
Negli ultimi mesi gli Ittiti sono tornati ad essere oggetto di attenzione dei media in concomitanza di alcune scoperte sul campo e di iniziative per diffonderne la conoscenza. Tra queste ultime c’è stata la prima rappresentazione “teatrale” all’interno di un progetto scientifico della professoressa Rita Francia e del dottor Matteo Vigo che hanno portato anche elementi di innovazione nell’insegnamento della Storia preclassica. Per parlare della civiltà ittita, delle nuove scoperte e del loro progetto abbiamo incontrato Matteo Vigo, Ittitologo laureato in Storia e Civiltà del Vicino Oriente antico presso l’Università degli Studi di Pavia. È studioso internazionale, che ha lavorato nei principali centri di ricerca del mondo per gli Studi del Vicino Oriente antico, dall’Oriental Institute dell’Università di Chicago, all’Istituto di Orientalistica dell’Università di Würzburg, in Germania. Matteo Vigo ha esperienza di insegnamento ultradecennale di civiltà e lingue anatoliche in diversi atenei del mondo (Italia, Stati Uniti di America, Francia, Danimarca, Germania, Iran). Dal 2018 è professore a contratto di Ittitologia presso l’Università degli Studi di Pisa. Dal 2018 al 2021 presso l’Accademia di Scienze e Letteratura di Mainz, ha diretto un progetto di storia sociale e amministrazione dell’Anatolia ittita, finanziato dalla Deutsche Forschungsgemeinschaft. Oltre all’esperienze accademiche internazionali, ha partecipato a diverse campagne di scavo e ricognizione archeologica in Medio Oriente, dapprima in Siria presso il sito di Terqa, e poi in Turchia, nella Tianitide Settentrionale. Attualmente è ricercatore in Anatolistica – Ittitologia presso il Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università Sapienza di Roma.

Chi è Matteo Vigo? Cosa l’ha portata in giro per il mondo ad occuparsi di popoli antichi?
É un Ulisse senza meta, che passa di porto in porto, ogni giorno scoprendo qualcosa di sé stesso, meravigliandosi della complessità e fascino di questo mondo. Mi sono appassionato fin dalla giovane età, supportato da mia madre che però era discretamente osteggiata da mio padre. Essendo un uomo di mondo aveva già capito che questa passione non avrebbe creato grandi sbocchi lavorativi. Nonostante ciò, ho deciso di fare tutto il percorso fino a specializzarmi, a diventare un orientalista, in particolare in Ittitologia, una branca degli studi del Vicino Oriente antico che si occupa appunto degli Ittiti, una popolazione dell’Anatolia del secondo millennio a.C. Solo ora comprendo quanto siano stati propedeutici i miei studi classici per lo studio delle altre lingue antiche che avrei affrontato invece all’università.
Ci può spiegare meglio questa relazione tra le lingue classiche e quelle che sono oggetto dei suoi studi, l’ittita in particolare?
L’ittita è una lingua indoeuropea fortemente imparentata con le lingue indoeuropee recenziori, cioè più recenti, che si studiano al Liceo Classico, come il greco e il latino. Ma anche altre lingue non indoeuropee, affrontate nel nostro curriculum universitario, le lingue semitiche, come l’accadico, per esempio, sono fondamentali, perché gli Ittiti utilizzarono un sistema di scrittura cuneiforme, importato dalla Mesopotamia, adottando di conseguenza in larga misura parole, espresse da segni cuneiformi, che corrispondevano a parole o idee in altre lingue. Questo escamotage scrittorio ha diverse motivazioni. Forse anche l’economia del testo, perché scrivere una parola in lingua ittita, in un sistema grafico cuneiforme sillabico, necessitava l’uso di tante sillabe per formare quella detta parola, e così gli Ittiti spesso inserivano degli ideogrammi e logogrammi, cioè un segno che corrispondeva a un concetto, una parola, o un verbo in una lingua mesopotamica. E dov’è che andavano a prendere questi ideogrammi e logogrammi, che noi chiamiamo oggi eterogrammi, segni che non corrispondono alla lingua ittita? Dal sumerico, che non è una lingua indoeuropea, né semitica; non appartiene a nessuna famiglia linguistica. O usavano gli accadogrammi, vere e proprie parole in lingua accadica.
