
“Se vuoi sopravvivere metti della paglia sotto i vestiti”: è una scritta sul muro che risale agli anni Cinquanta o Sessanta, una mano che qualcuno ha voluto tendere a chi sarebbe arrivato dopo di lui all'inferno, dove per ripararsi almeno in piccola parte dal freddo e dalle bastonate non restava che ingegnarsi. La parete è scura e impregnata di umidità, ma quelle parole hanno resistito e io provo a immaginare lo sguardo, il volto, lo stato d'animo di chi sessant'anni fa, nel mezzo di un incubo, ha avuto un pensiero così umano: aiutare qualcun altro a salvarsi.
È una giornata calda quando mi unisco a un piccolo gruppo di persone guidate da Ursula Fait, italiana, a Bucarest da tanti anni, che organizza tour negli angoli più nascosti della città e della Romania, che setaccia mercatini e bancarelle alla ricerca di vecchie fotografie, documenti e cimeli che rendano più vivi i suoi racconti sulla vita nel Paese durante il comunismo. Non è usuale riuscire a visitare Fortul 13, la prigione per i detenuti politici usata dal regime fino al 1964, anche perché si trova all'interno del perimetro del carcere di Jilava, tuttora in uso. La visita proposta da Ursula, che ha ottenuto i permessi, è quindi un'occasione preziosa.
Non sono mai entrata in un carcere ed è strano varcare quei cancelli: lascio i documenti e il cellulare, passo sotto il metal detector, mi faccio perquisire ed eccomi dentro. Quello di Jilava è oggi un carcere moderno, che si prende cura dell'istruzione, del recupero e della reintegrazione sociale dei detenuti che spesso hanno la possibilità di lavorare, sia all'interno che all'esterno dell'istituto. Basta guardarsi intorno per capire che si tratta di un carcere ben gestito: edifici in buone condizioni, un bel giardino curato e tutt'intorno campi e frutteti, che servono, ci spiegano, per garantire un'alimentazione equilibrata ai detenuti. L'atmosfera è inaspettatamente serena: alcuni ragazzi lavorano, altri arrivano con le valigie, probabilmente da un altro carcere. Una ragazza del personale ci accompagna, ma non sa quasi nulla del Forte, per fortuna chi ci guida lo conosce bene e ha raccolto negli anni tantissime informazioni.
Nelle immagini dall'alto il Forte ha la forma di un cuore completamente coperto di vegetazione e circondato da spesse mura ottocentesche. La costruzione si sviluppa per lo più sottoterra, è stata scavata fino a una profondità di 10 metri, e il materiale risultante dagli scavi fu utilizzato proprio per innalzare il muro di cinta, lungo il quale furono poste le torri di osservazione.

Basta varcare un grande cancello che chiude una porta fortificata in mattoni, su cui è apposta la targa con la scritta “Fortul n. 13, Jilava”, per passare dal giardino allagato dal sole a un altro mondo. All'interno del perimetro del Forte la vegetazione cresce incolta e non appena ci si avvicina all'ingresso si è colpiti da una lama di aria gelida. Fuori ci sono 25 gradi, dentro appena 8. L'umidità è densa e penetrante e non stento a credere che, quando piove, il fango e l'acqua rendano il Forte inaccessibile.
Mi trovo nella tredicesima delle 18 fortificazioni costruite intorno a Bucarest a partire dal 1870 in funzione anti-ottomana. Nel corso del secolo successivo la storia del Forte si è intrecciata indissolubilmente alla travagliata storia politica rumena. Dal 1921 vennero rinchiusi a Jilava i primi detenuti politici, membri del Partito comunista rumeno, che nel corso degli anni Venti e Trenta saranno sempre più numerosi. Nel 1940 vi furono uccisi 64 oppositori dei fascisti della Guardia di Ferro, mentre l'anno seguente diversi legionari furono a loro a volta assassinati nell'ambito dello scontro con il dittatore Ion Antonescu, generale, primo ministro, criminale di guerra e “duce” della Romania tra il 1940 e il 1944. E nel 1946 fu la volta dello stesso Antonescu, lì giustiziato con alcuni dei suoi sodali.
Dal 1948 al 1964, dopo l'avvento del comunismo, il Forte fu invece destinato, oltre che a detenuti comuni, ai condannati per “infrazioni contro la sicurezza”, come membri dei partiti storici, ex legionari, spie, “criminali di guerra, traditori della patria” e “membri di organizzazioni sovversive anticomuniste”. Nel 1964 grazie all'amnistia generale furono liberati gli ultimi detenuti politici e negli anni Settanta, con la costruzione dell'attuale penitenziario, il forte fu progressivamente abbandonato. Nel 1989 però, durante le manifestazioni nella capitale, vi furono rinchiuse 63 persone in una cella di 15 metri quadrati.
Entrando, si percorre il corridoio dove i detenuti venivano picchiati, perquisiti, costretti a spogliarsi completamente e inviati nelle celle. In alcune ci sono ancora due file di letti a castello, ogni materasso era destinato a 2, 3 o anche 4 detenuti. I nuovi arrivati erano di solito costretti a dormire nella “fossa del serpente”, cioè per terra, sotto al letto inferiore. In altre celle, minuscole, erano appese ai muri delle assi di legno come brande, che poi venivano alzate contro le pareti durante il giorno grazie a una manovella esterna ancora oggi funzionante: in questo modo i prigionieri non potevano sdraiarsi né sedersi, se non sul pavimento gelido e umido.
