
Il linguaggio è alla base del pensiero di una civiltà. Le parole sono i mattoni con cui si costruiscono i concetti, le particelle che aggregandosi e disgregandosi danno vita alle idee, creano i postulati su cui si fonda il vivere quotidiano, consolidano le certezze di un'epoca, tracciano la strada che verrà percorsa dall'umanità per anni, secoli e forse millenni.
Ma se un linguaggio lineare può dar vita ad una visione delle cose soltanto di analogo tenore e ad una conseguente concezione del tempo come entità che si srotola poco alla volta, con un prima ed un poi (una sorta di enorme gomitolo da cui il filo della vita viene dipanato con un movimento costante, ritmico e fluido), un linguaggio circolare può sfaldare i modi di pensare acquisiti, mutare le consuetudini percettive, consentire di andare oltre i limiti del mondo così come viene colto dai sensi e di elaborare una nuova concezione del tempo, inteso stavolta come entità posta su piano, su cui è possibile guardare indifferentemente da una parte o dall'altra, a ciò che (secondo una prospettiva lineare) è già stato o a ciò che sarà.
Partendo da un ragionamento di fondo che può riassumersi nelle poche battute riportate, Villeneuve, il cineasta canadese atteso alla prova del sequel di Blade Runner, dà forma ad un'opera composita e complessa, densa di suspense e suggestioni emotive, sui grandi (e piccoli) perché della vita, che oscilla continuamente tra fantascienza e filosofia esistenzialista.
Calato in un contesto scandito da citazioni kubrickiane ed intenti malickiani (si pensi in particolare, quanto alle prime, al monolito nero di 2001: Odissea nello spazio, icasticamente rievocato dai misteriosi “gusci” che all'improvviso si materializzano in 12 punti del pianeta), caratterizzato da un epos catastrofista (gli eserciti mondiali sono sempre sul punto di dichiarare guerra agli alieni piombati da chissà dove ed il genere umano appare a rischio di estinzione), Arrival si presenta come un film di fantascienza che poco ha di fantascientifico se non l'involucro esteriore che lo avvolge (la stessa Adams ha dichiarato che, dopo aver letto il copione del film, ha preparato il suo personaggio come se non si trattasse di un film di fantascienza). E che lascia invece trasparire una patina esistenzialista che ne pervade la storia lungo tutto il suo sviluppo: le vicende personali della protagonista, inserite nel contesto senza una precisa indicazione temporale, si intrecciano contrappuntisticamente col racconto filmico come una sorta di controcanto di morte che dà un sapore tragico al corso della narrazione.
L'esperienza all'interno dei “gusci” consente a Louise / Amy Adams di vedere, come fossero mescolati tutti insieme su uno stesso ripiano, pescandoli alla rinfusa da una scatola che li contiene, i vari tasselli che compongono il puzzle della sua vita (futura o passata non conta). E quando l'immagine che poco alla volta si compone prende finalmente forma e il quadro diventa intellegibile, giunge inesorabile il momento di operare una scelta, per quante implicazioni drammatiche questa possa avere.
Il viaggio all'interno dei gusci-astronavi, diegeticamente vissuto come una spedizione di un gruppo di eroi coraggiosi e forse un po' incoscienti, diventa allora sul piano simbolico una sorta di nuova nascita – o, meglio, di nascita ad un nuovo modo di concepire le cose, di percepire ciò che ci circonda. Un ritorno nel grembo materno dal quale si fuoriesce profondamente cambiati, dotati di una facoltà percettiva nuova: il dono che gli alieni offrono all'umanità. E, analogamente, anche l'abbandono della tuta protettiva, prima da parte di Louise, poi di Ian / Jeremy Renner, se nella storia narrata è un episodio legato al tentativo di gettare un ponte verso gli alieni mostrandosi così come realmente si è, nella propria fragile natura di esseri umani, sotto il profilo metaforico corrisponde allo spogliarsi di un vecchio habitus, al disfarsi di limiti che sono propri di un linguaggio, di una visione delle cose che l'arrivo degli alieni intende sovvertire.
Ma il vero sovvertimento, sembra dirci Villeneuve, il vero dono lasciato dagli alieni non è l'apprendimento di un nuovo linguaggio. Non è il rovesciamento di prospettive che consente una diversa percezione del tempo. Ma la messa in discussione di noi stessi, il cambiamento di una civiltà che, prima di rivolgere lo sguardo alle creature che provengono dallo spazio per capirne le intenzioni, deve imparare a guardare dentro di sé e capire se stessa; prima di imparare a parlare col popolo alieno, deve imparare a mettere in contatto tra loro le sue varie componenti.
Gianfranco Raffaeli
Scheda del film:
Titolo originale: Arrival
Genere: Fantascienza
Origine/Anno: USA/2016
Regia: Denis Villeneuve
Sceneggiatura: Eric Heisserer
Interpreti: Amy Adams, Jeremy Renner, Forest Whitaker, Michael Stuhlbarg, Tzi Ma, Mark O'Brien
Montaggio: Joe Walker
Fotografia: Bradford Young
Scenografia: Patrice Vermette
Costumi: Renée April
Musiche: Jóhann Jóhannsson
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