Caso Minzolini: la strana legge della volontà popolare

Parlamento Italia
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Strana la nostra classe politica. Si affanna a lanciare accuse, ingiurie e proclami vittimistici di ogni sorta quando avverte uno spiraglio utile per demonizzare un avversario politico. Invece, quando all’orizzonte si prospettano scambi di favore e concessioni amiche, essa promuove una forma di compassionevole solidarietà che, più che una benevola concessione, sembra piuttosto un riconoscibile contratto di do ut des. È quanto accaduto pochi giorni fa in Parlamento, quando la decadenza di Augusto Minzolini – il senatore di Forza Italia condannato per peculato con sentenza passata in giudicato – è stata respinta dal Parlamento con un atto di assurdo sprezzo della legalità travestito da un indulgente gesto di fraterna comprensione.
L’esito della votazione che si è tenuta giovedì 16 marzo è stato certamente influenzato dai voti dei senatori del Pd che si sono schierati con Minzolini, non presentandosi in aula o, più esplicitamente, votando a suo favore. La motivazione adottata per giustificare queste scelte è stata il ricorso a una presunta “libertà di coscienza”, che avrebbe guidato le decisioni dei singoli parlamentari conferendo loro piena autonomia e allontanandoli così, si sostiene, dalle logiche politico-partitiche. In realtà, se si controllano i numeri di voti contrari, a favore e astenuti, ci si rende conto che i voti di alcuni dem non appaiono così immuni da possibili intrighi.
La decadenza di Minzolini è stata respinta da 137 senatori, mentre 20 sono stati gli astenuti e 94 coloro che hanno votato a favore. Se i 19 esponenti democratici che hanno sostenuto la permanenza di Minzolini a Palazzo Madama avessero seguito compattamente la linea degli altri membri del partito, probabilmente la sorte dell’ex direttore del Tg1 sarebbe stata diversa. Va considerato, infatti, che al Senato gli astenuti sono considerati presenti e dunque rientrano nel computo del quorum: la loro astensione, di fatto, vale come voto contrario. Per ottenere la maggioranza, pertanto, è necessario che i voti favorevoli superino la somma dei voti contrari e di quelli astenuti. Ipotizzando un comportamento omogeneo all’interno del Pd, i favorevoli alla decadenza sarebbero stati 133 (considerando i 19 dem e gli astenuti), mentre i voti dei contrari si sarebbero fermati a 118. Risultato? Minzolini avrebbe perso la poltrona e l’asse Pd-Forza Italia si sarebbe spezzato. Un rischio evidentemente troppo alto, poiché le elezioni iniziano ad avvicinarsi e un sodalizio che porti alle Larghe Intese non può essere escluso a priori.

Insomma, quale libertà di coscienza! L’arcano – nemmeno troppo astruso – è svelato. Alle spalle della decisione di voto dei 19 senatori del Partito Democratico vi è un semplice calcolo politico. A questo va aggiunta la necessità da parte del Pd di non alimentare tensioni con il partito del Cavaliere, ricambiando il favore che, appena un giorno prima, aveva visto Forza Italia non votare la mozione di sfiducia contro il ministro Lotti proposta dal Movimento 5 Stelle. Uno scambio di favori in piena regola, taciuto, non sbandierato, mascherato dietro logiche consapevoli e scelte razionali e attuato, soprattutto, tra rappresentanti eletti del popolo italiano.
Tante sono state le parole spese, da parte dei 19 dem determinanti, a difesa del senatore Minzolini e, dunque, della loro decisione di schierarsi dalla sua parte. Ma tra molteplici proclami e appelli alla giustizia e alla libertà personale, vi è una riflessione, in particolare, che ha colpito la mia attenzione. Mi riferisco alle dichiarazioni rilasciate a La Stampa, lo scorso 17 marzo, dal senatore Pd Giorgio Tonini, uno dei 19 autori della “assoluzione”, perlomeno politica, di Minzolini. Tonini è infatti arrivato a mettere in ballo persino la “dignità del Parlamento”, sostenendo che “cambiarne la composizione significa alterare la volontà democratica degli elettori, e non si può certo procedere a cuor leggero”. Una bella dichiarazione insomma, peccato però che venga sbandierata quando fa comodo e furbescamente nascosta quando prospetta scenari indesiderati. Dove era la dignità del Parlamento e la volontà democratica degli elettori quando lo stesso Tonini non solo votava, ma convintamente difendeva a più riprese, la legge elettorale denominata Italicum, fortemente voluta da Renzi e dalla maggioranza?

Nonostante sia intervenuta la Corte Costituzionale a sanare gli evidenti difetti di incostituzionalità della legge, questo nulla toglie alla struttura originaria con cui essa era stata pensata e votata – a suon di fiducia – dalla maggioranza parlamentare. Nella sua versione definitiva, infatti, l’Italicum prevedeva l’assegnazione di un premio di maggioranza alla lista (non alla coalizione, il che non è solo una questione tecnica, ma implica differenti conseguenze pratiche) in grado di raggiungere il 40% dei voti al primo turno oppure di vincere il ballottaggio tra le due liste più votate. Il premio di maggioranza permetteva (è rimasto tuttora, non essendone stata rilevata dalla Corte l’incostituzionalità, come invece accaduto per il ballottaggio) alla lista più votata di ottenere la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera. Ma, vista la frammentazione del sistema partitico e le realistiche proiezioni di voto, era plausibile ritenere che nessun partito fosse in grado di raggiungere tale soglia al primo turno, poiché Pd, M5S e centro-destra unito si attestano tutti intorno al 30%. Dunque, il ballottaggio avrebbe consentito a un partito espressione del 30% circa dei votanti (e non degli aventi diritto!) di ottenere la maggioranza dei seggi e governare da solo. E se si considera che l’affluenza negli ultimi anni non supera il 60-70%, ci si rende conto di come in tali condizioni si sarebbero consegnate le redini del Paese a un partito espressione di una vera e propria minoranza rispetto all’intero corpo elettorale italiano.
E sapete come Tonini definiva questo meccanismo appena qualche mese indietro? “Un moderato premio di governabilità che assegna alla lista vincitrice 340 seggi su 630”. Peccato, ahimè, che alla Camera 340 seggi costituiscano la maggioranza, magari minima, ma che con qualche aggiustamento parlamentare può diventare operativa senza esitazioni. Quindi, il premio di maggioranza risulta decisivo. E tanti saluti alla volontà democratica degli elettori.
Per fortuna, la Consulta ha eliminato il ballottaggio, riducendo perlomeno lo scarto tra voto popolare e seggi assegnati che si avrebbe nel caso in cui scattasse il premio di maggioranza a favore della lista capace di superare il 40% dei voti: al momento, un miraggio per tutti. È evidente, tuttavia, da parte della classe politica, un atteggiamento diverso di fronte a due situazioni certamente differenti, che denotano però una analoga ipocrisia. La volontà e la sovranità degli elettori vanno difese – come la linea di sinistra imporrebbe – quando sono gli elmi dietro cui celare scambi di favori e solidarietà intra-partitica, per essere poi incautamente accantonate quando, a essere prioritaria, diviene quella logica maggioritaria in netto contrasto con le decisioni espresse dagli elettori.
Caro Tonini, è proprio sicuro che gli italiani siano entusiasti di avere un Parlamento in cui a rappresentarli vi è un condannato a due anni e sei mesi? In questo caso, mi sembra che la dignità delle istituzioni non sia stata difesa e tutelata come annunciato, ma inconsciamente calpestata.
Lorenzo Di Anselmo

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