
Arte, tecnica, falsi e paleoantropologia: di questo abbiamo parlato con
Cristina Muccioli, docente di Etica della comunicazione presso l’Accademia di Brera.

Il lavoro di ricerca della Muccioli è, infatti, aperto e pronto a confrontarsi con le altre discipline. La ricerca costante degli insegnamenti del passato convive con il presente e con il futuro: nuovi linguaggi e una sorprendente capacità di adattarsi ai diversi ambienti ed epoche storiche sono il frutto dell’evoluzione umana e delle tecniche che abbiamo creato.
Se ben intendo la falsariga del suo lavoro di ricerca, la sua attenzione si appunta sui confini fra le discipline senza una sterile chiusura “specialistica”.
Partendo da questo dato, la prima cosa che le chiederei è saper qualcosa in più sulla sua formazione e sui suoi interessi.
Mi laureai in filosofia teoretica pur avendo triennalizzato anche filosofia della scienza. La filosofia della scienza mi insegnò che cosa significa ‘evoluzione biologica’, ‘rivoluzione’ copernicana e galileiana, ‘relatività’. Quella teoretica mi insegnò a capire cos’è un paradigma, cosa significa metodo, ‘ricerca’, ‘ipotesi’, ‘congettura’, ‘confutazione’, ‘verificabilità’ e ‘cornice’. La riflessione sulla cornice, mai terminata e tuttora attiva, fu per me dirimente. Non c’è niente di assoluto, di vero una volta per sempre, e niente è liquidabile come banalmente falso.
Mi piacerebbe poi sapere un poco meglio il profilo del suo insegnamento di Etica della comunicazione presso l’Accademia di Brera. In un suo intervento trovato sul web, lei parla di un contenitore che le consente di spaziare in più campi. Come lo potremmo precisare?
Insegnare Etica della Comunicazione, dal momento che tutti ci comportiamo (Etica) e tutti comunichiamo, deve rispondere a un prerequisito: quello di contestualizzare i suoi contenuti rispetto al luogo, cioè all’uditorio e alla frequentazione. Insegnarla a Brera, nel mio caso, non può prescindere dal contenuto etico della comunicazione di un’immagine. L’immagine è potentissima perché prescinde dalla conoscenza di lingue e idiomi. Raccoglie in sé tradizioni, metodi, supporti e rottura degli schemi. Un’opera, ci ricorda Heidegger, ‘opera’, cioè suscita emozioni e riflessioni. Vanno analizzate, pensate, dibattute.
Nella tradizione che abbiamo alle spalle, almeno se la si considera da una certa angolazione, le emozioni sono state spesso viste come una sorta di conoscenza di grado inferiore da riportare a sistema e concettualizzare.
Tutto quello che può entrare nell’idea di lebenswelt è stato un “problema” per la filosofia, per le teorie sul mito e così via. È possibile a suo parere un approccio diverso?
La domanda che in ogni ambito speculativo ho è: come siamo arrivati sin qui? Come siamo divenuti ciò che siamo, la lingua che parliamo, i mezzi che produciamo, usiamo e finiscono per costituirci come attori di pratiche? Posto sui termini più comuni, più irriflessi, questo quesito spalanca orizzonti interpretativi così ampi da mettere paura: una bellissima paura. Ci si rende conto che una specializzazione sola non serve, ma frantuma. Michel Serres affermava che sapere un po’ di tutto è impossibile. Però è necessario. Uscire dalla severa silhouette dei miei studi, è un modo per arginare la paura della complessità che intuisco. Da anni esploro le neuroscienze e la neurolinguistica (grazie soprattutto ai contributi di Andrea Moro), frequento corsi di paleoantropologia dove ho potuto conoscere di persona paleoantropologi come Giorgio Manzi e genetisti come Guido Barbujani.
L’estetica del vero è un suo saggio del 2018 pubblicato per Prospero Editore. Possiamo ripercorrere le tappe fondamentali di tale studio e precisare il rapporto tra vero e falso nella storia dell’arte? Come presenterebbe l’apologia del falso?
Nel mio libro “L’Estetica del Vero. Idee e immagini della verità nella storia dell’arte” già dal dal titolo dichiaro di parlare di vero, e di verità come immagini (plurale) della stessa. Mi interessava cercare di capire il contesto storico nel quale vengono formulati giudizi di verità. Ciò che abbiamo ritenuto vero secoli fa ha prodotto senso e orizzonti di comprensione che poi, certamente, si sono rivelati angusti e insufficienti, quando non erronei del tutto o ‘falsi’. Non per questo però dobbiamo irridere chi ci ha preceduto, o chi è vittima di superstizione. Occorre capire, prima di tutto, accogliere e contro-argomentare senza snobismo di casta. Tutto dipende dall’ambito culturale in cui nasciamo e cresciamo. Ogni nostra credenza, ogni azione e progetto, ogni giudizio e superstizione, è coerente entro una cornice temporale e culturale di riferimento. Quando è fortemente incoerente si ha un cambiamento radicale, una rivoluzione.
Ho poi proposto un’apologia del falso, proprio in tempi comprensibilmente arroventati e inviperiti per le fakenews, perché la parola ‘falso’ è stata appiattita su un unico significato, cioè quello di menzogna e inganno. La sua etimologia, ovvero letteralmente ciò che di una parola è ‘vero’, rimanda al latino ‘fingere’ che solo in ultimissima analisi allude a quella negatività. ‘Fingere vocem’, per esempio, voleva dire cantare come un usignolo, imitare un uccello per perfezionarsi nel canto. A sua volta ‘fingere’ deriva da una radice sanscrita ‘fig’ che allude al costruire, al dar forma a un muro con del fango. E ci vuole immaginazione per figurarsi qualcosa di solido e dotato di forma di fronte all’informe semiliquido. Per non parlare degli attori, che fingono al massimo grado di essere il personaggio che interpretano, a volte modificando pesantemente il proprio aspetto, il proprio peso; oppure dei musicisti, che esprimono in massimo grado se stessi nell’interpretare lo spartito di altri, come ne fossero i compositori.
Tecnica, innovazione e creatività sembrano tre parole non eludibili nella contemporanea riflessione estetica. Possiamo provare a illustrarle e a farle interagire alla luce delle sue ricerche?
A mio parere tecnica, innovazione e creatività non sono ineludibili solo nello scenario contemporaneo, ma lo sono all’origine della nostra comparsa sulla Terra. Per questo accennavo alla paleoantropologia. L’umano è un animale tecnico, per essenza. Tutti gli altri animali sanno fare cose perfettamente adatte alla loro anatomia, alla loro natura. In ambienti inospitali per le proprie caratteristiche non sopravvivono. Noi, invece, non abbiamo habitat. Abitiamo, infatti, nei deserti e tra i ghiacci, in pianura e in montagna, perché abbiamo la tecnica. Con essa costruiamo quanto ci è utile per la sopravvivenza e modifichiamo, o antropizziamo, l’ambiente naturale. Prendere uno strumento per costruirne un altro per lavorare un materiale è ciò che ha caratterizzato gli albori della nostra origine, fissati per ora a circa due milioni e mezzo di anni fa (in Africa). Nel libro faccio un cortocircuito con quell’arcaico gesto e le sue conseguenze sino a noi.
Antonio Fresa
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