
Il magnifico regalo della riscoperta delle cose perdute. Ogni volta che penso alla potenza salvifica del soul mi si presenta davanti il finale di High Fidelity, film del 2000 di Steven Frears (tratto, guarda caso, da un libro del grande springsteeniano Nick Hornby) in cui Bruce Springsteen faceva anche un piccolo cameo. Nonostante adorassi tanti suoi interpreti e nonostante Bruce stesso avesse già suonato davanti ai miei allora giovanissimi occhi – era il 1992 – perle nere dimenticate nella sua immane discografia come Man's Job, quel giorno al cinema sentii il soul. Perché in quel finale un superlativo Jack Black, che per quasi due ore non fa altro che straparlare compulsivamente di hard rock e punk e british invasion, sale sul palco di un piccolo locale e, nella sorpresa generale, canta, benissimo, Let's Get It On di Marvin Gaye, favorendo l'abbraccio dei due innamorati, che ne avevano passate di tutti i colori. Ecco, la chiosa di quel film è un manifesto perfetto del soul. La musica nera che ricuce insieme le anime.
In tutti i tour fin dagli inizi – ma in particolare nella prima parte del Wrecking Ball Tour nel 2012 – Bruce ha dedicato ampi spazi a certi classici intramontabili. Ebbene, questo nuovo disco del rocker del New Jersey, prodromico a un tour 2023 atteso per 7 anni, non necessita dell'analisi approfondita canzone per canzone o della miriade di ascolti che solitamente mi pervadono quando esce un album di inediti. Un disco di cover che è un regalo, un omaggio alla musica con la quale è cresciuto sentendo la radio nella cucina di casa e che l'ha formato, influenzando buona parte di quella produzione di cui l'iconica immagine di Clarence Clemons col suo sax è l'incarnazione vivente, e suonante.
Nella carriera di Springsteen c'è stato solo un altro disco di cover, lo splendido omaggio a Pete Seeger del 2006, e se quella volta la celebrazione era per il folk tradizionale e per le battaglie sui diritti dei lavoratori, qui siamo nel territorio dell'anima scura americana, che è sinonimo di amore, il più delle volte finito male, ma anche di lotte civili (ma qua dentro di questo non c'è traccia, only love).
Mi permetto di scriverne dopo solo alcuni ascolti, con la leggerezza e la voglia di ballare che proprio il disco ci dona partendo dalla title track Only the Strong Survive (Jerry Butler, Kenneth Gamble, Leon Huff), già cantata da Elvis, che inizia con un parlato-manifesto di tutto l'album e procede con un'esplosione corale. Soul Days (Jonathan Kaye Barnett) contiene il primo duetto col leggendario Sam Moore ed ha un incedere danzante e coinvolgente, la voce del Boss è un miracolo della natura. Nightshift dei Commodores (Francine Golde, Dennis Lambert, Walter Orange), celebrazione dichiarata a Marvin Gaye e Jackie Wilson, si colloca fra soul e la musica pop anni ‘60-'70, ha atmosfere rarefatte sorrette comunque da una forza vocale indicibile. E non è certo la mia preferita. Il disco decolla letteralmente con Do I Love You (Indeed I Do) (Frank Wilson), primo singolo uscito e brano più vicino al soul-rock E Street, una bomba tutta da ballare e cantare in cui fiati e archi sono esaltati all'ennesima potenza (aprirà i concerti?). A mio avviso è un capolavoro The Sun Ain't Gonna Shine Anymore (Bob Crew, Bob Gaudio), di Frankie Valli – e subito viene in mente il Jersey Boys di Clint Eastwood sulla parabola artistica dei The Four Seasons – con una tromba iniziale da brividi e un incedere commovente. È il Bruce più vicino a Elvis da me mai ascoltato. Turn Back The Hands Of Time (Jack Daniels, Bonnie Thompson) è divertimento puro. Da ballare, come buona parte del disco, mentre When She Was My Girl (Marc Blatte, Lawrence Gottlieb), torna alle rarefatte atmosfere da balera antica, trasuda malinconia, fa esplodere l'anima. Non è un disco per cuori fragili… Hey, Western Union Man (Jerry Butler, Kenneth Gamble, Leon Huff) è sul filone funk e non mi esalta particolarmente, mentre I Wish It Would Rain (Rodger Penzabene, Barrett Strong, Norman Whitfield) dei Temptations torna sul terreno del soul puro, cadenzata da un pianoforte iniziale e un urlato melanconico. Bruce canta come fosse l'ultima cosa che fa prima di morire. Nel ritornello entra anche il coro gospel, che da sempre sposa il soul in modo perfetto. Don't Play That Song (Ahmet Ertegun, Betty Nelson), registrata dal vivo e davvero stupenda, è uno dei brani più noti del disco, e non può che confermarsi la perla assoluta che tutti già conosciamo. Maledettamente difficile trattenere i condotti lacrimali. Any Other Way (William Bell) è più briosa della precedente e resta di livello altissimo. I Forgot To Be Your Lover (William Bell, Booker T. Jones) ancora con Sam Moore, è un'altra canzone monumentale, in cui basta l'intro per scendere tutti i gradini che portano all'inferno e poi rifarli al contrario, cercando invano un afflato di speranza. La voce di Bruce è un patrimonio dell'umanità. 