Crollo del Ponte “Morandi” di Genova: Che fare?

Genova

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La tragedia del Ponte “Morandi” di avrà ampie, per molto tempo, conseguenze e strascichi nel nostro Paese. Innanzitutto vanno accertate le cause e le responsabilità del crollo che si è portato via 43 vittime innocenti. E ci auguriamo che questo avvenga in tempi accettabili perché il dolore che portano con sé è profondo.

È auspicabile, nel frattempo, l'avvio di studi seri che tengano conto delle necessità della città di Genova, dei suoi abitanti e dell'ambiente. Ed è auspicabile che si avvii a riconsiderazione tutto il fenomeno delle privatizzazioni per quei beni e servizi di base che coinvolgono l'intera comunità e che non possono essere affidate a terzi per generare profitti. A maggior ragione quando si tratta di monopoli di fatto che potrebbero produrre avanzi da reinvestire o nelle stesse attività o in altre di cui la comunità necessita.

È del tutto evidente che le autostrade costituiscono un bene-servizio monopolistico naturale. Nessuno è libero di scegliere quale autostrada percorrere. Non è possibile creare alcuna concorrenza tra beni o servizi unici. Affidare a privati la loro gestione significa regalare una rendita di posizione. Per “controllarla” servirebbero regole, autorità di vigilanza, controlli costosi, mai efficaci e, soprattutto, assolutamente inutili, solo se la loro proprietà rientrasse in uno schema di regole pubbliciste. È tempo di fare un bilancio “laico” delle privatizzazioni. È tempo di riproporre la ri-pubblicizzazione della proprietà di quei beni e di qui servizi che per ragioni di accessibilità universale garantita (quali l'acqua e l'energia) o per ragioni banalmente materiali, quali la scarsità e il posizionamento dei suoli, non potranno mai essere merce scambiabile in mercati davvero aperti e liberi.

La tragedia di Genova del 14 Agosto alle ore 11.36 non ha bisogno di approssimazioni ed esigere una visone globale sulle infrastrutture e sul territorio dove le infrastrutture insistono. Il Consiglio di Amministrazione di Autostrade per l'Italia aveva messo a disposizione una prima serie di iniziative con una stima iniziale di 1500 milioni di euro (oltr 700 già date) per le famiglie coinvolte e altri 500 milioni per Genova (ricostruzione del ponte, viabilità, sospensione del pedaggio su alcune tratte autostradali gestite). Intanto Giovanni Castellucci, Amministratore delegato delle società Autostrade per l'Italia e di Atlantia S.p.A., ha  anche, tanto per esser chiari, «avviato la valutazione degli effetti delle continue esternazioni e della diffusione di notizie sulla società avendo riguardo al suo status di società quotata, con l'obiettivo di tutelare al meglio il mercato e i risparmiatori».

Siamo all'aggrovigliamento, come quasi sempre accade in Italia. Da una problematica sociale, in breve, si giunge alla polemica spicciola ed alla tutela, altrettanto becera, di interessi di “bottega”. L'atteggiamento serio problem solving, è assente. Primeggia la gretta attitudine della tecnocrazia a fuggire dalle responsabilità e a trincerarsi dietro contenziosi legali.

La trascuratezza etico-professionale si evidenzia ancor di più oggi nel mentre viene divulgata, non più con timidezza, l'idea semplice che spiega il perchè del crollo del che, attraversando il fiume Polcevera, sovrasta minacciosamente da cinquant'anni abitazione dei quartieri di Sampierdarena e Cornigliano.

L'idea alla quale si allude è stata ampiamente documentata dall'articolo di Paolo Cacciari, nell'edizione del 22.08.2018 de il manifesto online dal titolo Disastro di Genova. La logica capitalistica è quella della remuneratività a breve degli investimenti. In sintonia con la chiave di lettura offerta da Cacciari, con l'aggiornota del 16.08.2018 Genova e la società del rischio ed altri interventi, Mentinfuga, preso atto della reiterazione dei disastri che periodicamente affliggono la penisola, ritiene inevitabile ripensare la natura del modello sociale, economico e politico che ispira da decenni il disordine urbanistico irrispettoso della morfologia del territorio.

