
Se volessi replicare per le rime al titolo – proverbiale – imposto a questo primo lungometraggio di Bong Joon-ho, Cane che abbaia non morde, potrei forse rispondere che il buongiorno si vede dal mattino.
Si tratta del mattino “remoto” di 23 anni fa, debutto del nuovo millennio ed esordio cinematografico del regista sudcoreano palma d'oro a Cannes e quattro volte premio Oscar nel 2019 con il potente Parasite. Gli spettatori italiani lo potranno infine vedere ora, molti anni dopo, apprezzandone il valore e riflettendo un poco – oltre che sul film – sulle distanze e le compartimentazioni culturali che separano ancora il mondo, pure al tempo della globalizzazione [1]. D'altra parte, Bong non è nuovo a queste asincronie; fu così anche per Madre, giunto in Italia dopo (soli) dodici anni dalla sua prima proiezione.
Qualche parola sul titolo: quello inglese è Barking Dogs Never Bite, fedelmente tradotto nella versione italiana. Si discosta però dall'originale coreano, A Dog of Flanders (Il cane delle Fiandre). È il titolo del romanzo della scrittrice inglese Ouida (pseudonimo di Maria Louise Ramé), un testo del 1872 – con un suo posto nella letteratura ed oggetto di diverse versioni cinematografiche, anche recenti – che parrebbe essere ancora molto popolare in Asia orientale (ne esistono diverse versioni anime giapponesi). Vi si narra la storia dell'amicizia di un ragazzo orfano (Nello) che incontra un cane ferito (Patrasche) e del sodalizio tra i due, che si tramuterà drammaticamente in un legame eterno.
Il riferimento (piuttosto sarcastico) alla storia popolare dell'amicizia tra cane e bambino – e al tragico epilogo della stessa – è uno di quei temi che occorrerebbe esplicitare in qualche modo quando si propone un'opera come questa in Europa, agli antipodi geografici e culturali del paese d'origine. Necessario sarebbe anche spiegare il tema del cosiddetto bosintang, la zuppa coreana preparata con carne di cane: un cibo un tempo assai popolare, oggetto di discussione in tempi più recenti ma ancora preparato e consumato in alcune zone di quel paese. Ma andiamo per ordine.
Il racconto cinematografico di Bong è concentrato in un enorme moderno falansterio – né ricco né povero – dove si incontrano centinaia di destini umani, tra anonimato e coabitazione. In uno di questi appartamenti, vive una giovane coppia in crisi: Kon Yun-ju e sua moglie, in attesa del primo figlio ma alle prese con le difficoltà dell'uomo di stabilizzare la sua precaria carriera all'università. Yun-ju non sa come venir fuori dall'impasse personale e familiare ed è sempre più esasperato: l'abbaiare molesto dei cani ne provocherà la tracimazione. Alcuni abitanti del caseggiato, infatti, giovani e anziani, ne possiedono uno per compagnia.
Questa sottolineatura – il cane come animale domestico – è piuttosto decisiva: per i coreani al cambio del millennio, infatti, la cosa è ancora per molti versi una novità dell'Occidente. Come accennavo prima parlando del bosintang, la Corea fa parte di quell'area dell'Asia dove non vi sono particolari pregiudizi alimentari. Tutto ciò che è commestibile può essere mangiato e il cane è anzi parte integrante della tradizione gastronomica del paese, con buona pace (ed orrore) della cinofilia nostrana. La cultura di matrice occidentale che identifica i cani come animali da compagnia – che sta ancora combattendo con veemenza contro l'impiego di questo animale nella cucina tradizionale – aveva evidentemente già cominciato a diffondersi.
Ma torniamo al nostro Yun-ju: innervosito dall'abbaiare dei cani che popolano l'abitato, decide di porvi rimedio e cominciare la sua anomala carriera di dog killer. Rapisce un cagnolino, malamente (ed erroneamente) identificato come responsabile delle molestie sonore e sfuggito alle attenzioni della sua piccola padroncina. Sale in terrazza e pensa di scaraventarlo di sotto. Non ci riesce, un po' per pavidità, un po' perché interrotto dalla presenza – inattesa – di un'altra anomala visitatrice. Scenderà perciò con l'animale nei sotterranei del palazzo, anch'essi tutt'altro che disabitati, dove farà la conoscenza con altri personaggi: tra tutti, un senzatetto che vive nascosto lì sotto ed un custode che invece approfitta dei locali interrati per prepararvi nascostamente la sua (semi-proibita) pietanza preferita.
