Dal Biafra ai marciapiedi di Roma: una storia di sofferenza e speranza

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Questa, in fondo, è soltanto una storia di terre. Da un lato, terra intesa come patria, luogo natio. Dall’altro, terra intesa come strada, incroci di vie, marciapiedi. L’origine e l’approdo. Nel mezzo, un insieme di sentimenti e vicende che risulta complesso, oltre che limitativo, cercare di mettere in fila. Per raccontarla, questa storia, voglio partire dalla fine: da dove, per George, tutto è ricominciato.
George – non è il suo vero nome, vuole rimanere nell’anonimato – è un giovane ragazzo di colore, uno degli “immigrati” di cui la cronaca ci dà spesso notizia. Quando lo incontro, nei pressi dell’Università La Sapienza di Roma, non tanto il suo volto, ma la sua attività, mi è già familiare, come accade, probabilmente, a molti altri romani. Da un po’ di tempo, infatti, studenti, passanti e turisti hanno iniziato ad abituarsi a vedere diversi ragazzi come lui impegnati nella pulizia delle strade. Un esercito armato solo di scopa e palette, che si sposta da un luogo a un altro della Capitale, raccogliendo foglie, mozziconi di sigarette, cartacce.

un ragazzo di colore fotografato di spalle che pullisce un marciapiede nei pressi della Sapienza a Roma
George a lavoro per pulire i marciapiedi nei pressi della Sapienza. Foto Lorenzo Di Anselmo. Roma Maggio 2017

Mi imbatto in George nel pieno della mattinata, quando la sua attività va avanti già da un paio d’ore ed è destinata a proseguire ancora per molto. Mi avvicino, ricevendo un sorriso timido, sommesso, perfettamente a metà tra la diffidenza, il sospetto e la volontà di instaurare un contatto. Basta una domanda, però, per superare ogni sua titubanza, lieve o pronunciata. “Da dove vieni?”, gli chiedo quasi immediatamente. Una domanda che, probabilmente, non vedeva l’ora gli venisse posta. Uno scatto d’orgoglio, una reviviscenza istantanea, un ricordo fulmineo d’una terra lontana, amata, odiata e poi ripudiata, in una scala di suggestioni che corrisponde un po’ al resoconto della sua intensa esistenza.
Nigeria”, mi risponde con decisione, come avesse già pronta una risposta che, prima o poi, si sarebbe trovato a dover dare. Da quel momento, è un frenetico e irrequieto susseguirsi di racconti, episodi vissuti o ascoltati, descrizioni di un mondo che fatica a comprendere e a cui, però, si sente inevitabilmente legato. Un fiume in piena da cui sgorga tenacia, voglia di libertà, il desiderio celato, eppure evidente, di tornare un giorno a badare alla sua “terra”. George parla un italiano abbastanza stentato, è nel nostro paese da soli sei mesi. Decidiamo di comunicare in inglese: una scelta più neutrale, che lo faccia sentire meno “straniero” e più vicino, questa volta, alla sua, di “terra”.

George appartiene all’etnia Ibo, una di quelle maggioritarie nel suo paese. Gli Ibo sono stanziati nell’area sud-orientale della Nigeria, in quella fetta di territorio nazionale coincidente con la regione del Biafra, divenuta tristemente famosa a partire dal giugno del 1967, quando gli Ibo decisero di separarsi dal governo centrale, dando origine a uno stato autonomo, la Repubblica del Biafra. Fu la scintilla che innescò una sanguinosa guerra civile. Intenzionato a riprendere immediatamente il controllo sulla regione divenuta indipendente, le forze nigeriane attaccarono immediatamente i secessionisti. Prese così avvio un conflitto destinato a protrarsi per circa due anni e mezzo, provocando nel complesso oltre un milione di vittime.
La voglia di indipendenza dell’etnia Ibo è il risultato di una serie di fattori, alcuni endogeni, altri legati alle conseguenze del periodo coloniale. Il loro tentativo è terminato però nel sangue, represso dall’esercito nigeriano che ha spento i sogni di un intero popolo, ma non le speranze di vedersi assegnare finalmente una propria terra. A cinquant’anni da quelle drammatiche vicende, che ebbero anche un impatto mediatico senza precedenti nell’opinione pubblica internazionale, le richieste degli Ibo sono tornate a farsi sentire con forza. Negli ultimi tempi, si sono infatti intensificate le manifestazioni da parte degli Ibo, mentre il governo continua a mostrarsi sordo a qualsiasi possibile soluzione, rispondendo spesso con la violenza all’attivismo pacifico degli Ibo. Questo filo che avvolge e lega la storia nigeriana degli ultimi cinquant’anni, fatta di violenze, colpi di stato, guerra civile, tesse le sue trame anche sulla turbolenta vita di George.

