
Rita Charbonnier è un'artista a tutto tondo: studia musica – per la quale dimostra una particolare propensione sin dalla più tenera età – e dopo il liceo frequenta, a Siracusa, la scuola per attori dell'Istituto Nazionale del Dramma Antico; diventa quindi attrice e cantante teatrale, lavora accanto a prestigiosi nomi – debutta con Lucia Poli – ed è diretta da registi di notevole fama tra cui Antonio Calenda, Aldo Trionfo e Tonino Conte. Dotata di uno spirito eclettico e creativo, ben presto sente l'esigenza di mettere nero su bianco le sue riflessioni. Iniziano quindi a prendere forma i primi progetti di scrittura: collabora come giornalista a riviste dedicate allo spettacolo e proprio nel suo primo articolo, del 1996, affronta e si interroga su quella che sarà poi la tematica principale del suo romanzo d'esordio, ossia la difficoltà delle donne nel riuscire ad esprimere se stesse e ad emergere come musiciste, drammaturghe, registe. Scrive sceneggiature per la televisione e conduce o partecipa ad alcuni programmi.
Il suo primo romanzo storico, La Sorella di Mozart, edito da Piemme nel 2006, vedrà infatti la luce dieci anni proprio dopo la pubblicazione di quell'articolo, segno evidente di un nucleo tematico metabolizzato per tanti anni ed ormai giunto a compimento. Nel romanzo, tradotto ed uscito in dodici paesi, si racconta la poco conosciuta storia di Nannerl Mozart, bambina dal talento musicale prodigioso che verrà oscurato e messo a tacere dalla sua famiglia per favorire quello del fratello minore, Wolfgang Amadeus. Alla splendida ricostruzione di un'Europa settecentesca si accosta il dramma interiore di questa donna talentuosa che lotta per riuscire a realizzarsi e ad esprimersi. Il secondo romanzo, sempre edito da Piemme nel 2009, racconta invece uno strano incontro, quello tra lo scrittore Alexandre Dumas e un'astrologa, Maria Stella, la quale gli svelerà la storia delle proprie origini con la speranza che diventi materiale del prossimo romanzo dello scrittore francese, così che il mondo possa venire finalmente a conoscenza di una sconvolgente verità ; tratto da una leggenda romagnola, ancora molto viva e sentita dagli abitanti del luogo in cui nasce – Modigliana – nella ricostruzione di Rita Charbonnier, oltre l'accurata descrizione di una vicenda mantenuta viva grazie all'uso sapiente di una scrittura in cui si mescola un doppio registro linguistico, La Strana Giornata di Alexandre Dumas diventa la parabola di una donna che attraverso una ricerca e difesa estenuante delle proprie vere radici, cercherà di conoscere ed affermare se stessa.
Infine, nel 2011, ancora Piemme pubblica il suo ultimo lavoro, Le Due Vite di Elsa, che verrà così a costituire e chiudere una sorta di trilogia storica. Protagonista è ancora una volta una donna, emotivamente fragile, dall'aspetto goffo, afflitta da una balbuzie che la rende motivo di imbarazzo per la sua famiglia altolocata in una Roma elegante e raffinata ai tempi del Fascismo; l'elemento storico qui è rappresentato dalla figura di Anita Garibaldi, di cui Elsa crederà di essere la reincarnazione e tramite la quale riuscirà infine a trovare la forza per uscire dal suo isolamento emotivo e per realizzarsi, anche ricomponendo i legami con la propria famiglia. Anche qui, all'accurata descrizione del periodo storico, si accosta una prosa intimista e delicata, attenta a trasferire sulla pagina quei mutamenti dell'animo, dubbi, pensieri e riflessioni che ogni lettore, per quanto distante possa essere dal personaggio, non esiterà a riconoscere come propri. Potere della buona scrittura.
Mentinfuga ha il piacere di rivolgere a Rita Charbonnier qualche domanda proprio su questo tema costante – ricorrente, come abbiamo visto, in tutti e tre i romanzi – della difficoltà che spesso le donne devono affrontare per riuscire non solo a realizzarsi professionalmente, ma anche soltanto per esprimersi nel pieno delle loro potenzialità di persone che cercano un proprio posto nel mondo o che, solamente, cercano di conoscere ed accettare se stesse.
