C’era una volta in Anatolia: un viaggio reale e metafisico alla ricerca di un cadavere

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“Passeranno gli anni e nessun segno resterà di me, il freddo e il buio avvolgeranno questa mia anima stanca.”C'era una volta in Anatolia, l'ultimo film di – vincitore nel 2011 del Grand Prix al Festival di Cannes – comincia con un breve prologo che mostra, attraverso un vetro sporco, tre uomini seduti ad un tavolo intenti a bere e a mangiare; all'esterno, in una notte fredda e ventosa un cane attende fiducioso.

Lo schermo si oscura e scorrono i titoli di inizio, dopodichè ha inizio un viaggio nella notte nel cuore delle steppe dell'Anatolia, alla ricerca di un cadavere sepolto chissà dove. Un viaggio al termine della notte avrebbe scritto Céline, un viaggio che invece Ceylan trasforma in un affresco di in cui uomini e si confondono in un unico indistinto paesaggio; i dialoghi dei protagonisti si alternano ai rumori della vegetazione agitata dal vento, ai passi sul terreno, ai versi degli animali notturni che fanno da contrappunto alle voci dei presenti. Sullo sfondo di un paesaggio di steppe inospitali e desolate avanza lentamente una carovana di tre macchine della Polizia locale: dapprima solo fari accesi in lontananza, ripresi in campo lungo, come un serpente che si snoda nella notte lungo strade tortuose, poi primi piani illuminati dei protagonisti all'interno delle auto, o all'esterno: volti che emergono a poco a poco dall'oscurità e che divengono via via sempre più familiari allo spettatore. Tutta la prima parte si svolge dunque di notte, in un'oscurità che è reale, metaforica e metafisica.

All'interesse a scoprire ciò che è veramente successo –  il movente dell'omicidio, le dinamiche dello stesso – piano piano si sostituisce quello per le vicende e la psicologia dei singoli personaggi e per altre sottostorie destinate a rimanere senza soluzione. Pochi elementi indiziari, pochi sprazzi di verità ad illuminare una vicenda che per alcuni rimarrà solo una storia da raccontare, per altri, come per il dottor Cemal e per il Procuratore Nusret, un momento di trasformazione e luce interiore. I fatti accadono e costringono l'osservatore a mutare il proprio sguardo su di essi, ma i perché sembrano destinati a restare avvolti nelle tenebre. Ciò che conta dunque non è tanto dare un senso agli eventi, quanto farci coinvolgere da essi quel tanto che basta per compiere la nostra evolutiva parabola esistenziale.

Il regista turco costringe lo spettatore a mutare il proprio sguardo sulle cose, uno sguardo che passa dalla pura contemplazione alla curiosità indagatoria, fino a raggiungere lo stato della compassione. Se le riprese notturne della natura costituiscono la prima fase di questo sguardo, il tramite attraverso cui avviene il passaggio dallo stato contemplativo al progressivo scioglimento emozionale – e che conduce l'assassino a confessare finalmente il luogo esatto in cui ha sepolto il cadavere – è dato dall'improvvisa apparizione – quasi una – della giovane figlia di un sindaco di provincia, bellissima ragazza che regge un vassoio di bicchierini di the ed una lampada con cui rischiara i volti dei presenti. Una visione che ricorda i volti cesellati dalla luce dei dipinti di o di e che, con le parole del poeta romantico per eccellenza – John – ci rammenta che “la bellezza è verita, la verità è bellezza“. Bellezza raggiunta dalla capacità di cogliere ciò che è attraverso uno sguardo che dapprima contempla, poi si fa partecipe e che infine è destinato a tornare nell'oblio, come ogni cosa.

C'era una volta in Anatolia – il titolo è forse un omaggio a Sergio Leone o anche una maniera, come dichiara il regista, per “depistare” lo spettatore – racconta dunque una vicenda che solo il nostro sguardo attento, partecipe e compassionevole può riscattare dalla banalità dell'esistere.
Il cinema di Nuri Bilge Ceylan è un cinema che richiede tutta la massina attenzione dello spettatore – riprese che indugiano a lungo sui personaggi o che, al contrario, abbracciano lente ampi scenari a riprendere la natura, il cielo, le strade, scene che si svolgono quasi in tempo reale, lunghi dialoghi seguiti dalla macchina da presa che oscilla tra i volti dei presenti – nulla sembra venir omesso, nemmeno il più piccolo particolare, eppure è proprio su questo enorme materiale visivo a disposizione – anzi, in virtù di esso direi – che lo spettatore può decidere su cosa soffermarsi o meno, su cosa concentrare la propria attenzione così da rendere un dettaglio più significativo di altri; come lo stesso regista afferma: “in ognuno di noi c'è uno sguardo obiettivo ed uno soggettivo. Persone diverse da me coglieranno degli aspetti della vita e porranno l'accento su dettagli che a me non interessano” non ci si aspetti quindi un tipo di visione passiva in cui fare proprio il punto di vista di questo o di quel personaggio, bensì un lavoro di partecipazione visiva in cui sta allo spettatore costruirsi pian piano il proprio punto di vista sulla vicenda narrata. Un film (nella sale italiane a partire dal 15 giugno) per un pubblico attento dunque e desideroso di vivere un'esperienza al di fuori dei canoni cinematografici più propriamente commerciali.

Rita Ciatti

Scheda del Film

Titolo: C'era una volta in Anatolia – Produzione:  Zeynep Ozbatur Atakan (ZEYNO FILM) – Genere: drammatico – Durata: 157'– Regia: Nuri Bilge Ceylan – Sceneggiatura: Ercan Kesal, Ebru Ceylan, Nuri Bilge Ceylan – Fotografia: Gokhan Turyaki–  Montaggio: Bora Goksingol, Nuri Bilge Ceylan – Scenografia: Dilek Yapkuoz Ayatzuna– Distribuzione italiana: PARTHENOS – Attori Principali: Muhammet Uzuner, Yilmaz Erdogan, Taner Birsel, Firat Tanis.

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