Cacciari, in particolare, ricordando il disastro del Vajont del 9 Ottobre 1963 con 1.910 morti, esempio della “dell'italica genialità dell'ingegneria del cemento armato” in grado di realizzare la diga più alta del mondo, inaugurata pochi anni prima, spiega in modo circostanziato che “anche allora la società privata che la gestiva (la Sade) – e con lei tutte le autorità statali e le principali fonti di informazione – preferì ignorare gli allarmi pur di non interrompere la produzione e deprezzare i propri capitali. Ma potremmo citare centinaia di altri casi di tragedie provocate dal collasso di infrastrutture e impianti produttivi industriali”. Inoltre, fa bene Cacciari a legare insieme altri episodi: “l'incendio della petroliera Haven (11 Aprile 1991, 5 morti), la ThyssenKrupp (5 Dicembre 2007; 5 morti)”.

La soggettività delle responsabilità penali, “quasi mai davvero perseguite”, non è in discussione; semmai, evitando la consueta “ipocrisia” politica, la deriva profittevole che mette a repentaglio la vita dei cittadini va contrastata con atti coerenti per debellare la “logica comune che sottende il modus operandi di investitori, proprietari, gestori, autorità regolative e, più in generale, il pensiero moderno di sviluppo, progresso e prosperità”.

L'articolo di Cacciari rende giustizia d'una canea di discorsi distorsivi sull'accaduto, mediaticamente orchestrati, certificando, attraverso le parole di un allievo dell'ing. Morandi, progettista del viadotto Polcevera, (intervista al Docente Sylos Labini dell'Università La Sapienza, “Il ponte Morandi è arte”, il manifesto, 17 agosto 2018) che “il ponte è stato costruito in cemento armato tenendo conto «anche al rapporto costi-benefici (…). L'acciaio per l'economia italiana del periodo era proibitivo, i costi non avrebbero reso possibile la costruzione dei ponti». Ho letto e ascoltato basito che opere pubbliche come quelle in questione sono programmate per un tempo di vita predefinito di 50-60 anni. Ho pensato agli acquedotti romani e al ponte di Rialto e ho capito i differenti modi di concepire le attività umane delle diverse civiltà” (cit. articolo P. Cacciari).

È evidente che il rapporto costi-benefici, unica prospettiva che tutt'ora guida i cantieri dei “lavori pubblici”, porta conseguenze d'impatto ambientale ed umano catastrofiche. Tale impostazione andrebbe sostituita con la pianificazione paesaggistica, come recita la Convenzione Europea del Paesaggio (Firenze, 2000): “il paesaggio è una determinata parte del territorio così come concepita dalle popolazione il cui carattere è il risultato dell'azione ed interazione di fattori naturali e/o umani” (art. 1). Il concetto di pianificazione paesaggistica include porzioni del territorio considerati straordinari così come quelli comuni o degradati dei quali va promossa la salvaguardia, la gestione e la valorizzazione degli aspetti caratterizzanti prima di ogni progettazione infrastrutturale che obbliga a dimensionare in modo abnorme il “costruito”.

I luoghi della vita civile devono continuare ad essere espressivi di identità, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni senza privilegiare la mentalità industrialista che mercifica persone e risorse naturali fino alle estreme conseguenze di costruire ponti poggiati sulle case.

A questo proposito, Cacciari esemplarmente dice (cit. articolo P. Cacciari): “pure ammettendo che la nostra civiltà super-accelerata, iperconsumistica e priva di senso del limite sia la più moderna e desiderata possibile, perché i suoi progettisti e i loro committenti e finanziatori non programmano anche le manutenzioni e il fine ciclo dell'opera preferendo invece spremere il limone fino a bucare la scorza? Mi è stato detto che per una grande impresa risarcire i danni di disastri è spesso più economico che modificare i propri piani produttivi. Non a caso uno dei motori di questo “sviluppo” sono le società di assicurazione. La logica che guida l'economia capitalistica è stata sempre quella della remuneratività a breve degli investimenti. Peccato che questi “utili” siano stati garantite ai Benetton e agli altri “capitani coraggiosi” dell'imprenditoria italiana dalle generose privatizzazioni e svendita del demanio dello Stato avviate dai governi dell'era iperliberista”.

Fuori dal coro dei servitori e dei padroncini, va condotta fino in fondo la battaglia culturale e politica circa il consumo e le modalità d'uso del territorio il quale, essendo un ” non negoziabile, va sottratto definitivamente alle mire speculative private e sottoposto a vincoli paesaggistici applicando piani ad hoc urbanistico-territoriali, usando lo strumento principe della pianificazione, le “unità di paesaggio”, con specifica considerazione dei valori inestimabili concernenti l'intero territorio nazionale.

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