Rita Charbonnier. Foto di Tony Zecchinelli
Al centro della Sua trilogia di romanzi storici c'è sempre un personaggio femminile incapace di esprimersi pienamente e di dialogare con il nucleo più profondo del sé che dovrà duramente lottare per poter intraprendere ed infine portare a compimento il cammino verso la propria realizzazione. Quanto ha influito nell'ideazione di questi personaggi l'evidenza storica di tutti gli ostacoli, i pregiudizi, le convenzioni sociali e della mancanza di determinati diritti che ponevano la donna del passato in una condizione subalterna rispetto all'uomo e quanto invece, questa sorta di “blocco emotivo” potrebbe configurarsi come paradigma della difficoltà di capire chi siamo e di riuscire a realizzarci tout court?
Rita Charbonnier – Entrambe le cose. Ho sempre sperato che fosse possibile, leggendo le mie storie, non fermarsi alle questioni di genere e agli aspetti conflittuali che inevitabilmente esse portano con sé, ma trovarvi, nel profondo, qualcosa in più. La prospettiva femminista, peraltro, è esplicitamente presente solo nel mio primo romanzo, che è incentrato sulla questione del talento “imprigionato in un corpo di donna”, per dirla con Virginia Woolf; ma anche in questo caso, desideravo che il nucleo tematico riguardasse piuttosto le difficoltà che il talento incontra nell'esprimersi, qualunque sia il genere e l'orientamento sessuale del corpo in cui risiede, e di qualunque tipo di talento si tratti. Per Nannerl, la sorella di Mozart, il problema non è solo essere donna e musicista; è anche il suo essere nata in una famiglia strutturata in un certo modo, le cui priorità cozzano con i suoi desideri; e il suo essere oppressa da un censore interno, che la castra peggio di quanto potrebbero mai fare padre e fratello messi insieme. Credo che venire a patti con il proprio giudice interiore (che, naturalmente, è il riflesso di quelli incontrati nella realtà oggettiva, ma è tanto più potente) sia una faticosa necessità per chiunque desideri esprimersi in qualunque forma creativa.
Sempre restando in tema di realizzazione, personale e professionale – e credo che, soprattutto per un artista, uomo o donna che sia, i due aspetti non siano affatto disgiunti – mi ha colpito moltissimo la riflessione ne La Sorella di Mozart, che poi ritorna anche ne La Strana Giornata di Alexandre Dumas, secondo cui la realtà dei fatti si rivela sempre diversa rispetto alle nostre aspettative, ma questo non significa che, sebbene attraverso giri tortuosi che mai avremmo saputo immaginare, non le abbia soddisfatte comunque; Lei crede che, in qualche maniera sotterranea ed inconscia, ognuno di noi lavori incessantemente per realizzare i propri sogni, anche senza esserne pienamente consapevole e che, in questo senso quindi, la realizzazione del proprio destino sia nelle mani del singolo più di quanto si tenda comunemente a pensare?
Rita Charbonnier – Sono senz'altro convinta che noi soli abbiamo il potere di realizzare i nostri desideri; nessun altro può farlo. Ma che lavoriamo inconsapevolmente e senza sosta per realizzarli, in tutta franchezza lo credo un po' meno. Mi sembra che sia più comune l'opposto: lavorarsi contro senza accorgersene, arrivando a raccontarsi una versione di comodo della realtà (anche se, in effetti, molto scomoda) che giustifichi razionalmente la “non raggiungibilità” dei propri desideri più intensi. E così pian piano ci ritroviamo a ripetere a noi stessi che il nostro antico (infantile?) sogno è un sogno impossibile; ci guardiamo intorno, osserviamo coloro che, al contrario, l'hanno realizzato e li sminuiamo, pensiamo magari che si sono giovati di una qualche scorciatoia che a noi è stata negata… perché noi no, i compromessi non li accettiamo, noi siamo duri e puri! È un esempio che ho incontrato spesso e che in qualche modo riguarda anche me; quel che mi preme dire, in ogni modo, è che la mente è abile, sfugge e reinventa ogni cosa, e che l'unica nostra possibilità è tentare, coraggiosamente e per quanto possibile, di comprenderne i meccanismi.
