
Pittore di svolta al pari di Giotto e Masaccio, artista controverso ed uomo dal temperamento a dir poco burrascoso, Michelangelo Merisi da Caravaggio, lombardo di origini e di prima formazione, irrompe sulla scena pittorica romana col suo naturalismo privo di filtri idealizzanti attorno alla seconda metà del 1592, quando cioè aveva circa ventun anni (era nato nel settembre del 1571). Siamo in epoca tardomanierista e la risposta alla stanca ripetizione di forme pittoriche consuete (la “buona maniera” dei grandi maestri del primo Cinquecento) è data dal ritorno al vero naturale e dal tentativo, così, di ridare verosimiglianza alle immagini ritratte ed alle vicende narrate nei dipinti.
La spinta in questo senso proviene, da un lato, dalla scuola bolognese con il naturalismo dei Carracci (declinato secondo varie sfumature, la più importante delle quali è quella che vede con Annibale il recupero del classicismo quale sintesi di idealismo e naturalismo) e, dall’altro, proprio da Caravaggio, nella cui opera non compare invece alcuna forma di idealizzazione o edulcorazione del reale e si assiste ad un netto rifiuto del classicismo: la sua arte non trae ispirazione dallo studio dei grandi maestri del passato, ma dalla vita; e il pittore è per lui un mero osservatore di ciò che gli sta intorno. Scrive del Caravaggio nel 1672 il Bellori, uno dei suoi biografi più noti, che “essendogli mostrate le statue più famose di Fidia e Glicone acciocché vi accomodasse lo studio, non diede altra risposta se non che distese la mano verso una moltitudine di uomini accennando che la natura l’aveva a sufficienza provveduto di maestri”.
Questa sua radicale adesione al vero ne fa uno degli artisti più apprezzati del suo tempo dai pochi contemporanei illuminati (il marchese Vincenzo Giustiniani, il cardinal Del Monte, il “cardinal nipote” Scipione Borghese, per citare i più influenti), ma anche uno dei pittori più contestati per la supposta irriverenza e per la presunta mancanza di decoro dei suoi quadri.
Il fenomeno non era raro ed è peraltro proseguito nel corso dei secoli, se è vero che la sua splendida Deposizione della Pinacoteca Vaticana, realizzata tra il 1602 ed il 1604, venne definita dal Kugler nel 1837 “la più alta maestria di rappresentazione […], soltanto troppo simile ai funerali di un capo di zingari”.
Il primo “grande rifiuto” di cui si ha notizia, ad ogni modo, è legato alla prima versione del San Matteo e l’angelo, una delle tre tele eseguite per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, tra le opere più celebri ed acclamate di Caravaggio, nonché la sua prima commissione pubblica. Senza soffermarci sulle dispute cronologiche che hanno appassionato gli storici dell’arte per una cinquantina d’anni, oggi possiamo dire con certezza che il quadro venne commissionato a Caravaggio, che aveva già eseguito i quadri laterali della cappella, dopo il 7 febbraio 1602, quando cioè la statua di San Matteo e l’angelo che avrebbe dovuto essere posta sull’altare della cappella, commissionata allo scultore fiammingo Jacob Cobaert, venne rifiutata dalla congregazione. Il dipinto, che avrebbe allora dovuto campeggiare sull’altare al posto della statua, doveva essere consegnato entro il 23 maggio dello stesso anno.
Il quadro però, che raffigurava San Matteo come un contadino analfabeta la cui mano è guidata dall’angelo nella composizione del Vangelo (e che purtroppo andò distrutto a Berlino durante la seconda guerra mondiale), venne rifiutato perché considerato indecoroso. Come riporta il Bellori parlando della cappella Contarelli: “il quadro di mezzo di San Matteo […] fu tolto via dai preti con dire che quella figura non aveva decoro né aspetto di Santo, stando a sedere con le gambe incavalcate e co’ piedi rozzamente esposti al popolo”. L’opera, comunque, fu subito acquistata dal marchese Giustiniani, prima ancora che Caravaggio ultimasse la seconda versione del San Matteo e l’angelo, consegnata il 22 settembre 1602 e stavolta accettata dai committenti.
Un altro quadro che subì la stessa sorte è forse una delle opere più belle ed emblematiche dell’estremo realismo caravaggesco: la Morte della Vergine realizzata, verosimilmente nel 1604, per l’altare della cappella Cherubini in Santa Maria della Scala a Roma. La tela, che sembra mettere in scena, come osserva Longhi, “la morte di una popolana del rione” in una camera d’affitto poverissima, senz’altro arredo se non un letto, una sedia, una bacinella ed un tendone rosso che pare separarla da altro giaciglio, ritrae la vergine morta col ventre gonfio, le gambe scoperte ed un braccio inerte attorniata dagli apostoli sopraffatti dal dolore in un ambiente pervaso dall’ombra ove un tenue bagliore luminoso promana da sinistra stagliandosi sul volto terreo della defunta, sulle fronti corrugate degli apostoli, sulla schiena curva di un’affranta Maddalena.
