
Nelle scorse settimane, compiendo una scelta non proprio consueta per chi scelga di trascorrere una vacanza nel Sud della Spagna, abbiamo scelto, con mia moglie ed alcuni amici americani, di visitare Cadice, l'importante porto spagnolo sull'Oceano Atlantico che, pur potendo annoverare un passato illustrissimo – sia per il suo secolare ruolo di principale terminale marittimo con le allora colonie dell'America Latina, sia per essere la sede dell'Armada naval Spagnola – è oggi sostanzialmente ridotta ad un ruolo periferico dal punto di vista turistico, confinata com'è nel ruolo di “brutto anatroccolo”, sovrastata, agli occhi dei turisti, da Granada, Cordoba e Siviglia, il vero e proprio “triangolo d'oro andaluso” .
La scelta si è rivelata azzeccata: ho trovato una città urbanisticamente assai interessante, con una vita notturna vivace e ho ammirato particolarmente, oltre alla Cattedrale, le imponenti fortificazioni che l'hanno protetta, nel tempo, dagli assedi e che ne hanno fatto, per secoli, un importante baluardo contro gli invasori stranieri.
E proprio in una di queste, il Castillo de Santa Catalina – una delle più antiche e possenti fortezze a guardia della baia, lasciata decadere per lunghi anni fino ad essere ridotta a carcere per obiettori di coscienza, testimoni di Geova e detenuti politici ed ora magnificamente restaurata ed adibita a Centro culturale ed espositivo – ho potuto visitare la mostra Atrapados (Intrappolati) del fotografo catalano Lucas Vallecillos.
Si tratta di un saggio fotografico, che ha visto impegnato questo fotografo, professionista e freelance dal 1999, anno in cui ha deciso di esplorare e fotografare il mondo, con uno stile in cui la condizione umana, trattata con grande rispetto, ha acquisito un grande ruolo.
Antropologia e diritti umani sono i temi che i suoi saggi fotografici sono soliti affrontare e questa mostra ne costituisce una prova irrefutabile.
Per oltre quattro anni, ha indagato in tutto il mondo armato del proprio obiettivo e della propria sensibilità sociale e ora le sue foto denunciano e invitano a riflettere sui diversi – e tuttavia convergenti – quadri socioculturali creati dagli adulti per catturare e sfruttare i minori, violando impunemente i loro diritti fondamentali e, ancor peggio, normalizzando tale sfruttamento fino a renderlo parte – talvolta informale, altre volte addirittura formale e codificata – dell'ingranaggio economico di paesi in cui governi e società, consapevolmente, si ostinano a ignorarlo ed a guardare dall'altra parte.

Secondo l'UNICEF, si stima che ogni giorno più di 150 milioni di bambini debbano lavorare per sopravvivere. Quasi la metà, 72 milioni, sono sottoposti alle peggiori forme di schiavitù, impegnati in attività illegali o in lavori che danneggiano la loro salute, sicurezza o morale, ovvero utilizzati nel grande mercato della prostituzione, fino al loro arruolamento forzato in gruppi armati ed utilizzati come guerrieri bambini nelle più cruente guerriglie che insanguinano l'Africa, l'America latina o Paesi disgraziatissimi come l'Afghanistan.
Prendendo a riferimento la Convenzione sui diritti del fanciullo delle Nazioni Unite e le convenzioni 138 e 182 dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, che stabiliscono l'età minima per lavorare e si propongono di contrastare le peggiori forme di lavoro minorile, le foto di Vallecillos testimoniano questa drammatica realtà per come si coniuga nei più diversi e – per certi versi inaspettati – contesti: dalla Bolivia alla Thailandia, dal Senegal alla Colombia, dal Libano al Giappone
In tutti questi Paesi, nonostante la loro estrema diversità di livello di sviluppo, le diverse tradizioni culturali e i diversissimi sistemi politici ed istituzionali, i minori risultano sistematicamente sfruttati, nell'ambito di quadri socioculturali creati dagli adulti al solo scopo di creare fonti di lucro, perpetuare ambiti di potere fino a raggiungere l'abiezione più estrema dello sfruttamento sessuale o dell'utilizzo dei corpi di questa disgraziatissima infanzia, come semplice magazzino di ricambi “a beneficio” dell'industria clandestina dei trapianti.
E se, da occidentali siamo purtroppo arrivati a non stupirci neppure più, purtroppo, vedere bambini costretti a dimenticare la propri infanzia lavorando per interminabili ore come garzoni di bottega, o a spezzarsi la schiena come manovali, braccianti agricoli o “cercatori” di qualsiasi oggetto riutilizzabile nelle più orrende discariche dei Paesi nei quali i rifiuti sono quelli che vi inviamo noi occidentali, certamente assai più effetto vedere riprodotte sulle pareti del Castillo le foto degli schiavi bambini utilizzati come killer, soldati, ostaggi – comunque carne da cannone – in una delle tante guerriglie che rubano loro l'innocenza dell'infanzia e ne fanno micidiali macchine da guerra al servizio di cause tra le più abiette.