Nella storia fa ingresso Park Hyun-nam, una giovane donna dipendente nell'amministrazione del condominio, persa tra il piccolo mondo del suo impiego poco qualificato (e per nulla gratificante) e i sogni di una vita che non riesce a decollare: è a lei che la piccola proprietaria del cane scomparso si rivolge per autorizzare l'affissione dei volantini con i quali intende tappezzare il quartiere, alla ricerca del suo amato compagno. Sarà lei a mettersi sulle tracce dei cani rapiti e uccisi, convinta che il suo buon cuore sia una strada possibile per l'emersione dal mondo dell'anonimato.
Yun-ju e Hyun-nam sono i due omologhi protagonisti della storia: un quasi-thriller (con qualche strizzata d'occhio a Hitchcock, come anche in precedenza) con momenti comici e grotteschi, che scorre senza intoppi e con inserimenti di personaggi tutti apprezzabili: dal povero senzatetto all'inquietante portinaio, dall'anziana cinefila alla giovane (improbabile commerciante) amica inseparabile di Hyun-nam, fino alla caparbia moglie di Yun-ju e ai suoi ambigui colleghi dell'università.
Questo esordio di Bong mi pare una prova convincente e una esposizione già avanzata delle tematiche sociali e psicologiche che avremmo incontrato diciannove anni dopo in Parasite. Su tutte, si impone ancora la feroce descrizione del classismo della società sudcoreana, dove coabitano forme estreme di capitalismo coniugate con caratteri propriamente asiatici, in una società dilaniata dall'ossessione per la ricchezza e per l'ascesa sociale. Come in Parasite – indimenticabili i passaggi sull'odore dei poveri, ciò che li rende sempre riconoscibili al di là dei tentativi di camuffamento esteriore – anche qui domina la frustrazione dei miseri e l'ansia per la scalata; o forse, più correttamente, il terrore di soccombere, di non emergere, di non farcela. Non riuscire a far carriera, ma anche solo non riuscire a comparire – almeno per una volta o per un momento – nei notiziari della sera. Su tutto aleggia il sottofondo perfido della corruzione, in una società meritocratica solo in apparenza, dove l'investimento sulla professione appare qualcosa di più concreto di una metafora.
Alcune sequenze di Cane che abbaia non morde – tra tutte, quelle degli inseguimenti e delle corse lungo i ballatoi dell'edificio, ma anche quella in cui Yun-ju pensa (per verificare la propria scommessa) di misurare una distanza svolgendo sulla strada un rotolo di carta igienica – mi sembra si segnalino per poter essere annotate tra le eccellenze del cinema contemporaneo. Peccato poterle vedere così in ritardo.
Paolo Sassi
Cane che abbaia non morde
Titolo originale: 플란다스의 개 (Peullandaseu-ui gae), Il cane delle Fiandre
Titolo inglese: Barking Dog Never Bite
Lingua originale: coreano
Paese di produzione: Corea del Sud
Anno: 2000
Durata: 108 min
Regia: Bong Joon-ho
Sceneggiatura: Bong Joon-ho, Sohn Tae-woon e Song Ji-ho
Fotografia: Cho Yong-kyou
Montaggio: Lee Eun-soo
Effetti Speciali: Jeong Do-ahn
Fonico: Lee Sung-chul
Mix: Oh Won-chul, Choi Tae Young/Live Tone
Musiche: Jo Seong-woo
Scenografia: Hang Lee
Costumi: Choi Yun-jung
Suono: Dolby SR-D
Luci: Park Jong Whan
Prodotto da Cho Min-hwan
Produzione: Cinema Service, Cj Enterainment e Sidus Pictures
Distribuzione italiana: P.F.A. Films ed Emme Cinematografica
Ufficio stampa: REGGI&SPIZZICHINO Communication
Interpreti e personaggi
Lee Sung-jae: Ko Yun-ju
Bae Doo-na: Park Hyun-nam
Kim Ho-jung: Eun-sil
Byun Hee-bong: custode
Go Soo-hee: Yoon Jang-mi
Kim Roi-ha: senzatetto
Kim Jin-goo: anziana
[1] Il film è programmato nelle sale italiane a partire dal 27 aprile 2023.
-----------------------------
-----------------------------
Se sei giunto fin qui vuol dire che l'articolo potrebbe esserti piaciuto.
Usiamo i social in maniera costruttiva.
Condividi l'articolo.
Condividi la cultura.
Grazie