scampia. Sta vicino alla municipalità ed è un luogo di riferimento. Quando c'è stato il covid loro hanno organizzato i pacchi viveri. Le persone che non avevano reddito potevano andare in palestra e prendere il pacco.
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