Ma anche qui, se solo volessimo essere sinceri con noi stessi, chi potrebbe davvero scagliare la prima pietra, affermando di non sapere, di non aver mai sospettato, di non essersi mai domandato cosa accada a quelle migliaia di bambini che, ogni giorno, vengono sottratte ai loro genitori o che quegli stessi genitori sono costretti, per far sopravvivere quel che resta delle loro famiglie, a vendere ai nuovi mercanti di schiavi nei Paesi dell'Africa subsahariana o nelle foreste indocinesi o sugli altipiani della Colombia o del Perù?
Le immagini che Vallecillos ci mostra, e le parole che il fotografo ha raccolto dalle loro labbra pubblicandole, senza commento, tra l'una e l'altra serie di foto, svelano in modo incontrovertibile gli infami legami che corrono tra fazioni sanguinarie che puntano ad accaparrarsi potere e ricchezze di Paesi poverissimi, per svenderle, subito dopo alle più importanti multinazionali, il ruolo di complici attivi di istituzioni e governi che grazie a tali commerci consolidano il proprio potere e l'ipocrisia di quelle stesse multinazionali che, senza vergogna amano presentarsi, ogni giorno, nei nostri ricchi Paesi, con l'immagine dei difensori dell'ambiente, dei sostenitori del commercio equo, come agenti attivi della solidarietà tra lo sviluppato occidente e gli altri mondi.
Vallecillos ci fa conoscere, in questo alternarsi di testo ed immagini, soprattutto le ferite dell'anima che questi bambini, questi giovanissimi guerrieri, porteranno per sempre con sé, come confessano quelle giovani ragazze colombiane che ricordano come “se sei guerrigliero non puoi pensare di mettere al mondo figli, e, per te, l'aborto non è una scelta; ma una condanna cui non puoi sfuggire quando devi essere costantemente operativa per combattere”.
E anche quando, correndo rischi infiniti, riuscissero a liberarsi dai propri aguzzini – leaders spudorati che ammantano di ideologie tribaliste o falsamente libertarie i propri sporchi traffici – questi ragazzi e ragazze, questi “disertori” ci raccontano, grazie a Vallecillos, di essere destinati ad una vita in fuga, ad anni di terrore che si scateni su di loro la vendetta e che essa possa colpire anche le proprie famiglie, magari proprio per mano di altri bambini soldati ancora prigionieri delle bugie, propinate insieme con quelle droghe che li spingono a compiere atti spaventosi, senza alcuna remora morale. Nonostante queste atroci situazioni che essa documenta, la parte più interessante della mostra è tuttavia quella delle foto in cui non scorre il sangue, non si vedono le piccole schiene piegate dai carichi, né le facce di bambini diventate nere per il fumo delle officine o per la polvere delle miniere.

È invece quella in cui l'infanzia è violata in modo “indolore”, anzi, peggio, ricercando la complicità degli stessi “atrapados” che qui, davvero, si rivelano come intrappolati senza che serva neppure di spendere tempo e fatica per la loro sorveglianza. Così accade in Thailandia per quei giovanissimi che, allettati dall'idea di mostrare il proprio valore agonistico, vengono allenati in modo disumano per combattere, senza quartiere, nei ring clandestini in cui si pratica la “muay thai” dei bambini, mentre i “grandi” scommettono su quale dei piccoli contendenti sarà costretto a soccombere. Su questi piccoli “atleti” si operano vere e proprie speculazioni mediatiche alla luce del giorno, in un paese in cui la boxe Muay Thay è quasi una religione. Le loro foto, i loro profili, le loro imprese vengono diffuse così che i piccoli sognino di essere diventati delle star del proprio villaggio o della propria provincia. Le loro facce sorridenti, quando possono alzare il braccio vittoriosi, non devono farci dimenticare le drammatiche conseguenze che la violenza dei colpi subiti farà permanere per sempre sui loro fisici, anche quando essi non saranno più idonei allo “sport” e la macchina degli incassi, leciti e non, procederà, inarrestabile, a costruire il prossimo “campione”. E come a voler connettere una parte e l'altra del pianeta, alle confessioni dei piccoli atleti della Muay Thay fanno da contrappunto le denunce che stanno squassando il mondo dello sport italiano per vere e proprie torture fisiche e psicologiche cui sono state sottoposte le giovanissime atlete della ginnastica ritmica nazionale.
Ma non basta. In Giappone, infatti, l'infanzia viene violata in modo ancora più sottilmente perfido. Sono difficili da sopportare senza vergognarsi di quanto l'essere umano possa mostrare la propria perversione, le immagini delle giovinette che si vestono da bambine innocenti e passano il proprio tempo a trastullare – a parole quando va bene – giovani o vecchi clienti in locali dalle scintillanti insegne nei quartieri centrali delle metropoli del Sol Levante. Le studentesse liceali, tra i 15 e i 17 anni, ci documenta la mostra, hanno acquisito un grande valore sessuale in Giappone, grazie ad una pseudocultura che si diffonde attraverso i manga e che trova spazio persino nei college più esclusivi. È così nata una vera e propria linea di business di grande successo che, in Giappone, è conosciuta sotto il nome di “JK”: ristoranti JK, caffè JK, sale di massaggi JK, ecc. L'abbreviazione JK sta per 女子高生 (joshi kōsei), cioé studentessa delle superiori. Scenario tipico di un incontro con JK: una ragazza distribuisce volantini invitando per un JK osanpo cioé una passeggiata con JK o un appuntamento a piedi. In precedenza, il servizio offerto era noto come “attività di aggiornamento”. Quando la polizia ha avviato le indagini sulla pratica di “JK”; nacque il “business sanpo”. Questo è quando una ragazza viene pagata per attività sociali come camminare e parlare, e talvolta viene anche definita “predicazione del futuro”. Un'altra attività è la riflessologia (“rifure“).