7 Rooms Of Gloom (Lamont Dozier, Brian Holland, Edward Holland) ci fa rientrare in qualche fumoso locale di New York durante i Sixties, soul and funky. Non imprescindibile. What Becomes Of The Brockenhearted (James Dean, Paul Riser, William Weatherspoon) da sola vale il prezzo del biglietto, e pure del salatissimo vinile arancione a 50 euro… Si ritorna dalle parti vocali di Elvis e Roy Orbison. Se volete fare un tentativo estremo di appassionare alla musica vera i vostri figli adolescenti lobotomizzati dalla feccia cacofonica, fategliela sentire. Infine c'è Someday We'll Be Together (Jackey Beavers, Johnny Bristol, Harvey Fuqua) che chiude con la speranza un disco magistrale e apre la strada a un capitolo secondo.
Bruce in questo progetto da cantante nero usa solo la voce, e la usa al massimo della sua potenzialità. Il resto è delegato in toto – anche troppo se si pensa
che ha in squadra gente come Little Steven e Southside Johnny che mangiano pane e soul a colazione, pranzo e cena da 50 anni – all'ormai fido produttore Ron Aniello e ad una orchestra completa, oltre ai cori e agli E Street Horns.
Sgomberiamo subito il campo dal classico cliché secondo cui quando un artista fa un disco di cover sia a corto di idee… Non è proprio questo il caso. Il Bruce 70enne ci ha regalato due dischi inediti di alto livello (che purtroppo, per cause varie, non hanno avuto il sacrosanto sfogo live) nel 2019 e 2020, e sicuramente ha già nel cassetto altre sorprese, oltre alla seconda parte già annunciata di questo progetto, magari più ruvida. La sua intelligenza poi è stata andare a cercare canzoni nella stragrande maggioranza poco conosciute, pescando nella produzione delle storiche etichette statunitensi Motown e Stax, e non proponendo i classici suonati centinaia di volte dal vivo. Questo prova una grande cura, una passione immutata per il lavoro che continua a fare con l'incredibile cuore di un esordiente, nonostante sia ormai da decenni una megastar internazionale che potrebbe vivere di rendita. Anche se forse un limite dell'album è quello di aver fatto scelte un po' patinate, ci consegna la riscoperta di cose perdute nel tempo. Se mai le domande che questo progetto pone riguardano il prossimo e mai così atteso tour con la E Street Band.
Un tour che con il solo nucleo storico on stage non potrà reggere la proposizione della stragrande maggioranza di queste canzoni. È quindi prevedibile un allargamento della composizione dei musicisti sul palco almeno alla sezione fiati completa, come già accaduto in passato. In parte lo ha confermato Bruce stesso nella appassionata intervista (una rarità: Springsteen intervistato in Italia da uno competente!) di Massimo Cotto per Virgin, dicendo che in tour ci sarà spazio anche per questo album. Beh, così facendo avrebbe l'opportunità di valorizzare, cosa a cui personalmente tengo molto, almeno qualche brano di Western Stars senza dimenticare – è la mia speranza – Letter To You, e, appunto, anche Only The Strong Survive. Per poi lasciare il consueto e obbligato spazio ai suoi acclamati classici. Peccato perché probabilmente ognuno di questi ultimi tre dischi avrebbe meritato un tour dedicato. Ma insomma, si va a vivere un concerto che ha l'aura, e i prezzi, dell'epicità, che dovrebbe proporre almeno per metà brani nuovi, e per un'altra metà il resto di una cinquantennale carriera che ormai non necessita più di alcuna presentazione o analisi. È già leggenda. Staremo a vedere, la sfida è ardua e l'età avanza per tutti. Ma Bruce ha messo giù una sequela infinita di date da far stramazzare sul palco qualsiasi ventenne, e che sicuramente non si fermeranno a Monza il prossimo 25 luglio… Fidiamoci di lui, quando mai ci ha delusi?
Let's get it on.
Marco Quaroni Pinchetti
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