È attualmente ricercatore di esperienza presso il Dipartimento di Science dell’Antichità dell’Università “La Sapienza” di Roma. In particolare di cosa si sta occupando ora?
Lavoro all’Università “La Sapienza” come ricercatore all’interno di un progetto PRIN, partito nel 2020, che vede collaborare diverse istituzioni, la principale delle quali è l’Università di Torino, dove c’è anche il Principal Investigator, il professor Stefano De Martino. Ci sono altre tre istituzioni coinvolte: le Università di Firenze, Roma, e Bologna. Ho vinto il posto all’interno del PRIN in “Sapienza” dove la direttrice del nucleo operativo è la professoressa Rita Francia. Sto lavorando insieme a lei a un progetto, su scala nazionale, per fare un censimento degli scribi ittiti, attestati nelle cosiddette feste. Questa categoria di testi costituisce circa il cinquanta per cento del totale dei testi provenienti dai vari archivi del Regno Ittita. Spesso non vengono considerati come testi economici o amministrativi, ma in effetti in parte lo sono, e pertanto forniscono informazioni molto interessanti proprio su alcuni aspetti dell’amministrazione e dell’economia di questo popolo.
In Italia l’insegnamento e lo studio della Storia da tempo non godono di buona salute. In base alle sue esperienze all’estero e ai suoi contatti odierni che diagnosi fa del ruolo dell’insegnamento della Storia negli altri paesi? Possiamo apprendere qualcosa?
Sono Ricercatore Senior per aver almeno dieci/undici anni di anzianità di ricerca di alto livello, soprattutto in centri di ricerca tra i migliori al mondo per il mio ambito di studi, come l’Oriental Institute dell’Università di Chicago, l’Accademia di Scienze e Letteratura di Mainz, la Freie Universität di Berlino, o l’Istituto di Orientalistica dell’Università di Würzburg. Per usare una metafora calcistica, è come se avessi militato nei top-clubs internazionali: dal Real Madrid, al Barcellona, al Manchester United…
Mi sembra di averne contati una ventina circa …
Se non sbaglio adesso sono ormai diciassette e di questi più della metà sono stati svolti all’estero. Esagerando, ma per rendere l’idea, dopo la diaspora ebraica, penso che quella dei cervelli italiani all’estero sia la diaspora più grande e sottovalutata nella storia dell’umanità. In Italia non è che manchino strutture, programmi di inserimento, professori, ricercatori, o studenti promettenti e qualificati per fare ricerca di alto livello nelle Scienze Umane. Il problema è che non ci sono programmi ministeriali che dedicano i fondi necessari all’interno delle finanziarie, e quindi fondi sufficienti allo sviluppo di queste discipline, diversamente da quanto accade in altri paesi. Il paese dove vive la mia famiglia, la Germania, ha sempre investito in modo costante e adeguato, e le possibilità di lavoro effettivamente ci sono. Soprattutto, ripeto, si investono molti più soldi nella ricerca in generale. E questo vale anche per altri paesi europei dove i governi destinano fondi importanti per i ministeri dell’università e ricerca. Ma quando ci sono poche risorse finanziarie da parte dei governi, le priorità sono ovviamente altre.
Detto questo devo dire che in tutti i luoghi dove sono stato a fare ricerca e insegnare – tra Germania, Stati Uniti, Danimarca, Francia, Iran, o a scavare, come in Siria e Turchia – c’è in ogni dipartimento di Scienze dell’Antichità o di Orientalistica almeno uno o due italiani che sono i top researchers. È un grosso smacco per l’Italia, perché non ha né la possibilità di tenersi i ricercatori, né soprattutto programmi atti a farli rientrare a un certo punto. La ricerca migliore negli istituti stranieri la fanno spesso gli italiani, questo bisogna ricordarlo.

