
Il Festival della fotografia etica di Lodi è stato sempre un buon momento per confrontarmi con la fotografia. E da quel bacino – il Festival si terrà dal 24 settembre al 23 ottobre – ho deciso di portare in evidenza qualche lavoro nel nostro Paese. Questo perché fondamentalmente vediamo sempre molti reportage fatti nel resto del mondo. Senza sminuire l’egregio lavoro fatto a livello internazionale credo che anche da noi ci siano tante belle storie, curiose, emozionanti, interessanti e particolari che aspettano solo di essere raccontate.

Ho scelto il lavoro di Erika Pezzoli, giovane fotografa nata nel ‘95 e laureata in fotografia allo IED. Il suo lavoro Artemis racconta di una ragazza, Carola che fa parte del due per cento delle cacciatrici donne in Valle d’Aosta e che ha scelto di consumare quasi unicamente la carne degli animali che caccia. La storia guarda alla caccia da un altro punto di vista ma quello che mi aveva colpito e mi colpisce, oltre alla storia che è un’ottima intuizione, è l’eleganza con cui Erika, entrando in punta di piedi, ha fotografato la protagonista e i momenti salienti. La gestione delle immagini restituisce poi un grande rispetto e dignità al suo soggetto. Le riprese in interno restituiscono una luce naturale e incantevole che ci aiuta a conoscere il personaggio. Gli esterni raccontano la simbiosi di Carola con la sua natura. Ecco trovo questo lavoro una chicca emozionante e da osservare a lungo.
Sul tuo sito la frase di presentazione è “mi occupo di raccontare storie attraverso la fotografia”. Puoi spiegarcela?
Ho iniziato a fare fotografie da molto giovane, andavo ancora alle superiori, e mi sono accorta velocemente che potevo usare la fotografia come linguaggio per esprimermi. In università ho iniziato ad approfondire il rapporto con questo mezzo, cominciando un percorso di ricerca artistica, lavorando su me stessa. Sono partita dal presupposto che se non conosco me stessa diventa complesso raccontare gli altri. Durante il corso di reportage mi sono ritrovata ad essere obbligata a raccontare le “storie degli altri” e me ne sono innamorata subito.
Sono una persona molto curiosa, adoro ascoltare aneddoti, confrontarmi, penso che siano tutte pratiche arricchenti. Questo mi è sembrato il modo più naturale di chiudere il cerchio, unendo la mia curiosità alla scelta del linguaggio fotografico.
La fotografia che fai, rappresenta te stessa e questo penso si possa percepire confrontando i tuoi lavori vecchi e nuovi. Ho notato che spesso lavori con le donne e volevo domandarti se questo ha un significato preciso oppure è una casualità.
Non ho una preferenza per temi femminili rispetto ad altri. Normalmente empatizzo molto con le storie che racconto, è possibile che semplicemente alcuni temi mi siano più vicini di altri e quindi li colga con maggior chiarezza.
Sono le storie che ti catturano oppure le storie ti arrivano attraverso la ricerca, da altre persone, o per sentito dire?
Come dicevo, sono una persona molto curiosa, di conseguenza mi ritrovo spesso ad avere le “antenne alzate”, spesso le storie nascono proprio così. Carola ad esempio l’ho conosciuta con il mio lavoro precedente, Fuoriluogo, lavoro durante il quale ho fotografato ragazze nate negli anni ’90 in tutta Italia. Lei è una delle ragazze che ho ritratto e davanti ad un panino, chiacchierando, mi ha raccontato del suo mondo della caccia. Ci ho messo un po’ a inquadrare l’approccio che mi sembrava più corretto per raccontare questa storia, soprattutto dovendo conciliare un tema così potenzialmente controverso come la caccia, con questa ragazza minuta, dolcissima. In linea di massima comunque ci sono tematiche che sento più vicine, e abbattere gli stereotipi è un tema che mi sta a cuore. Quindi per rispondere alla domanda le storie nascono così, da incontri, da conoscenze, da chiacchiere, da dialoghi, dai rapporti che si creano, da scambi di opinione. Tutto questo può portare ad entrare nelle situazioni con la macchina fotografica in mano.

Come si passa da un ruolo di ascoltatore a un ruolo di fotografo. Cioè cosa succede quando introduci un mezzo fotografico nel rapporto col tuo soggetto?
Tendo ad introdurre la macchina fotografica un po’ alla volta, consideriamo che ho di fronte un’altra persona che probabilmente non è abituata ad essere fotografata. Così inizio chiacchierando. Probabilmente per me non esiste un confine fra il chiacchierare e lo scattare, parlare è un modo fondamentale per comprendere la persona che ho davanti. La macchina fotografica poi è sempre presente, al punto che probabilmente risulta strano, per le persone con cui lavoro, vedermi senza. Di norma non interrompo mai la persona con cui sto lavorando, la lascio fare, la seguo, faccio domande, racconto di me, si crea un rapporto di scambio meraviglioso. Per me è come se il cervello andasse in parallelo facendo contemporaneamente le due cose: parlare e fotografare.
Questo tuo entrare in punta di piedi in un argomento complesso e complicato come la caccia mi hanno fatto scegliere di parlare con te per il tuo lavoro Artemis. Chi è Carola e qual è la tua impressione sul suo stare in un mondo prettamente maschile?
Carola è una cacciatrice di terza generazione, come suo nonno paterno e suo padre, è cresciuta in un contesto in cui la caccia è parte delle attività stagionali. Lei ha sempre visto molto di più nella caccia, percependola come un’attività di comunione con la natura, specie se consideriamo che la carne dei capi abbattuti durante la stagione di caccia è sempre stata consumata dalla sua famiglia. Per andare a caccia inoltre è necessaria una profonda conoscenza del territorio, conoscenza che in parte si tramanda di padre in figlio. Conoscere le abitudini degli animali coinvolti durante la stagione venatoria è altrettanto importante, motivo per cui vengono monitorati dai cacciatori durante tutto l’anno, con attività di osservazione. A lei interessa poco essere una ragazza in questo contesto, le interessa fare la sua parte nel mondo della natura di cui ha un enorme rispetto. E per quanto io abbia vissuto molto in montagna, di fronte a lei, mi sento sempre una turista.
Quanto tempo hai passato con lei? Dalle tue foto appaiono sicuramente spazi momenti e tempi differenti, dove c’è il dentro il fuori il giorno la notte e probabilmente anche le diverse stagioni.
Quando sono progetti personali mi piace prendermi i miei tempi per poter conoscere il più approfonditamente possibile la storia e il soggetto di cui sto raccontando. Il lavoro di Carola è un lavoro di circa un anno, dalla Pianura Padana alla Valle d’Aosta è un bel tragitto, anche se è sufficientemente breve per fare avanti e indietro all’occorrenza e all’occasione. La sua collaborazione, la sua precisione nell’avvisarmi quando stava per succedere qualcosa di rilevante per la storia è stata la chiave per poter lavorare in questo modo.
Siamo alla fine Erika, vorrei concludere chiedendoti cosa vuoi fare da grande, e cioè se hai un sogno nel cassetto che ti piacerebbe realizzare sempre nel campo della fotografia.
Il mio sogno più grande penso che sia poter dare il mio contributo con qualcosa di inedito in questa grande narrazione globale. Lasciare il mio sassolino in qualche modo.
Francesco Lorusso
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