
Se gli scienziati scoprissero una malattia in grado di comprendere tutti i malesseri e le articolazioni della psiche umana, dovrebbero chiamarla arturite. Niente a che vedere con una presunta forma di dolore fisico o una precaria condizione di salute. Questa sindrome corrisponde piuttosto a uno stato d’animo in perenne evoluzione: ogni volta diverso, ma sempre ugualmente problematico. A esserne non solo afflitto, ma anche a costituirne il ceppo originario di propagazione endemica è il giovane protagonista de “L’isola di Arturo”, uno dei romanzi più noti di Elsa Morante e di tutto il Novecento italiano.
Arturo è semplicemente un adolescente, sensibile e cinico, tormentato e pieno d’incanto, che trascorre la sua esistenza immerso nell’isola di Procida, lembo di terra che tanto lo affascina e seduce. Sembra quasi la trasposizione mite del giovane Holden di Salinger, un po’ più visionario e un po’ meno in rivolta col mondo.
Arturo, abbagliato dalla sua vergine fanciullezza, non sa di essere contagiato da questa malattia e, quindi, non sa opporgli i necessari anticorpi. Tuttavia, attraverso le riflessioni che la Morante affida alla sua voce e alla sua testa, è possibile notarne i sintomi fin da subito. L’amore edipico verso il padre, dipinto come un eroe inarrivabile nonostante le sue ripetute assenze; la ribellione tipica di chi si appresta a scoprirsi uomo; l’immaginazione come guida principale di azione e pensiero; un amore che lo stesso Arturo fatica a definire: sono tutti segnali ben visibili di un’incubazione destinata a terminare in breve tempo, lasciando che la malattia dilaghi nel corpo fragile del protagonista. Bastano due episodi, apparentemente del tutto ordinari, per mandare in frantumi ogni suo residuo di certezza: l’arrivo inaspettato della matrigna Nunziatella e la nascita del fratellino Carmine. Due avvenimenti che stravolgono completamente la vita di Arturo, contribuendo a rendere esplicita la diagnosi: il virus, ormai, l’ha contagiato senza rimedio.
La trama scorre priva di particolari slanci e sussulti: nulla che esuli dal quotidiano rapporto con l’altro. Le attenzioni che Arturo concede a chi lo circonda, tuttavia, non sono mai eccessive, poiché egli sceglie con cura a chi affidare sia le sue speranze che i suoi rancori. Uno dei suoi continui interlocutori è il padre durante i suoi soggiorni a Procida – divenuti col tempo sempre più sporadici – che prima Arturo attende come un’epifania e poi accoglie con freddo disinteresse. La seconda presenza fissa nella vita del protagonista è Nunziatella. Negli spazi lasciati liberi dai capricci di Carmine, Arturo si rapporta costantemente con lei, iniziando a coltivare un sentimento ambiguo, che sfugge a ogni plausibile comprensione. Tali confronti, scambi di sguardi o parole, però, si rivelano per Arturo sempre difficili, costringendolo ogni volta a scoprire lati di sé fino a quel momento remoti o segreti. La vivace turbolenza del suo carattere lo espone a frasi che non avrebbe voluto dire, a volti che non avrebbe voluto sfiorare; la sua curiosità gli fa compiere azioni non sufficientemente ponderate.
Arturo non sa dare risposte alle passioni che agitano il suo petto immaturo, e allora non trova altra soluzione che lasciarsene completamente trascinare. Così facendo, i suoi comportamenti perdono coerenza ed egli stesso smarrisce le coordinate della propria esistenza. Un giorno è felice, quello successivo riscopre l’odio per l’intero universo; sente di amare una donna, o quantomeno di esserne profondamente attratto, ma il suo primo approccio carnale con l’universo femminile avviene con un altro corpo, al quale riserva totale impassibilità; considera suo padre come il più valoroso tra gli uomini, ma presto se ne distacca, iniziando, con maggiore disincanto, a rilevarne contraddizioni e mancanze. E piano piano, insieme al sapiente fluire delle descrizioni della Morante, il batterio divine padrone del suo corpo, procurandogli dapprima smarrimento, poi la necessità insaziabile di nutrirsi di sogni e, infine, edificando in lui uno spirito egoistico che si alterna con la più disillusa indifferenza.