A proposito di scavi e ricerche mi racconta un momento particolarmente emozionante, che ha dato senso al lavoro, ai sacrifici?
Il ricordo più bello è quello delle esperienze di scavo in Siria. Ho scavato nei siti di Terqa e Masaikh, che stanno sul medio Eufrate, nella dispersa provincia di Deir-ez-Zor, a ca. 60 km dal confine con l’Iraq. È il ricordo più bello per diversi motivi, innanzitutto perché ho memoria di qualcosa che oggi non c’è più. In Siria dall’inizio della guerra civile non si può più scavare. Adesso sembra che “La Sapienza” si stia attivando per riaprire lo scavo storico di Ebla. Un ricordo che racchiude in sé un po’ di bitterness – come si dice in inglese – perché, per esempio, a differenza degli scavi e delle ricognizioni fatte in Turchia, i siriani, almeno all’epoca, avevano meno coscienza storica del loro patrimonio, e così ci si svegliava la mattina e si scavava meticolosamente appunto in queste zone rurali, e giorni dopo si dovevano impiegare due o tre ore a ripulire lo scavo perché gli abitanti del villaggio lo avevano usato come discarica. Cosa mai avvenuta personalmente in Turchia, dove comunque anche nelle zone rurali c’è più rispetto per il proprio patrimonio di quanto invece avvenga in quelle siriane. Poi ricordo uno degli ultimi periodi: dopo l’attentato alle Torri Gemelle di New York, eravamo in una situazione piuttosto preoccupante, dovuta all’attraversamento nei cieli siriani degli aerei militari della NATO, diretti a bombardare l’Iraq. I bombardieri usavano il fiume Eufrate come traccia per raggiungere i siti iracheni da bombardare, e al ritorno – in un tragitto di quasi 1.500 km – scaricavano gli armamenti per alleggerirsi a qualche decina di chilometri da noi.
Veniamo ora al progetto eḫu išhamai (“canta !”): La Storia insegnata attraverso il canto. Il progetto che insieme alla professoressa Rita Francia state portando a termine per aiutare la diffusione e la comprensione della civiltà ittita. Avete usato il canto nella lingua ittita, strumenti appositamente costruiti, ma anche un fumetto… Quali le maggiori difficolta scientifiche, ma anche burocratico-amministrative avete incontrato? C’è stata anche una rappresentazione al teatro dell’Università “Sapienza”. Pensate che ci possano essere delle repliche o metterete in campo altre attività?
Quello di cui sta parlando è un progetto diciamo corollario rispetto alle nostre ricerche istituzionali in Roma. Secondo me l’idea, partita da Rita, è pionieristica. Anche innovativa perché tende a svecchiare un sistema, quello della didattica della scuola a ogni livello, che considera la Storia come un divenire con un vacuum; esiste di fatto un grosso gap documentario per la storia preclassica. L’idea di Rita di far riscoprire agli studenti la storia preclassica, che ha tanto in comune con la storia classica, secondo me resta geniale.
Per quanto riguarda le difficoltà, ad essere onesti, si è partiti brancolando nel buio, perché scegliere di avvicinare i giovani attraverso il canto e la rappresentazione teatrale per parlare degli Ittiti è un’operazione complicatissima. Mentre con l’utilizzo del fumetto – sempre per avvicinare il pubblico più giovane – non si sono presentati grossi problemi. In questo caso sono state preparate delle sequenze di facile realizzazione e impatto. Quelli che noi tradizionalmente chiamiamo “miti ittiti”, in effetti sono rituali che venivano svolti in periodi specifici dell’anno per diverse motivazioni e che venivano inseriti in una cornice mitica, diciamo. Per spiegare il rito propiziatorio alla rinascita della primavera, o per fronteggiare una carestia, per esempio, lo si collegava alla scomparsa del dio della fertilità anatolico, Telipinu, che doveva essere richiamato attraverso un rituale; doveva cioè essere rievocato per poter riportare l’ordine costituito della Natura. Grazie anche alla bravura dello sceneggiatore Simone Troja e della fumettista Susanna Mariani si è stati in grado di tradurre in un linguaggio semplice, visuale, immediato, qualcosa che ha comunque quattromila anni di storia.
