Dal denaro facile a quello difficile: gli scenari di questa transizione

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È finita l'epoca del “denaro facile”. E ora: cosa ci aspetta? Per aiutarci a raccapezzarci, a capirci qualcosa, il New York Times ha girato la domanda a Mohamed El-Erian, non proprio un profeta ma un grande conoscitore dei mercati, ex Ceo di Pimco, il più grande gestore di obbligazioni al mondo e Chief Economic Advisor di Allianz, la società madre di Pimco.

El-Erian ha provato a spiegare cosa significa entrare nell'era del “denaro difficile” e non tutto quello che dice è piacevole perché la nuova realtà è dura, significa meno pace, più tensioni geopolitiche e anche ritorno dell'inflazione e della recessione, o le due cose combinate insieme, un mix che non ha precedenti se non in un'altra era: i lontani anni Settanta del secolo scorso. E poi sono arrivate le turbolenze bancarie, come quella della Silicon Valley Bank, la prima grossa crisi finanziaria post-pandemica. Insomma, un mucchio di guai, tanto che quasi quasi verrebbe voglia di chiudere gli occhi e di immaginarsi di tornare a com'eravamo prima. Come ha spiegato El-Erian in un recente pezzo per Foreign Affairs, anche la Fed e la Bce si augurano di poter tornare ai bei tempi del 2019, il che però è impossibile, perché siamo all'alba di una nuova era e pensare di poter tornare al mondo pre-pandemico è un grave errore. «Quest'anno – dice El-Erian – mentre guardiamo al rischio di recessione, le stesse persone che hanno liquidato l'inflazione come transitoria e si sbagliavano, stanno dicendo, non preoccuparti, anche la recessione sarà breve e superficiale. Ma non credo che sarà così. Quello a cui stiamo assistendo sono dei cambiamenti strutturali che devono essere presi sul serio dai governi, dalle centrali e dalle aziende».

  • Il mercato del non funziona più come prima
    El-Erian prova a fare il punto con la nuova era e parte dal mercato del lavoro che, spiega, è profondamente cambiato.
    «Dopo la fine della pandemia la partecipazione alla forza lavoro non sta risalendo. Ci sono vari tipi di rigidità. Stiamo assistendo a un'enorme quantità di posti vacanti rispetto ai disoccupati. La realtà è che il mercato del lavoro semplicemente non funziona più come prima […]. La partecipazione alla forza lavoro continua a scendere, e non dipende solo dalla pandemia, c'è qualcos'altro, anche se non sappiamo bene cosa. Non dipende neanche dai salari, che negli ultimi mesi sono saliti del 6%. E più un problema strutturale: c'è una parte della forza lavoro, più anziana che sta lasciando il lavoro e che non ritorna più indietro… E poi ci sono i giovani che vogliono entrare dentro il mondo del lavoro, ma spesso devono farlo con difficoltà, in modo precario e che spesso faticano a considerare il lavoro come una priorità».
  • Le catene di approvvigionamento vengono rilocalizzate in paesi amici
    Ma questa è solo una parte della storia. C'è anche da tener presente che «le catene di approvvigionamento vengono ricablate. In parte questo fenomeno è guidato da ciò che sta accadendo in Cina. In parte è guidato dalla sicurezza nazionale. E in parte è guidato da un cambiamento significativo nel modo in cui le aziende pensano a come operano. Non è più una questione di efficienza. La resilienza è diventata altrettanto importante». Le catene di approvvigionamento stanno diventando meno globali e più nazionali. «Molto è dipeso dalla pandemia – spiega El-Erian – Se fermiamo l'economia globale, lo chiamano arresto improvviso, in ogni modo quando tutto si ferma, non basta riaccenderlo. Quando provi a far ripartire l'economia globale, ti accorgi che le navi sono nel posto sbagliato, i container sono nel posto sbagliato. Ci vuole tempo per riordinare l'economia globale».