George è uno degli attivisti che si batte per l’indipendenza del Biafra, o perlomeno per una maggiore autonomia del popolo cui appartiene con orgoglio. Mentre impugna la scopa con la quale pulisce i marciapiedi romani in una soleggiata mattina di metà primavera, cerca in tutti i modi di spiegarmi perché abbraccia con tanta fierezza la causa secessionista.
Quando hai iniziato a condividere questi ideali e a batterti per essi?”, gli chiedo con curiosità. La sua risposta non lascia interpretazioni. “Quando ero piccolo – mi racconta – chiesi a mio padre perché non avesse fratelli. Lui mi disse che ne aveva due, più grandi, ma entrambi erano morti durante la guerra civile degli anni sessanta. Mio padre si salvò perché era soltanto un bambino. È da lì che ho capito che avrei dovuto fare qualcosa”. Improvvisamente, la sua storia inizia a delinearsi con maggiore chiarezza.
Il rumore del traffico e il caos cittadino complicano la conversazione. Ma George non ci sta a non essere compreso. Vuole a tutti i costi mostrarmi che le sue parole non sono il sintomo di una ribellione, ma l’essenza della libertà che un intero popolo si è vista negare per decenni. Se avverte che non riesco a restare ancorato alle fila del suo discorso, tradito da un inglese che a volte seguo a fatica, si interrompe e, prima di riprendere il suo racconto, mi domanda: “Capisci?”.
Mentre parla, mima gli episodi e le scene che descrive: gesti semplici, che servono a me per intendere meglio i concetti che esprime e a lui per evitare fraintendimenti. E il gesto che usa quando ricorda i suoi genitori è un altro macigno. “Io non ho più i miei genitori. Mio padre è morto lo scorso ottobre. È stato ucciso dalla polizia durante una manifestazione a favore del Biafra”, mi spiega mentre le sue mani si trasformano in una pistola che simula la tragica sorte di suo padre. Analogie e ricorsi di un destino spietato, che si è abbattuto con ferocia sulla famiglia di George e da cui egli ha cercato di svincolarsi fuggendo dalla Nigeria.

La situazione nella Nigeria è tornata incandescente negli ultimi tempi per due motivi principali. Innanzitutto l’arresto, nell’ottobre del 2015, di Nnamdi Kanu, leader di IPOB (Indigenous People of Biafra), uno dei più importanti movimenti che rivendicano l’autonomia della regione. L’altro elemento riguarda l’elezione di Muhammadu Buhari, nel marzo di quello stesso anno, alla Presidenza del paese. Buhari è particolarmente sgradito alla popolazione Ibo, a causa di due fattori primari: da un lato, il suo passato nell’esercito nigeriano che lo ha visto partecipe, a sostegno del governo centrale, durante la guerra civile; dall’altro, i suoi inviti all’unità della Nigeria, interpretati come una chiusura nei confronti di eventuali tentativi separatisti. Tutto questo ha generato ulteriore tensioni, portando di nuovo in primo piano le rivendicazioni dei sostenitori dell’autonomia del Biafra.
Del resto, come mi spiega lo stesso George, il governo centrale intende evitare a tutti i costi la secessione del Biafra: “Il governo vuole che la Nigeria resti unita, perché il Biafra porta soldi allo Stato”, dice il giovane. L’area territoriale del Biafra, infatti, coincide in buona parte con la famosa regione del delta del Niger, zona ricca di petrolio, primaria fonte di guadagno per la Nigeria. È dunque evidente che il governo centrale non possa permettersi di privarsi di terre così importanti, soprattutto da un punto di vista economico. Pericoli, inoltre, condivisi anche dalle maggiori potenze internazionali, come Regno Unito e Stati Uniti, che hanno nella Nigeria uno dei maggiori partner commerciali proprio relativamente all’acquisto del greggio.
Negli ultimi mesi, si sono registrate numerose proteste e manifestazioni da parte degli Ibo, a cui il governo ha spesso risposto con la violenza, accendendo anche l’attenzione della comunità internazionale. Secondo quanto denunciato da Amnesty International, le forze di sicurezza nigeriane avrebbero fatto fuoco sui manifestanti per disperdere la folla, uccidendo almeno 150 persone nel periodo compreso tra agosto 2015 e agosto 2016. “Eppure – si difende George – noi siamo pacifici, non usiamo le armi e non facciamo ricorso alla violenza durante le manifestazioni”.

