
Con È stata la mano di Dio, Paolo Sorrentino torna in nomination per il premio più prestigioso dedicato all'ottava Musa. Sarebbe davvero un gran colpo ricevere un secondo Oscar per miglior film in lingua straniera sia per la carriera del geniale regista che per l'onore e la soddisfazione del Bel Paese.
Il pubblico che segue Sorrentino e che lo apprezza da tempo riconosce nella recente pellicola tutti gli elementi della sua cifra artistica, soprattutto la sua straordinaria capacità di tirare fuori il meglio da ogni attrice e da ogni attore. I suoi personaggi aderiscono come una seconda pelle agli interpreti e questi ultimi, famosi e capacissimi, oppure esordienti e poco conosciuti, riescono a rendere una recitazione perfetta che fa apparire autentico il personaggio, anche quello più improbabile, come la “consuocera” divoratrice di mozzarelle grondanti e tutta la carovana di gente stramba che popola questo film, così come era successo, magari con un pizzico di estrosità maggiore, ne La grande bellezza.
Occorre riconoscere che dopo quel capolavoro assoluto del regista napoletano, era difficile fare di meglio e probabilmente era difficile anche mantenere il livello. Le successive produzioni, infatti, lungi dall'essere deludenti, non avevano tuttavia raggiunto il podio delle nomination, occorreva quel qualcosa di radicalmente diverso, rintracciabile in questa ultima pellicola.
Proiettata prima nelle grandi sale e poi divulgata a tutto spiano sulla popolare piattaforma Netflix, È stata la mano di Dio è un film che emoziona e convince. Riesce a parlare a tutti analogamente al precedente film Oscar, propone un simbolismo superlativo e raffinato, in grado di frazionarsi, come attraverso un prisma, in messaggi differenziati che rivelano contenuti percepibili in funzione delle diverse sensibilità degli spettatori.
Nella narrazione, ricca di elementi eterogenei, spetta al pubblico ritrovare quella “via di uscita”, reclamata da Calvino nella introduzione delle Città invisibili, che consente di rintracciare un senso nella trama, per quanto complessa.
Lungi dall'immaginare in questo articolo di fornire una chiave di interpretazione univoca ed esaustiva, viene qui proposto un possibile percorso che inevitabilmente transita attraverso la storia personale del regista.
Come egli stesso ha dichiarato, il nucleo narrativo risiede nella scomparsa contemporanea dei genitori durante la sua adolescenza. Lo stato di orfano, verso il quale è repentinamente proiettato da una sciagura a cui egli stesso sopravvive per l'intervento di dio Maradona, rappresenta il motore dell'opera mentre la sofferenza che ne deriva funge da carburante. Si tratta di un sistema di propulsione talmente potente che l'autore ha dovuto aspettare i 50 anni per essere certo di possedere la forza e di essersi collocato a riparo nella giusta distanza emotiva dagli eventi, prima di poter raccontare quello che era accaduto.

Foto Gianni Fiorito
Tanti gli anni che sono dovuti passare prima di rimestare quella terribile perdita da cui tutto era partito. La materia ancora viva e pulsante di quel lutto ha dovuto tuttavia essere miscelata con i dolori di altre perdite, condivise con l'intero popolo di Napoli. Forse da questa necessità, e non soltanto dalla casuale collocazione sincronica dei fatti, è derivato il collegamento con Maradona, morto e subito risorto sugli altari urbani già edificati per lui. In questa ottica può intendersi anche la scelta della canzone di chiusura, Napul è di Pino Daniele, altro figlio recentemente perduto della città, fratello della generazione dei 50/60enni attuali, cresciuti con lui e con le sue note. Mamma (Teresa Saponangelo), papà (Toni Servillo), sempre nelle battute del film ricordati in quest'ordine – la mamma prima di ogni papà – e Maradona e Pino formano lo strazio unico della perdita di un'epoca felice, coincisa con gli anni '80 e con la giovinezza del regista. Forse con quell'epoca è stata smarrita la possibilità stessa di essere felice.
Quel dolore, a cui Capuano (Antonio Capuano) consiglia di aggrapparsi perché un ragazzetto qualsiasi che voglia fare il regista ha bisogno di qualcosa da raccontare, quel dolore da cui non ci si deve disunire, è troppo per Fabietto, diventato Fabio (Filippo Scotti), dopo la morte dei suoi e dopo la rivelazione di avere un'altra sorella, oltre quella che in volontario esilio perpetuo nel bagno di casa, figlia di una donna che non è sua madre e che a sua madre ha causato tanto pianto e disperazione.
E invece, almeno così appare, Fabio/Paolo da quel dolore primigenio che non è semplicemente solitudine ma abbandono, come rettifica ancora il Capuano, fugge e va a Roma, sotto i buoni auspici del monaciello, elemento folle e bizzarro che lo lega e rende simile alla bellissima zia (Luisa Ranieri), folle e bizzarra anch'essa. Quel monaciello quasi gli ricorda che un napoletano può sempre partire per Roma, e tanti ne sono partiti, ma poi deve necessariamente tornare.
In questa lettura arbitraria, La grande bellezza, è quasi la seconda parte della Mano, la nuova pellicola diventa un prequel e mentre la vita si sposta, come sempre inesorabilmente oltre, Paolo riesce finalmente a ripetere il viaggio a ritroso verso quella città e quella casa per girare il film che voleva Capuano.
Come in ogni opera autobiografica anche in questa riconosciamo i tratti essenziali della narrazione che ha per oggetto la propria vita: un enorme atto di coraggio e la necessità di un parziale infingimento che renda meno straziante il racconto della perdita.
Per il coraggio, per la maestria, per il talento visionario, per la bellezza di questo film, restiamo tutti in attesa per esplodere, come dopo un antico gol di Maradona, in un urlo di gioia collettiva.
Stefania Squillante
È stata la mano di Dio
data di uscita: 24 novembre 2021
paese: Italia
Direttore della Fotografia Daria D'Antonio
Assistente Regia Jacopo Bonvicini
Montaggio Cristiano Travaglioli
Suono Emanuele Cecere, Silvia Moraes,
Mirko Perri
Costumi Mariano Tufano
Scenografie Carmine Guarino
Produttori Esecutivi Elena Recchia, Gennaro Formisano,
Riccardo Neri
Prodotto da Lorenzo Mieli e Paolo Sorrentino
Una produzione The Apartment, società del gruppo Fremantle
cast artistico
Filippo Scotti Fabietto Schisa
Toni Servillo Saverio Schisa
Teresa Saponangelo Maria Schisa
Marlon Joubert Marchino Schisa
Luisa Ranieri Patrizia
Renato Carpentieri Alfredo
Massimiliano Gallo Franco
Betti Pedrazzi Baronessa Focale
Biagio Manna Armando
Ciro Capano Capuano
Enzo Decaro San Gennaro
Lino Musella Mariettiello
Sofya Gershevich Yulia
Dora Romano Signora Gentile
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