  • La sta cambiando, ma in un modo che crea inflazione
    E poi «anche la globalizzazione sta cambiando. Quindi, quando metti insieme tutte queste cose, ne concludi che il lato dell'offerta è diventato meno reattivo, più vincolante e che la crescita ora si gioca sull'inflazione. È quello che stiamo vedendo. Anche perché due forze più profonde sono entrate in gioco. Una è la frammentazione geopolitica e ha a che fare con le tensioni, in particolare con le tensioni tra Cina e Usa. Per ragioni di sicurezza nazionale, aumentiamo la resilienza delle nostre catene di approvvigionamento. E l'Inflation Reduction Act è un perfetto esempio del modo in cui i governi vengono coinvolti per incoraggiare ciò che è de facto il friend-shoring, cioè il rilocalizzare alcune fasi della produzione in paesi amici, che condividono il sistema di valori – o di interessi – e l'allineamento geopolitico del paese di riferimento».
  • Il ruolo della Cina sta radicalmente cambiando
    D'altronde quando hai giurisdizioni che si comportano in modi che interrompono le tue catene di approvvigionamento, com'è accaduto ripetutamente in Cina con la politica dello zero Covid, inizi a pensare alla resilienza molto più seriamente. Non è una questione geopolitica, è semplicemente una faccenda di gestione prudente. Durante e dopo la pandemia abbiamo visto aziende cercare di diversificare le loro catene di approvvigionamento. Ora, non si possono diversificare le catene di approvvigionamento dall'oggi al domani. Questo è qualcosa che richiede molto tempo e che è intrinsecamente inflazionistico. C'è poi un altro importante riorientamento: l'energia. E la transizione energetica è anch'essa intrinsecamente inflazionistica. E questo è qualcosa che va oltre la pandemia: è la realtà di un'economia che viene ricablata per una migliore resilienza e per via del cambiamento climatico. E poi c'è da considerare il nuovo ruolo della Cina. I cinesi hanno avuto un tale successo con il loro modello di crescita che adesso quel modello, avviato essenzialmente per terziarizzare le grandi aziende occidentali, non è più adatto allo scopo. Il modello di crescita della Cina era lo stesso che abbiamo visto in altri paesi come Singapore e Corea del Sud. Fondamentalmente Pechino ha sfruttato l'economia globale per raggiungere obiettivi nazionali. Ma la Cina è molto più grande, opera su scale gigantesche. E più la Cina sale nella scala dello sviluppo, più il Paese cresce e si emancipa rispetto all'economia globale. La Cina adesso ha imparato a giocare in proprio, e non opera più solo per conto terzi. E poi c'è un altro problema associato all'ingresso della Cina nel sistema globale. Noi siamo convinti che, man mano che s'ingrandisce, la Cina tenda ad assumersi responsabilità globali. I cinesi invece sanno che sono ancora lontani dall'essere tra i primi 10, o i primi 20 in termini di Pil pro capite. E non la pensano come noi in termini di responsabilità globali. Per cui fanno come più gli conviene e noi occidentali, spesso, perdiamo la pazienza e smettiamo di rivolgerci al terziario cinese per rivolgerci altrove o nazionalizzare le catene di approvvigionamento. Il che, però, come abbiamo detto, è inflazionistico, perché vuol semplicemente dire che è costoso.
  • È finita l'era dei tassi zero o sottozero e dei soldi facili
    La pandemia e l'inflazione hanno accelerato l'uscita dall'era dei tassi zero, o sottozero e dei soldi facili. Tuttavia si tratta di un passaggio doloroso, difficile. «Le banche centrali – spiega El-Erian – hanno fatto quello che farebbe qualsiasi dottore, hanno fornito antidolorifici. Hanno introdotto quello che viene chiamato QE, o quantitative easing. Ovvero un lungo periodo di straordinaria, che ha consentito eccezionali iniezioni di liquidità nell'economia e il mantenimento per un lungo periodo di tempo di tassi di interesse molto bassi. Così facendo speravano di spingere verso l'alto i prezzi delle attività finanziarie facendoci sentire più ricchi. Hanno voluto innescare quello che gli economisti chiamano l'effetto ricchezza: farci sentire più ricchi e quindi farci spendere di più. Man mano che spendiamo di più, le aziende investono di più. E così la crescita viene stimolata sia dai maggiori consumi, sia dagli alti investimenti. Questo è quello che avrebbe dovuto succedere in teoria».