Nel caso invece della rappresentazione, della performance teatrale, è stato più difficile. Innanzitutto perché non sappiamo come questi “miti” venissero rappresentati; se erano letti o recitati presso le corti, se l’audience era privato o pubblico, se fossero accompagnati o meno dal canto. Inoltre, a differenza di altre culture, come quella greca, non abbiamo dei compendi di musica come esistono, per esempio, per l’epoca alessandrina, dove abbiamo dei trattati sulla musica, sul canto, e sulla recitazione. Per gli Ittiti non esiste un manuale di musica. Abbiamo fatto uno studio interno alla lingua, osservando la struttura delle frasi. In questi racconti si trova una sorta di struttura metrica, e quindi da lì in modo molto speculativo, pioneristico, si è arrangiata la recitazione, ove possibile. Non escludiamo che nelle occasioni in cui venivano rappresentati alcuni “miti anatolici”, questi potevano essere anche accompagnati dalla musica. Sappiamo peraltro che gli Ittiti apprezzavano la musica, che era parte integrante della loro socialità. I musici vengono infatti rappresentati nell’iconografia, anche monumentale, e sappiamo che questi realizzavano le loro performances in occasione di feste periodiche e istituzionali. La difficoltà maggiore è stata quella di tentare di ricostruire una lettura fonetica completamente sillabica di tutte le parole, e nondimeno, recitare in una lingua morta. Non abbiamo nessuno che ci può dire come venisse pronunciata. Sulla base soprattutto della linguistica storica, si è quindi cercato di capire come ci si esprimeva in ittita e come potessero essere realizzati i suoni. Un’impresa faticosa per tentare di accompagnarla con della musica, poi. Siamo stati aiutati dal nostro archeo-musicologo, Francesco Landucci, che ha avuto l’arduo compito di ricostruire una sorta di lirica monodica, come si dice in greco, cioè una ripetizione di versi di una voce solista, accompagnata dalla musica di uno strumento.
Poi c’è stata anche la difficoltà di trovare la sede adatta per la rappresentazione, ma fortunatamente abbiamo avuto a disposizione il teatro Ateneo. Spero che in futuro – per una maggiore divulgazione della storia della civiltà ittita – si riesca a portare come progetti sperimentali la performance anche in teatri del municipio di Roma. Nel frattempo abbiamo invitato all’evento che si è tenuto lo scorso 25 novembre, oltre alle autorità, alcune scuole a campione, per presentare il tutto, e poi io e Rita da Gennaio andremo nelle scuole di Roma (licei e scuole secondarie) ad insegnare la storia di questa civiltà, proponendo anche attività di laboratorio. Un ulteriore step del nostro programma di ricerca prevede la realizzazione di un libro per ragazzi di racconti e “miti” anatolici illustrati, da pubblicare su scala nazionale prima della fine del 2023, sul modello di quei formati già esistenti per i classici greci e latini o le opere epiche del mondo classico o medievale.
Recentemente la civiltà ittita è tornata sulle prime pagine dei giornali. Mi riferisco alle notizie sulla scoperta (forse) di Zippalanda, città santa degli Ittiti. Una costruzione a forma di cerchio, realizzata nel sito di Uşaklı Höyük, nella Turchia centro-settentrionale. Le vestigia sono venute alla luce grazie ad un gruppo internazionale di archeologi guidato dall’Università di Pisa. Cosa ci può dire di questa scoperta e se aggiunge elementi del tutto nuovi alla conoscenza di questa straordinaria civiltà le cui prime tracce risalgono alla prima metà del 1700 a.C.?