Con il procedere delle pagine anche il lettore finisce per essere contagiato della stessa malattia di Arturo. Il merito della Morante è quello di mettere il lettore con le spalle al muro, senza vie d’uscita. Del resto, la storia è solo un mezzo: non implica immedesimazione con il protagonista, ma la condivisione di emozioni affini, rielaborate però secondo il proprio spirito. Di Arturo non colpiscono tanto gli episodi, comunque significativi, che lo coinvolgono, ma la reazione imprevedibile che lui gli oppone. Ciò che guida Arturo è una forza intrinseca difficile da definire, perché mutevole, e dunque inafferrabile. Questo, in fondo, è il vero nucleo dell’arturite: sentirsi inadatti e un momento dopo credersi invincibili. Non è forse l’epidemia più diffusa nella storia dell’umanità?
La crescita di un ragazzo che ha fretta di diventare uomo è uno dei temi del libro, ma certamente non l’unico. Per questo, classificare il capolavoro della Morante come un romanzo di formazione significa non rendergli sufficientemente merito, oltre che essere troppo severi con lo stesso Arturo. Leggere le sue avventure come un percorso di crescita significa relegarle alla spregiudicatezza tipica degli adolescenti, interpretandole con un’ottica troppo riduttiva. Significa giustificare ogni sua decisione come la reazione ribelle o impulsiva di un ragazzino che non possiede ancora gli strumenti per soppesare le sue azioni. Significa, in ultima istanza, attribuire al protagonista un senso di inconsapevolezza che in realtà non gli appartiene.
Arturo conosce i suoi limiti emotivi, nonostante voglia nasconderli a se stesso; sta imparando a decifrare le emozioni che sente, cogliendone origine e fisionomia; cerca, spesso con impeto, di mettere ordine dentro un animo evidentemente irrequieto e confuso, ancora alla ricerca dei suoi orizzonti visibili. Eppure è già uomo Arturo nella misura in cui si trova costretto a fare i conti con un temperamento travagliato, che lo espone non solo alla scoperta del mondo, ma al confronto con l’altro da sé, nella ricerca infinita di una definizione interna che possa mettere a tacere i suoi tormenti. E in quanto uomo, è già malato.
Ciò su cui l’autrice ci invita a riflettere sono proprio i contorni di tale malattia. Essa coincide, più o meno, con la realtà ordinaria che avvolge ogni uomo. Tutti, in qualche modo, ne sono vittime, magari senza saperlo. Ognuno vive le medesime sofferenze di Arturo nel momento in cui l’insicurezza frena il suo agire. L’istinto incosciente, supportato da un’intensa spinta viscerale, può condurre a comportamenti di cui ci si pente appena sfuma il velo onirico che aveva annebbiato la nostra vista. Arturo, in fondo, sembra non dare peso a tutto ciò. Le pulsioni, gli errori, le scelte, sono tutti tasselli che compongono la sua esistenza, a prescindere dai loro esiti. La malattia lo priva di lucidità, è vero, ma lo rende più libero e di simile libertà non sembra saper fare a meno.
È per queste ragioni che l’arturite è, allo stesso tempo, il male e la terapia. Il male perché disorienta l’individuo, privandolo di appigli sicuri. La terapia perché, così facendo, gli concede ogni volta nuovi stimoli, attivando in lui un processo emotivo non paralizzante, anzi capace di sprigionare energie imprevedibili. È questo l’unico antidoto possibile alle paure entro le quali gli uomini si dipanano da secoli: ha la forma plastica dell’ardore, dello slancio incondizionato verso confini ignoti. Dunque, persino chi, provvisto di una corazza interna particolarmente rigida, riuscisse a restare invulnerabile ai sintomi di suddetta malattia, dovrebbe lasciarsene travolgere: farlo significa vivere, nella sua pienezza.
Lorenzo Di Anselmo
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