    Nella realtà invece il canale delle attività finanziarie ha fatto un ottimo lavoro nell'aumentare i prezzi delle stesse attività. Abbiamo avuto questo periodo incredibile in cui il prezzo di ogni asset è salito. Non importava se era un asset rischioso o se era un asset privo di rischio. Tutto è salito perché le banche centrali stavano aumentando la liquidità in modo così ampio da incoraggiare tutti ad assumere più leva finanziaria e più debito. Insomma, i prezzi della finanza crescevano, dando l'impressione che crescesse con loro anche la nostra ricchezza. E invece, come nota El-Erian, «il flusso verso l'economia reale si è rivelato molto debole». Per cui i mercati hanno visto le banche centrali come i loro migliori amici, un amico che, ogni volta che c'era qualche turbolenza, immetteva liquidità e comprava di più. Il problema però si riproponeva ogni volta che le banche centrali iniziavano a introdurre un processo di normalizzazione, riducendo gli acquisti e annunciando la fine dei tassi ultrabassi. «Ci sono stati esempi di ciò: il taper tantrum del 2013 – dice El-Erian – oppure quando il presidente Bernanke annunciò che avrebbe interrotto il QE, e i mercati lo costrinsero a invertire la rotta sei settimane dopo. E il quarto trimestre del 2018, quando il presidente Powell ha provato la stessa cosa, e poi ha dovuto intraprendere un'inversione di marcia molto imbarazzante perché i mercati senza la benzina della liquidità a basso costo impazzivano». Quindi i mercati hanno finito per essere sempre più condizionati dal fatto di avere sempre le spalle coperte dalla Fed, il che significa che ti assumi sempre più rischi, ti sposti verso classi di attività sempre più rischiose. E finisci per esagerare.
  • Dall'era del denaro facile a quella del denaro difficile il passo non è scontato
    Quindi la seconda cosa che è successa è che abbiamo iniziato a vedere un'allocazione errata delle risorse e ogni sorta di conseguenze indesiderate e di danni collaterali. E quando abbiamo “messo il turbo” a questo nuovo regime durante la pandemia, quando i governi e le banche centrali sono intervenuti, continuando forzatamente a fornire un supporto eccezionale, il sistema del “denaro facile” ha cominciato a scricchiolare. Se si combina questo con ciò di cui stavamo parlando prima – cioè i problemi di approvvigionamento – si finisce con un'inflazione elevata. È così che inizia l'era del “denaro difficile”. Nel momento in cui si ha un'inflazione elevata, non si può più continuare con il regime di politica monetaria accomodante che avevamo prima. Devi iniziare a “normalizzare” la politica monetaria. Ed è lì che siamo. Anche se non è facile cambiare un regime che si pensava sarebbe durato per sempre. Ed è per questo che il processo si è rivelato accidentato. Ecco perché stiamo assistendo a tanti, piccoli, piccolissimi incidenti finanziari. Ed è per questo che dobbiamo tenere d'occhio le conseguenze indesiderate di un cambio di regime che è inevitabile perché dobbiamo abbassare l'inflazione, ma che è anche imprevedibile, perché nel farlo indeboliamo l'economia reale, facciamo schizzare i mutui alle stelle, aumentiamo le diseguaglianze, il rischio. Non è facile passare dal denaro facile al denaro difficile. I mercati durante la transizione “fanno affidamento sull'azzardo morale, sull'idea che le autorità non avranno altra scelta che salvarli a un certo punto. E più rafforzi questa convinzione intervenendo ogni volta che c'è una certa volatilità del mercato, più difficile è uscire”. Basti pensare a quello che è successo nel Regno Unito con il nuovo governo di Liz Truss, la quale ha cercato di andare – per citare lo stesso premier – «troppo in fretta e troppo lontano» nel fornire tagli fiscali non finanziati. «E questo – spiega El-Erian – ha creato un grosso problema di mercato. La valuta è crollata. I costi di prestito sono aumentati. Il mercato dei mutui è stato interrotto. E il sistema pensionistico era sul punto – per usare la parola della Banca d'Inghilterra, la banca centrale – di crollare». Per uscirne fuori, di fatto, si è scelto di non uscire dal sistema del “denaro facile”, è intervenuta la Banca d'Inghilterra che ha ritirato fuori il QE dicendo: non preoccuparti, comprerò i titoli che gli altri non vogliono comprare. E così facendo, incoraggerò gli altri ad acquistarli. Ma poi la Banca d'Inghilterra ha fatto qualcosa di molto, molto diverso. Pochi giorni dopo, ha detto, guarda, questa è un'operazione temporanea. La smetto venerdì. E ti avverto che la fermerò venerdì. In questo modo, stava cercando di fare due cose: resistere a quello che viene chiamato dominio fiscale, a essere quello che c'è sempre quando i governi non fanno il loro lavoro. E in secondo luogo, voleva chiarire al mercato che il rischio morale non avrebbe funzionato questa volta. Sfortunatamente, altre banche centrali non lo hanno fatto. Ed è per questo che l'uscita dal QE si sta rivelando così problematica. Ecco perché ogni volta che il mercato sente il presidente Powell dire qualcosa che è anche leggermente accomodante, decolla, e viceversa se lo considera troppo ‘falco' si affossa”.
  • La transizione verso l'era del denaro difficile è anche un'epoca di mercati più fragili
    Nel momento della transizione dall'epoca del denaro facile a quella del denaro difficile scopriamo che i mercati finanziari sono molto più fragili, costantemente fragili o costantemente in crisi o quasi in crisi. Un esempio? «Chi avrebbe mai immaginato – osserva El-Erian – che il sistema pensionistico del Regno Unito potesse crollare? Oppure guarda le criptovalute. Guarda come abbiamo fatto emergere una classe di attività, siamo stati sovraccaricati dalla liquidità e scopriamo che anche gli elementi più basilari dell'assunzione di rischio non sono stati implementati. E questi sono piccoli fuochi. Ma il rischio qui è che questi piccoli fuochi comincino a diffondersi e comincino a diventare qualcosa di più grande. Quello che abbiamo visto dopo la crisi finanziaria è un mutamento e una migrazione del rischio. La crisi finanziaria ha riguardato in ultima analisi il sistema bancario e il sistema dei pagamenti e dei regolamenti. E questo è paralizzante. Abbiamo capito qual era il problema. Abbiamo applicato elevati requisiti patrimoniali. Abbiamo limitato il tipo di attività che le banche possono svolgere. E abbiamo sostanzialmente ridotto il rischio del sistema bancario. E ci siamo congratulati con noi stessi per averlo fatto. Ma non abbiamo prestato attenzione al fatto che il rischio non è semplicemente scomparso. È migrato. È migrato dalle banche alle non banche. E questi soggetti non bancari, come le criptovalute non essendo regolamentate, hanno avuto delle ricadute piuttosto limitate. Tuttavia mi chiedo – dice ancora El Erian – cosa accadrebbe se l'irresponsabile assunzione di rischi che vediamo nelle criptovalute si stesse verificando anche altrove perché incoraggiata da tassi d'interesse molto bassi, se fosse incoraggiata dall'idea che i mercati salgano solo perché le banche centrali hanno le spalle coperte e che le criptovalute fossero semplicemente il caso strutturalmente più fragile rispetto agli altri».

Vale la pena di riflettere su questi scenari, in continua evoluzione e non esattamente tranquillizzanti.
Alessandro Galiani

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