
Troppo presto, a soli 67 anni, il “Garellik” nazionale,Claudio Garella ha deciso di togliere il disturbo e il mondo del calcio italiano perde indubbiamente uno sportivo che ha dato molto, almeno al Verona e al Napoli; un contributo essenziale per far cucire sulle maglie uno scudetto ciascuno.
Gli inizi della carriera nei primi anni ‘70, come spesso accade a molti calciatori, non sembravano promettere un futuro nella massima serie calcistica tant’è che, indossando la maglia granata del Torino, giocò una sola partita per poi essere ceduto prima al Casale e poi al Novara, squadre mitiche dei primordi del calcio italiano ma pian piano retrocesse ai limiti delle categorie professioniste. Le cronache sportive non segnalano nulla di rilevante nelle sue prestazioni tranne che – indizio che la dice già lunga sull’uso dei piedi di Garella – è ricordato per aver segnato un gol su rigore con la maglia nero-stellata del Casale [1].
Nel campionato 1976, dopo la gavetta in serie C e D arriva a Roma, sponda Lazio, come secondo portiere alle spalle del più famoso Felice Pulici. Un anno di panchina, neanche una partita a difendere i pali della sua squadra.
L’anno successivo l’allenatore Luis Vinicio gli dà fiducia e lo schiera titolare; 29 gare e 36 gol incassati. Ma c’è un problema, e non da poco; non piace ai tifosi. Forse per qualche “papera” di troppo, ma sicuramente non li convince il suo “stile” e così viene ceduto, questa volta alla Sampdoria in serie B.
Ma cosa non andava nelle parate di Garella e perché i tifosi storcevano il muso?
È bene ricordare che, almeno fino ai primi anni ’90, l’Italia poteva vantare forse una tra le migliori scuole al mondo per i portieri e pertanto le nostre squadre acquistavano magari attaccanti o centrocampisti all’estero ma non i portieri; quelli erano frutto dei vivai e della pazienza di tecnici che insegnavano i rudimenti del mestiere. Si, mestiere, perché portiere si nasce. Partecipare al gioco della tua squadra, stando “rinchiuso” per 90 minuti in uno spazio di 7,32 metri delimitato da due pali e da una traversa posta a 2,44 metri da terra, significa accettare quasi ogni forma di sacrificio che ai tuoi compagni non è richiesto.
Essere un portiere significa anche saper metabolizzare, partita dopo partita, l’aspettativa di infallibilità che i compagni nutrono nei tuoi confronti. Lui è l’ultimo baluardo e non può sbagliare. Lo stress ti divora perché sai che per 89 minuti puoi non subire neanche un tiro nello specchio della porta, ma quel minuto che rimane al fischio finale potrebbe rivelarsi letale per la squadra e per la tua carriera. Se accettiamo tutto questo, ecco che l’immagine di Caudio Garella si modella sulla fisionomia di un portiere atipico.
Alto e massiccio, forse dal fisico non del tutto proporzionato, con le sue parate si era inconsciamente posto al di fuori di quella rigida e gloriosa scuola dei portieri italiani dove lo stile contava più di ogni altra cosa. Nulla a che vedere con l’efficiente ma glaciale Giuliano Sarti, maestro nel piazzamento che per questo non ha mai dovuto fare ricorso a gesti atletici vistosi, né con Lorenzo Buffon insuperabile tra i pali, nemmeno con Enrico Albertosi dal fisico elastico e scattante, meno che mai con il plateale ma insuperabile Luciano Castellini, il mitico “Giaguaro”, e neppure con la quasi perfezione assoluta di Dino Zoff.
Per inciso, vorrei ricordare una consuetudine seppure marginale che ha accomunato per lungo tempo quei portieri e cioè che tutti paravano a mani nude, senza guanti, non per esibizionismo ma per una maggiore sensibilità nelle mani perché – non va dimenticato – la scuola italiana dei portieri esigeva che il pallone venisse bloccato e non respinto, a parte determinate situazioni.
Garella invece… era Garella. Prendere o lasciare. Per lui, l’importante era fermare il pallone, di piede, con un braccio o con la pancia non lo interessava; difendere la porta, questo era il suo compito.