Come latrina un secchio, e soltanto uno, anche nelle celle più grandi; le finestre, quando c'erano, spesso venivano coperte con dei pannelli, fino a quando i detenuti non riuscivano più a respirare; scarafaggi a non finire, mosche che cadevano al suolo per la mancanza di ossigeno. Talmente tanti erano i prigionieri per cella che dovevano dormire sul pavimento e girarsi tutti insieme, la notte, per cambiare lato.

La vita dei detenuti a Fort 13 è ben descritta da alcuni pannelli collocati all'ingresso e si trovano in rete anche diverse testimonianze. La giornata iniziava alle 5 del mattino e terminava alle 10 di sera. Erano vietati libri, carta o strumenti per scrivere. Una tazza d'acqua a testa al giorno e cibo del tutto inadeguato: porridge di mais al mattino, una “zuppa” con qualche chicco di riso o talvolta resti di animali (zoccoli, occhi, labbra di agnello o mucca) per pranzo, un po' di orzo la sera, massimo 200 grammi di pane al giorno. Se il detenuto era un intellettuale, un ex membro del clero o dell'esercito o dei regimi precedenti, la razione veniva ulteriormente ridotta. Un giro all'aperto era consentito solo una volta ogni due settimane per 15 minuti, con le mani dietro la schiena e la testa china.
Noto su una parete una scritta in cirillico ripetuta più volte. Un'amica che parla russo la traduce: “perché?”. Già, perché? È la domanda che risuona dentro di noi quando ci accostiamo al male. È buio all'interno della labirintica struttura e non abbiamo i cellulari con noi, bisogna stare attenti a non cadere. Qua e là una lampada flebile getta una luce scialba su un passato che si percepisce come molto recente. In un bagno, forse destinato alle guardie, sono stati incollati dei ritagli di riviste degli anni Sessanta, mentre nella stanza attigua ci sono dei pannelli con scene di propaganda e numerosi letti arrugginiti. Lungo una parete noto degli scaffali carichi di macchine da scrivere. A cosa saranno servite? Quali nomi, quali dati, quali condanne saranno state battute con quegli arnesi? Tocco qualche tasto e premo, per vedere se funzionano ancora. No, non si muove niente, ma credo che basterebbe un po' di antiruggine per rimetterli in moto.
Tutto è morto qui dentro, eppure è ancora forte, fortissima la presenza del dolore, della sofferenza, della morte, come se fantasmi che non trovano pace fossero accanto a noi. E poi si arriva alla “camera negra”, la stanza nera. Si tratta di una cella piuttosto grande che veniva mantenuta nel buio più completo. Chi vi veniva gettato, non sapeva in quanti si trovassero lì o quali fossero le dimensioni dello spazio. È un nero più buio di qualsiasi notte, un modo semplice e terribile per far perdere completamente alle persone la cognizione del tempo e di sé stessi. Entro e mi coglie un senso di irrazionale paura. Provo a immaginare di essere lì per giorni, settimane, mesi. Mi sembra di impazzire, e sono solo pochi secondi.
Tornando verso l'ingresso della stanza noto, alla fioca luce proveniente dal corridoio, alcune piccole stalattiti che scendono dal soffitto e m'immagino il respiro dei prigionieri che si condensa lì per cristallizzarsi poi in quelle punte biancastre. Non voglio indugiare oltre sulle torture, i soprusi, le bestialità che ha dovuto subire chi è stato qui. Sono le stesse perpetrate ancora in qualunque luogo e tempo in cui i diritti vengono soppressi, le libertà negate, l'individuo annientato. Il pensiero della crudeltà mi opprime e non c'è neppure il conforto, seppure blando, della giustizia: chiedo che fine abbiano fatto i torturatori e se qualcuno abbia mai pagato per tutto questo, ma la risposta è “poco e tardi”. Solo nel 2009 è nato Institutul de Investigare a Crimelor Comunismului și Memoria Exilului Românesc con il compito di indagare appunto i crimini del comunismo e le prime condanne sono del 2015, più di cinquant'anni dopo i fatti.
Usciamo da uno dei cunicoli e saliamo su un prato, ci troviamo sopra al forte, il sole è caldo sulla pelle. Respiro. Da lì si vedono i campi che i carcerati coltivano per assicurarsi frutta e verdura freschi ed è una vista che consola almeno un po'. Un grosso fagiano scosta le fronde e svolazza su un altro albero. Vita. È bello essere liberi: che osservazione banale, forse retorica. Eppure non riesco a pensare ad altro.
Un ultimo sguardo, ed è tempo di lasciarsi alle spalle l'ingresso del Fort 13, è tempo di tornare a Bucarest, nella Bucarest dallo sviluppo economico scintillante e feroce, dei centri commerciali, la capitale che guarda avanti, ma mai indietro, che vuole dimenticare e forse ci è anche riuscita, la città che lascia indietro storie, persone, vite. La Bucarest che va all'estero e raramente guarda se stessa, che sogna altri paesi e un futuro altrove, che conosce poco del proprio passato o forse un po' se ne vergogna.
È tempo di tornare, è tempo di scrivere e, sempre, di ricordare.
Giuliana Arena
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