
Le guerre si fanno con le armi, quindi, meno armi si producono e commercializzano meno morte e distruzione seminiamo. Fino a quando non renderemo almeno marginale l’economia di guerra che caratterizza molti stati, riducendo numero di armi e armamenti leggeri e pesanti non faremo che favorire terribili conflitti.
È anche del tutto chiaro che le armi verranno rivolte contro gli stessi paesi produttori. “Taking stock: The arming of islamic state” (dicembre 2015), il documento prodotto dall’Armament Research Services con Amnesty international inizia dicendo che «il gruppo armato che si fa chiamare Stato islamico (IS) distribuisce un considerevole arsenale di armi e munizioni, progettato o fabbricato in più di 25 paesi». E più in là prosegue spiegando che i combattenti dell’IS sono equipaggiati con fucili d’assalto AK di fabbricazione russa, di M16 made in USA, di CQ cinesi, di Heckler & Koch G3 tedeschi e dei belgi FN Herstal FAL. La lista è lunga e poi andrebbero aggiunte anche le apparecchiature più sofisticate come missili teleguidati anticarro (Sistemi di Kornet e Metis russo, cinese HJ-8, ed europeo MILANO e missili HOT) o missili terra-aria di fabbricazione cinesi (FN-6 MANPADS).
Una delle pincipali fonti di approvvigionamento è l’Iraq perché, per molto tempo, è rimasto di fatto ingovernabile nonostante elezioni volute dall’Occidente e la costruzione di istituzioni con criteri non condivisi. Se a questo si aggiungono livelli di corruzione e inadeguatezza dell’esercito iracheno si capisce anche la facilità delle razzie di armi e munizioni. Insomma «la quantità e la varietà delle scorte di armi e munizioni dell’IS riflettono, in definitiva, decenni di irresponsabile trasferimenti di armi verso l’Iraq e molteplici fallimenti da parte dell’amministrazione occupante guidata dagli Stati Uniti nella la gestione delle forniture di armi e scorte in modo sicuro, così come nella presenza di corruzione endemica in Iraq».
In Africa sono in corso più di tredici guerre e i principali paesi che, secondo dati dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), vendono armi per questi conflitti sono Usa, Russia, Cina, Germania e Francia, UK, Spagna e Italia e Ucraina, Israele. In totale per l’Africa lo stesso rapporto parla di oltre 50 miliardi di dollari per tutto il 2014.
L’Italia che è sempre ben posizionata in tutte le graduatorie è addirittura al 2° posto tra gli esportatori di piccole armi a livello mondiale, secondo l’annuario del centro studi internazionale di Ginevra (Small Arms Survey 2015).
In Africa poi, nel caso delle armi leggere, «è molto difficile conoscere i dati relativi a questo settore, che giungono peraltro con diversi anni di ritardo – spiega Simoncelli [vicepresidente dell’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo, ndr] -, a causa di un’informazione assai poco trasparente e anche di un fiorente mercato nero». Questo mercato deve tener conto che i mercenari in questo continente “fatturano” miliardi di dollari. «e questo spiega anche le ragioni per cui tutti questi conflitti in un solo continente non facciano neanche sollevare un sopracciglio alla cosiddetta “comunità internazionale”, che osserva impettita e distratta i massacri di centinaia di migliaia di civili – tre quarti dei quali donne e bambini – costretti poi ad ingrossare il già enorme “fiume umano” di profughi in rotta verso l’Europa» [1].
In un’intervista Carlo Tombola dell’Osservatorio permanente delle armi leggere (Opal) di Brescia oltre a spiegare come lavorano per trovare informazioni “è più che convinto che tutte le operazioni in questo settore, «anche quelle più grigie, coperte, o nere» siano controllate se non direttamente gestite dai governi […] e se si vuole controllare veramente dove vanno a finire queste armi è il caso, come richiesto da Opal, insieme all’ong TransArms in sede Onu di discussione del trattato Att, «che fosse responsabilizzato anche il vettore, che è civile. Il più grande trasportatore di armi, volete sapere chi è? Fedex, il secondo è Dhl» [2].
Su pressione dell ong e forse per il fatto che poi queste armi vengono usate anche per atti di terrorismo sul vecchio continente, il Parlamento europeo ha approvato un codice di regolamentazione per aumentare la trasparenza e i controlli sul commercio di armamenti convenzionali e tecnologia militare dall’Ue verso paesi terzi. Una foglia di fico perché non è vincolante e non prevede sanzioni. Viene chiesto agli Stati membri una relazione annua sull’export, ad avere licenze di vendita più trasparenti, viene ipotizzata la creazione di un’autorità garante e a mantenere quanto stabilito dall’ONU.
In questa sede è stato approvato il trattato Att, l’Italia è tra i proponenti, con la firma a favore di 157 paesi e con 26 astenuti. Vengono stabiliti dei parametri per poter autorizzare l’export come il rispetto della convenzione di Ginevra, gli embarghi, l’esclusione dei paesi destinatari coinvolti in guerre, il rispetto dei trattati sulle mine anti-uomo.
Pasquale Esposito
[1] Marta Rizzo, “Armi Africa, un affare da oltre 50 miliardi di dollari nel solo 2014”, www.repubblica.it, 18 novembre 2015
[2] Rachele Gonnelli, “Carlo Tombola: «Più della triangolazione ora si delocalizza»”, www.manifesto.info, 18 dicembre 2015
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