
Sono stato in Uganda – un paese magnifico, complesso e tormentato del quale è difficile dimenticarsi – nel 2011. Così, a distanza di oltre un decennio, molte cose mi sono tornate alla mente vedendo il bel documentario Once Upon a Time in Uganda, della regista statunitense Cathryne Czubek, in programma al RIDF – Rome International Documentary Festival [1] che si sta svolgendo dal 24 al 30 settembre a Roma, al cinema Delle Province.
Il Festival ha debuttato quest'anno, con l'intento meritevole di portare nella Capitale il meglio della produzione italiana e internazionale dell'ultimo anno. Ha proposto quattro spettacoli al giorno, oltre a masterclass e incontri con gli autori, anche se purtroppo questa volta non c'era nessuno in sala a rappresentare il bizzarro e affascinante mondo di Wakaliwood [2], una incredibile location di produzione cinematografica alle soglie di Kampala, a Wakaliga, realizzata in una vera e propria baraccopoli e guidata da Isaac Nabwana, definito da qualcuno “il Tarantino africano”.
C'era una volta in Uganda – cosi tradurremmo in italiano il titolo del documentario, già premiato e segnalato in diverse occasioni nell'ultimo anno [3] – racconta l'incontro tra due persone provenienti da parti opposte del mondo, unite solo dalla passione per il cinema. Isaac Nabwana è un ex fabbricante di mattoni e si arrangia con i poveri mezzi che gli sono consentiti dalla sua condizione per girare film d'azione ispirati a Chuck Norris, Bus Spencer, Sylvester Stallone. Vive in uno slum come ce ne sono tanti nelle periferie africane, tra baracche e strade sterrate, cercando di sbarcare il lunario e dare una svolta alla propria esistenza. Sarà laggiù che si recherà Alan Hofmanis (un muzungu, cioè un uomo bianco), cinefilo di New York, che in un momento di crisi personale cerca una strada inconsueta e difficoltosa, seguendo il proprio fiuto di talent scout. Contro ogni aspettativa, tra entusiasmo e crisi, questi due improbabili amici riusciranno infine a portare il cinema di Wakaliwood alla ribalta internazionale.

I soggetti tipici di Nabwana – almeno stando a quello che ho potuto vedere nel documentario, ai trailers disponibili in rete e soprattutto al suo primo importante lavoro, Who Killed Captain Alex? [4] – non mi sono sembrati irresistibili, pieni di kung fu, sparatorie sanguinose e cruente nella boscaglia ed effetti speciali distruttivi più vicini ai videogame che al cinema cui siamo abituati. Eppure, parrebbero un genere di grande successo nel suo paese, dove la gente accorre invece numerosa in sale allestite per l'occasione ed i Vee-jays [5] commentano la storia durante la proiezione del film, traducendo i dialoghi dove necessario (si svolgono in inglese e in lingua luganda) e trasformando la visione in una sorta di happening. Bisognerà approfondire e dare spiegazione a questo entusiasmo popolare per un genere (collocato tra action e martial arts) per alcuni versi surreale, per altri poco comprensibile.
Mi ha invece molto colpito la rappresentazione fedele – nella cornice tutto sommato spiritosa della realizzazione dei movies di Nabwana – dei luoghi e delle persone: gente priva di mezzi che gira con un budget di circa 200 dollari e si inventa di tutto, riciclando ogni cosa e utilizzando improbabili avanzi di tecnologia per dare corpo al suo lavoro. Oppure che recupera dalla discarica pezzi di metallo e altra ferraglia per ricostruire mezzi di locomozione o armi letali da set, realizzando scenografie surreali ed effetti speciali grotteschi che provocano davvero il divertimento collettivo. Una realtà che si ingegna poi ad autoprodurre DVD venduti on the road dagli stessi protagonisti, che si occupano anche di realizzare gadget originali di questa sedicente Ramon film studio.
Tutto è attorniato da moltitudini di bambini, giocosi, curiosi e seriamente impegnati nel seguire le riprese o nell'apprendere i rudimenti delle arti marziali. La troupe, poi, è improvvisata e volontaria e si occupa di tutto: degli attrezzi di scena, delle luci (quando possibile), del trucco e del catering (cioè del cibo per gli attori, volontari anch'essi, ai quali occorre – in assenza di paga – dare almeno da mangiare).
All'Africa di Once upon a time in Uganda – come è naturale che sia – mancano gli odori: quelli del cibo in cottura e del fuoco acceso, del traffico di auto scarburate e del gas di scarico dei generatori per l'elettricità che manca, delle fogne a cielo aperto e della natura lussureggiante, della terra bagnata e allagata dopo la pioggia torrenziale e degli abiti incollati ai corpi, rivestiti di polvere rossastra, dopo una corsa sugli immancabili moto-taxi. Ma di tutto il resto – colori e volti, miseria e fantasia, infanzia e fango, suoni e voci, sogni e grandezze – non manca nulla. Brava Cathryne Czubek a raccontarci questa storia e quel paese facendoci vedere – col in suo lavoro – soprattutto la fatica degli altri. Sarebbe stato suggestivo, come infine pure accade ad epilogo della storia raccontata nel film, incontrare in sala Isaac, il leader di Wakaliwood, un africano caparbio che con la sua tenacia e un po' di buona sorte è riuscito a raggiungere – in questo modo singolare – il lontano Occidente.
Paolo Sassi
[1] https://www.ridf.it/
[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Wakaliwood#cite_note-1
[3] http://onceuponatimeinuganda.com/about#the-story
[4] Il film è disponibile per intero alla visione sulla piattaforma YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=KEoGrbKAyKE
[5] https://it.wikipedia.org/wiki/Video_jockey
Once Upon a Time in Uganda
di Cathryne Czubek
paese: USA, Uganda
anno: 2021
regia: Cathryne Czubek
durata: 93′
lingue: inglese, luganda
sceneggiatura: Cathryne Czubek, Amanda Hughes
cast: Alan Hofmanis, Nabwana I.G.G., Harriet Nabwana
fotografia: Matt Porwoll
musica: Andrew Hollander
suono: Nikola Chapelle
montaggio: Cathryne Czubek, Amanda Hughes
produzione: Gigi Dement, Cathryne Czubek, Matt Porwoll, Hugo Perez, Kyaligamba Ark Martin, Hugo Perez
distribuzione: Blue Finch FIlms
sito: http://www.onceuponatimeinuganda.com/
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