In tutti e tre i romanzi lo stato ontologico del reale sembra essere talvolta sostituito dalla percezione cangiante e mutevole che i nostri sensi hanno di esso; quanto più questi personaggi femminili sono incapaci di esprimersi, tanto più la realtà che li circonda perde profondità ed aderenza, quasi l'interno venisse a coincidere con l'esterno; quanto questi passaggi, anziché esprimere un momentaneo disagio psichico, sono in realtà il sintomo di una precisa – se non certa, quantomeno speranzosa – concezione del mondo secondo cui molto di ciò che ci accade e sperimentiamo nel mondo dipende dunque da una precisa disposizione d'animo verso il mondo stesso?
Rita Charbonnier – C'è un'immagine ne La strana giornata di Alexandre Dumas che mi appartiene profondamente: d'un tratto la protagonista paragona il proprio sguardo sul mondo a quello di una macchina fotografica, che della realtà non può che restituire un punto di vista. Quando ero bambina, immaginavo di avere nella testa una telecamera e pensavo che la realtà fosse ciò che io riuscivo a cogliere attraverso di essa, nient'altro; e che per ogni essere vivente valesse lo stesso discorso. Anni dopo, quando iniziai a fare teatro, mi ricordo impegnata a tarda notte in una discussione su questi argomenti con un anziano attore, il quale mi accusò di fare dei “pirandellismi di provincia”… ma mi è rimasta comunque molto cara l'idea che la realtà non sia che una nostra percezione; che quel che accade fuori di noi sia in buona parte il riflesso di quel che abbiamo dentro, se non altro nella sua valenza, nei suoi significati. Lo stesso evento può essere vissuto in modi assai diversi, secondo la disposizione d'animo che abbiamo in quel momento della vita; ancora una volta, la consapevolezza di sé è l'obiettivo da perseguire per assorbire meglio i colpi e vivere pienamente le gioie. Riguardo al disagio psichico, è un fatto che tutte e tre le mie protagoniste hanno qualche problema: Nannerl mette in atto una clamorosa rimozione, Maria Stella vede gli oggetti scomporsi e le luci intensificarsi, Elsa finisce in manicomio; un mio amico me l'ha fatto notare, di recente, guardandomi con una certa preoccupazione…
Entrambe le protagoniste femminili de Le Due Vite di Elsa e de La Strana Giornata di Alexandre Dumas si mettono alla ricerca delle proprie radici – la prima immaginando di essere la reincarnazione di un grande personaggio storico, quello di Anita Garibaldi, dal cui coraggio e forza saprà trarre la giusta ispirazione, la seconda, sospettando sin da bambina che i suoi genitori naturali siano altri – convinte che la scoperta delle proprie origini possano aiutarle a comprendere meglio chi siano nel profondo; secondo Lei, è importante questa consapevolezza delle proprie radici o non è forse una trappola che pre-definisce e contribuisce maggiormente ad imbrigliare le nostre potenzialità impedendo il realizzarsi di una propria autonomia identitaria?
Rita Charbonnier – I due personaggi hanno in comune il non sentirsi parte della famiglia nella quale, per così dire, si sono ritrovate a crescere. Di conseguenza cercano la loro “vera” famiglia (in un caso quella biologica, nell'altro quella ideale). Mi sembra che non sia per nulla infrequente la sensazione di avere attorno una famiglia “sbagliata”; la favola del brutto anatroccolo (notevole l'analisi che ne fa Clarissa Pinkola Estés in Donne che corrono coi lupi) esprime proprio questo archetipo. Di recente mi è capitato di leggere una vecchia intervista con Bob Dylan, che alla richiesta di spiegare perché avesse cambiato cognome (si chiamava Zimmerman) rispondeva: “Sai, a volte nasci col nome sbagliato, coi genitori sbagliati. Insomma, capita. E allora ti chiami come ti vuoi chiamare”. Quindi per Elsa e Maria Stella, le due protagoniste, non è tanto una ricerca delle proprie radici, quanto una ricerca delle proprie “vere” radici, cioè di sé. Entrambe, in seguito, si riaccostano alla famiglia che le ha allevate, ma allora si sentono più forti e riescono a mantenere un distacco interiore che le preserva. Poiché forse non era tanto sbagliata la famiglia, quanto le aspettative che su quella famiglia avevano entrambe; ci sono cose che un'anatra non può fare.