Oggi analizzando l’evoluzione che ha avuto il ruolo del portiere, parallelamente alle mutate disposizioni in campo degli altri giocatori, non diciamo un’assurdità se consideriamo Garella tra i precursori di questo mutamento anticipando forse, in quegli anni ’80, i cambiamenti che poi hanno avuto luogo. Intanto si è passati dal vedere una squadra di calcio come composta da 10 giocatori + 1 – cioè il portiere, avulso dalle dinamiche della squadra – in una compagine unita, dove anche il portiere si assume le sue responsabilità non solo tra i pali ma in ogni fase del gioco, abbandonando il limite invalicabile, anche mentalmente, della c.d. “area piccola”.
Basta vedere il cambiamento avvenuto nell’impostazione del gioco. Ora gli allenatori vogliono che parta dal basso, coinvolgendo tutto il reparto difensivo che deve avanzare palla al piede, avendo scartato l’idea che fosse il portiere con il suo lancio lungo a dare inizio all’azione.
Garella queste cose le aveva già intuite ma le esprimeva a modo suo, in un calcio che lentamente cercava di stare al passo con le più avanzate tecniche provenienti dalle squadre del Nord Europa, che intanto cercavano spunti osservando le tecniche di altri sport di squadra. L’esempio tipico è quello offerto, per i portieri, dai numeri 1 dell’hockey su ghiaccio. Le loro posture forse stilisticamente carenti risultano invece molto efficaci a difesa della porta.
Le spettacolari parate di Neuer, non sempre “bello” da vedere, ma sicuramente una cassaforte inviolabile, così come quelle degli altri grandi portieri Courtois, De Gea, Donnarumma, prendono spunto dalle movenze degli estremi difensori sul ghiaccio, confermando quello che Garella esprimeva sul campo e cioè che l’importante è parare, non importa come.
Convinzione questa che deve aver suonato come una melodia per l’allenatore del Verona, Osvaldo Bagnoli che con la sua “squadra operaia” – come gli piaceva ripetere – conquistò il suo primo scudetto nella stagione 1984-1985, ovviamente con Claudio Garella tra i pali a festeggiare, dopo anni di anonimato in altri club.
Ma la vera rivoluzione avviene nel 1985 quando il Napoli di Ferlaino, con Maradona in testa, decidono che fosse l’anno buono per lo scudetto. Garella è lì, a difendere la rete e condividere quel progetto e quel sogno che chiese solo di essere rimandato di un anno. Infatti il campionato 1986-1987 cuce lo scudetto sulle maglie della squadra partenopea, con Garella titolare inamovibile e protagonista indiscusso anche nella vittoria della “Coppa Italia”, consegnando al Napoli entrambi i titoli nazionali.
Come spesso avviene, i delicati ingranaggi che presiedono ai rapporti societari e a quelli fra i giocatori e l’allenatore posso incepparsi anche per motivi futili o marginali. Garella si trova nell’occhio del ciclone e questa volta come è usanza, viene ceduto all’Udinese in serie B.
Comincia un iter calcistico al contrario, fino al ritiro dal calcio maggiore anche per un grave infortunio al ginocchio nel campionato 1990-1991 con l’Avellino. Ma Garella, che ha sempre dovuto combattere per i suoi obiettivi, non si perde d’animo e va ad insegnare calcio ai ragazzi che militano nel campionato di Prima Categoria piemontese.
Solo il riacutizzarsi di una patologia cardiaca lo tiene lontano dai campi di calcio fino all’epilogo inaspettato.
Claudio Garella, il “portiere che parava senza mani” come sintetizzò Agnelli, forse ha subito l’ultimo affronto dalla vita, quello di non poter vedere la partita inaugurale di questo campionato fra il Verona e il Napoli, le squadre che ha sempre amato.
Garella mancherà a tutti gli sportivi, e tanto.
Stefano Ferrarese
[1] radiogold.it/sport/notizie-calcio/321960-morto-claudio-garella-portiere-calcio/ , 12/8/2022
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