Gli antropologi culturali hanno descritto il Giappone come profondamente permeato da una cultura della vergogna, che crea una barriera che fa sì che tanti giovani che, per i motivi più vari scelgono di “ giocare col fuoco”, possano successivamente trovare una via di uscita rivolgendosi alle proprie famiglie o alle istituzioni, al punto da renderli quindi totalmente ed irreparabilmente vulnerabili al reclutamento definitivo nell'industria del sesso minorile. Quel che conta, tuttavia, è che le forme siano salvaguardate: “non si fa sesso nei locali JK e ci si rivolge ai propri clienti con l'espressione della bambina educata e servizievole”. A causa della pressione internazionale è stato vietato di far lavorare minori nelle imprese JK. Per aggirare la legge, molte aziende hanno semplicemente cambiato nome e continuano con la loro attività, ma con meno sfacciataggine. Altre, a dimostrazione che lo sfruttamento dei minori, degli “atrapados”, è qualcosa che va ben oltre la semplice violenza fisica, hanno scelto di reclutare giovanissime maggiorenni, facendole comunque vestire da collegiali, in una sorta di inno vivente alla pedopornografia, contro cui il civilissimo Giappone non ha nulla da dire e che anzi viene considerato del tutto rispettabile. Conta poco che queste giovanissime ragazze, abituate a guadagnare molti yen vendendo la propria infanzia e, non di rado, anche il proprio corpo, per poter comperarsi la borsetta o le scarpe all'ultima moda finiranno poi per introiettare questi comportamenti e questi valori finendo, non di rado, per diventarne schiave.
Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha riferito nel 2017 che il governo del Giappone “non rispetta pienamente gli standard minimi per l'eliminazione della tratta” e “continua a facilitare la prostituzione dei bambini giapponesi”. E se il Giappone è stato brevemente classificato al “Livello 1” nelle relazioni del Dipartimento USA del i 2018 e 2019, è stato nuovamente declassato allo stato di “Livello 2” nelle relazioni 2020 e 2021. Ma anche qui, di fronte alle immagini delle giovinette dagli occhi a mandorla, mi è risultato difficile non pensare a quanto hanno rivelato recenti ricerche tra le adolescenti del nostro Paese. Salva una differenza: qui da noi non c'è neppure lo schermo di tradizioni culturali secolari. Qui sembra valere semplicemente il principio del tutto subito ed a qualsiasi costo.

Torno dunque da Cadice con una consapevolezza: se un valore ulteriore mi è stato trasmesso dall'incontro con i giovani “Atrapados” di Vallecillos è proprio questo: comprendere, cioè, che per i giovani, nel nostro mondo come l'abbiamo costruito, non ci sono” luoghi sicuri”. Per questo non chiudere gli occhi e far vedere quanto accade, anche quando ciò potrebbe urtare sensibilità rappresentano ancora una volta, l'unica arma in grado di contrastare la malvagità e lo sfruttamento, scoperchiando, per quanto possibil, i mille sepolcri imbiancati che circondano i nostri bambini.
Mauro Sarrecchia
Lucas Vallecillos, ha una laurea in Geografia presso l'Università di Barcellona e una laurea post-laurea in fotogiornalismo presso l'Università Autonoma di Barcellona. Lavora come freelance per media nazionali e internazionali. I suoi progetti sono stati pubblicati su media come New Yorker, Daily Mail, Elle, BBC, Time, Newsweek, Open Democracy, The Sunday Times; Wall Street Journal; National Geographic, La Reppublica, El País, Ara, El Mundo, El Periódico de Cataluña, rivista Lonely Planet, GEO, deviajes, Altair, Méditerranée magazine, Ashahi Weekly, Cosmopolitan, GQ, Woman i Storica National Geographic, tra molti altri. Insegna workshop e seminari in centri educativi ed è professore del Postgraduate in Fotogiornalismo presso l'Università Autonoma di Barcellona.
Ha collaborato con varie istituzioni, come l'Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, il Fondo Monetario Internazionale, il Consiglio Comunale di Tokyo, il Governo del Messico, il Governo dell'Austria, il Governo della Gran Bretagna, il Governo dell'Estonia, il Governo della Turchia, il Governo del Kenya, il Governo del Cile, il Consiglio Comunale di Hospitalet de Llobregat, la Generalitat de Catalunya, il Consiglio Comunale di Barcellona, Junta de Andalucía, Governo Basco e Comune di La Coruña.
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