Parlo con George già da diverso tempo e la sua storia inizia a prendere forma in tutto il suo crudo realismo. Tuttavia, c’è una cosa che non ho capito. O meglio, che lui non mi ha ancora detto esplicitamente, ma che io posso già immaginare, giunti a questo punto. Serve una domanda per togliermi qualsiasi dubbio: “Tu, esattamente, per quale motivo ti impegnavi attivamente in Nigeria, mettendo anche a rischio la tua vita?”. Non ci pensa più di un istante, e la mia percezione iniziale è subito confermata.
Freedom (libertà)!” afferma prontamente in un inglese che, questa volta, non lascia spazio a possibili incomprensioni. Nel rispondermi usa un tono quasi meravigliato, come se la risposta fosse scontata e, dunque, persino inopportuna la mia domanda. “Io non mi batto per ragioni economiche. È vero che in Nigeria ci sono forti disuguaglianze, ma io non ero povero, lavoravo in una compagnia cinese. Io voglio soltanto la libertà, per me restare in Nigeria era divenuto rischioso, soprattutto dopo l’uccisione di mio padre”, mi dice George spiegandomi i motivi della sua fuga. Sembra cercare, nel mio volto, un minimo segnale di consenso, che giustifichi e comprenda la sua decisione, forse definitiva.
Torneresti in Nigeria?”, gli chiedo porgendogli una domanda, forse, persino troppo banale. “Certo che ci tornerei – mi confida – ma devono cambiare le condizioni ed esserci di nuovo la pace. Adesso che ci vado a fare in Nigeria? Non ho diritti, non ho famiglia, sarebbe soltanto un pericolo per me”. Una lapidaria sentenza che chiude il racconto di una vita difficile e sofferta.

Foto Lorenzo DI Anselmo, maggio 2017

George mi ha raccontato molto della sua esistenza e delle sue esperienze, presenti o più remote. Mi ha spiegato perché ama tanto la sua terra e si batte per essa, nonostante il destino avverso gli impedisca, al momento, di viverci. A questo punto della conversazione, non resta che capire cosa possa averlo spinto a impugnare scopa e paletta per pulire le strade romane, badando alla nostra terra, così diversa dalla sua. Anche questa volta, la sua risposta è assai semplice, ma estremamente efficace. “Innanzitutto voglio integrarmi – mi risponde sorridendo – ma voglio anche tenere pulite le strade, per rendere felice me e l’Italia. Fare questo mi rende felice”. E sembra davvero sincero, a giudicare dalla gaia espressione che mi concede.
Alla fine, avremo chiacchierato per almeno un’ora. Nel mezzo, tante persone sono passate accanto a noi e ai mucchietti di sporcizia precedentemente radunati da George. Qualcuno si è fermato a leggere, incuriosito dal cartello e da quella inconsueta attività; qualcuno ha lasciato una monetina, una sorta di riconoscimento per quanto fatto, poiché, alla fine, ne beneficiano tutti; qualcun altro è passato oltre, distratto dal frastuono cittadino oppure semplicemente assorto nei suoi pensieri quotidiani, chissà, forse addirittura indifferente.
Una ragazza si avvicina. Lascia un tramezzino ancora incartato a George, che sorride e ringrazia. Ma neppure questo gesto di inattesa generosità serve ad arrestare il fiume irrequieto delle sue parole.
Storie ordinarie di terre lontane, eppure straordinariamente vicine.
Lorenzo Di Anselmo

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