Faccio una premessa. L’Ittitologia, come scienza umana dell’antichità, è molto giovane rispetto, per esempio, alla Storia Greca o Romana, o anche all’Assiriologia, e quindi ci sono tante scoperte ancora da fare.
Quest’anno le più importanti sono state due. La prima è quella di cui parla, ed è avvenuta nell’ultima campagna di scavo del sito di Uşaklı Höyük, presso il villaggio di Sorgun, nel distretto di Yozgat, in Turchia centrale. È una missione archeologica, diretta dal professor Anacleto D’Agostino, collega del dipartimento al quale afferisco, e dove insegno Ittitologia presso l’Università di Pisa. Lo scavo è iniziato da una decina d’anni. Prima era sotto la direzione operativa della professoressa Stefania Mazzoni, dell’Università di Firenze. La scoperta più o meno sensazionale di quest’anno, era qualcosa che ci si aspettava, appunto questa struttura circolare che, secondo l’archeologo che dirige lo scavo, ha probabilmente una funzione cultuale o rituale. È stata trovata su un terrazzamento, al cui nord si trova una struttura che probabilmente deve essere un tempio dell’Età del Tardo Bronzo, quella meno investigata finora. Forse siamo appunto nella città sacra di Zippalanda. Oltre alla scoperta di quest’anno, ci incoraggiano a pensarlo sei frammenti epigrafici, scoperti tra il 2009 e il 2015. Dovrebbe essere un sito guida per la ricostruzione della geografia storica dell’Anatolia ittita, perché Zippalanda era un insediamento di antichissima tradizione: una delle città sante per gli Ittiti, come ce ne sono per musulmani, cristiani, e seguaci di altre fedi, meta di pellegrinaggi periodici.
La seconda delle importanti scoperte è stata fatta ad agosto a Ḫattuša, capitale del Regno Ittita. Uno scavo che è iniziato centosedici anni fa e la cui direzione, come allora, è tedesca. Oggi lo scavo è coordinato dall’Istituto germanico archeologico con sede a Istanbul, e il professor Andreas Schachner è il direttore della missione. Nella città di dimensioni maggiori della prima Roma repubblicana, circondata da cinte murarie imponenti, in una galleria che si trova sotto un enorme rampart, chiamato Yerkapı, di 250 m di lunghezza, per 40 m di altezza, scavato nel 1906 ca., e di cui non sappiamo bene la funzione (via di fuga della città(?)), è stato trovato un gran numero di graffiti in geroglifico luvio, al di sotto di una porta della città che originariamente doveva essere “protetta” da quattro sfingi. La scoperta è stata quasi casuale. Un archeologo turco della missione che stava attraversando la galleria, sentitosi bagnare il capo da una goccia d’acqua, ha acceso la torcia del cellulare, orientandola sulla volta e le pareti della galleria; di lì l’eccezionale scoperta. Gli ittiti usavano due sistemi di scrittura: il primo, ufficiale della cancelleria palatina, il cuneiforme, destinato prevalentemente alle tavolette d’argilla, il secondo quello usato anche dagli Egizi, il geroglifico, (che in questo caso è codice scrittorio del luvio, una lingua anatolica strettamente connessa all’ittita), è pittografico, fatto cioè di disegni. Di questi ne sono stati rinvenuti 249 all’interno della galleria (di almeno 8 gruppi scrittorî). A parte due casi simili, numericamente poco significativi, scoperti in altri centri anatolici, è la prima volta che si osservano geroglifici non incisi, come è tipico nell’Anatolia di quei secoli, ma dipinti usando forse pigmenti naturali. Anche per questa scoperta l’università italiana ha un ruolo importante, perché le due università che si stanno occupando dello studio di questi graffiti sono la Federico II e la Suor Orsola Benincasa di Napoli. Il professor Leopoldo Repola, il professore emerito Massimiliano Marazzi, e la loro equipe stanno mappando le pitture sulle pareti della galleria tramite fotogrammetria, anche 3D. I risultati sono attesi probabilmente già per il prossimo anno.
Pasquale Esposito
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