Il dipinto però, subito dopo esser stato collocato sull’altare della cappella Cherubini, come ci informa il Baglione nel suo Le vite de’ pittori, scultore et architetti, fu rimosso perché Caravaggio “avea fatto con poco decoro la Madonna gonfia e con le gambe scoperte” o, come invece sostiene il Bellori, “per avervi troppo imitato una donna morta gonfia”. Ancora una volta, quindi, un capolavoro del maestro lombardo invece di appassionare committenti e fedeli scandalizza e fa scaturire reazioni violente: quello che si richiedeva ad un dipinto, in un contesto fortemente animato da istanze controriformistiche (tra l’altro quarant’anni prima si era concluso il Concilio di Trento che era intervenuto con decisione sui requisiti che le immagini sacre dovevano presentare), non era certo il realismo delle immagini ritratte, ma solo attitudine devozionale e nobilitazione del soggetto. La Morte della Vergine, su consiglio di Rubens, ai tempi al servizio dei Gonzaga, venne acquistata dal duca di Mantova e successivamente, passando per Carlo I d’Inghilterra, arrivò al Louvre ove attualmente è esposta.
Ulteriore caso eclatante di rifiuto, sul quale però le fonti sono meno concordi, sarebbe quello della Madonna dei Palafrenieri, realizzata per la cappella dei Palafrenieri papali tra il 1605 ed il 1606 e nota anche come Madonna della serpe perché vi è appunto ritratta la Madonna, con a fianco Sant’Anna, nell’atto di schiacciare la testa del serpente, aiutata in ciò dal Bambino. Anche stavolta, sebbene il quadro dovesse esser collocato addirittura in San Pietro, Caravaggio non rinunciò a dipingere una scena realistica intrisa di quegli accenti pauperistici che il pittore aveva sempre adottato come cifra spirituale della sua arte. Il risultato fu strepitoso e, pare, scandaloso al tempo stesso: “la Sant’Anna, vecchia ciociara; la Madre in veste rimboccata da lavandaia, il Bambino, nudo come Dio l’ha fatto”, secondo la descrizione che dà del quadro Roberto Longhi, fecero sì che il dipinto venisse subito rimosso dall’altare. Scrive il Baglione che la Sant’Anna con la Madonna ed il putto “fu levata d’ordine de’ Signori Cardinali della fabbrica, e poi da’ Palafrenieri donata al Cardinale Scipione Borghese”. Come dicevamo sopra, comunque, le fonti non sono concordi sul punto. Sembrerebbe invece che l’opera fu levata semplicemente perché poi non fu concessa alcuna cappella dedicata ai Palafrenieri e che solo per questo motivo il dipinto fu donato al cardinal Scipione Borghese, grande estimatore e protettore di Caravaggio. Ad ogni modo, rimane il fatto che il realismo caravaggesco non mancò anche in questo caso di destare scandalo e suscitare violente polemiche.
La vicenda delle contestazioni dei dipinti di Caravaggio è purtroppo destinata a non esaurirsi nei tre clamorosi casi citati sopra. Anche la Madonna dei Pellegrini, realizzata tra il 1604 ed il 1606 per la Cappella Cavalletti in Sant’Agostino a Roma, per citare un altro episodio molto noto agli addetti ai lavori, fu aspramente criticata (sebbene non rifiutata). Sempre il Baglione riferisce infatti di “una Madonna di Loreto ritratta dal naturale con due pellegrini, uno co’ piedi fangosi, e l’altra con una cuffia sdrucita e sudicia” di cui “per queste leggierezze in riguardo delle parti che una gran pittura aver dee, da’ popolani ne fu fatto estremo schiamazzo”.
Insomma, il primo Seicento non pareva pronto per l’opera di un grande rivoluzionario della pittura come Caravaggio, che, d’altra parte, visto il carattere focoso e lo spirito bellicoso di cui era dotato, non faceva molto per farsi amare dai contemporanei. Il che è un vero peccato! Ma un peccato ancora più grande è che, proprio a causa del suo temperamento e delle conseguenze di una rissa in cui rimase ucciso Ranuccio da Terni, nel maggio del 1606, ebbe inizio la fuga da Roma dell’artista che, di lì a qualche anno, attraverso Napoli, Malta, la Sicilia e poi ancora Napoli, lo portò a morire “di stento e senza cure” , come ci riferisce il Mancini nelle sue Considerazioni sulla pittura, il 18 luglio 1610 sulle coste di Porto Ercole. Chissà cos’altro avrebbe potuto realizzare un genio della pittura del suo livello se non fosse morto tragicamente, travolto dalle proprie passioni e tradito dalla sua genuina irruenza, a meno di 39 anni.
Gianfranco Raffaeli
Nota bibliografica:
Questo breve scritto sui quadri rifiutati di Caravaggio è debitore di alcune monografie e manuali di importanti studiosi di storia dell’arte, da cui ho cospicuamente attinto e che invito a consultare per approfondire l’opera del grande pittore lombardo:
Caravaggio, Roberto Longhi, Aringoli Editori Associati, Roma, 1968;
Caravaggio, Giorgio Bonsanti, Scala, Firenze, 1991;
Caravaggio. I classici dell’arte (edizione speciale per il Corriere della Sera), a cura di Francesca Marini, Rizzoli/Skira, Milano, 2003;
Arte nel tempo. Vol 2. II Tomo. Dalla crisi della Maniera al Rococò, Pierluigi De Vecchi, Elda Cerchiari, Bompiani, Milano, 2004.
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