“Quante possibilità inesplorate, quante alternative inespresse – una vita non basta a vedere tutto, conoscere tutto, comprendere tutti” con queste parole la protagonista de Le Due Vite di Elsa esprime ad un certo punto il proprio rammarico per avere un'esistenza potenzialmente illimitata, ma che poi di fatto si riduce a dover essere compresa entro alcune scelte che vanno ad escludere, per forza di cose, tante altre; quanto questa urgenza di voler vivere altre vite – e se è percepita davvero come urgenza – è legata alla Sua precedente attività di attrice teatrale e cantante e a quella attuale di scrittrice di romanzi e quanto può dirsi da entrambe soddisfatta in questo senso?
Rita Charbonnier – La frase che lei cita è in effetti legata, anzi legatissima, alla mia esperienza teatrale. Anni fa, durante una tournée “scavalcamontagne” (quelle in cui si battono perlopiù minuscoli paesi, un giorno qui e uno là) mi ritrovai a scrivere una pagina proprio attorno all'idea che la vita personale dell'attore si arricchisce della sua possibilità di interpretarne molte altre, e quindi conoscerle dall'interno: in qualche modo, viverle. Scrivere di quelle stesse vite non è la stessa cosa. Il romanziere può calarsi, anzi deve calarsi, nei panni dei propri personaggi, le cui biografie, i precedenti, anche quelli che alla fine non troveranno posto nelle pagine, le motivazioni profonde, i pensieri inconfessabili, i vizi, i tic conosce a menadito, visto che li ha inventati lui; li conosce forse più profondamente di un attore che si limita a farli propri e darne un'interpretazione. Ma nel caso dello scrittore tutto rimane a un livello puramente teorico, e questo fa una bella differenza. L'attore, invece, diventa il personaggio con il proprio corpo; modifica il proprio corpo (il modo di camminare, di parlare e gestire, gli abiti, i capelli, il colorito, quando addirittura non ingrassa o dimagrisce o va appositamente in palestra) in funzione del personaggio che interpreta; e agisce, parla, si arrabbia e ride davanti ad altre persone che lo sostengono nella sua interpretazione (i colleghi sulla scena) o vi credono (il pubblico in sala). Lui, nel personaggio, si trasforma fisicamente. Lo scrittore, il personaggio, lo pensa. Profondissimamente, ma lo pensa e basta. Si tratta quindi di due modi molto diversi di mettersi in contatto con l'umanità propria e altrui.
In tutti e tre i romanzi si percepisce questo Suo grande amore per la musica ed il teatro, talento e passioni che confluiscono a pieno a ritmo anche nella Sua scrittura: attraverso quali tra queste diverse attività artistiche sente di esprimersi maggiormente e di riuscire ad essere pienamente se stessa?
Rita Charbonnier – Fino a non molto tempo fa avrei risposto con sicurezza: la scrittura. Ma adesso non lo so più; sto cercando strade nuove, anche nell'ambito del romanzo. Se avrò coraggio e fiducia, potrei tentare qualcosa di ancora diverso, magari una sintesi di tutto questo… chissà. La linea di ricerca, in alcune fasi, è avvolta nell'incertezza. E le fasi nelle quali tutto può succedere sono, naturalmente, le più creative.
Mentinfuga ringrazia Rita Charbonnier, augurandole di poter continuare ad esprimere la sua creatività sempre così pienamente e con tali risultati.
Rita Ciatti
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