
Mentre si iniziano a contare i danni sull’economia per effetto delle restrizioni dovute alla diffusione del Coronavirus, arrivano i dati dall’Istat sulla produzione industriale in Italia del 2019. Il calo stimato è dell’1,3% e non accadeva dal 2014. Insomma il futuro è carico di nubi se non si interverrà in maniera seria e non sarà evidentemente il mercato a risollevare le sorti, o ad evitare ulteriori tonfi, dell’economia italiana nel 2020.
L’Istat tra l’altro segnala che “in Italia, nel quarto trimestre 2019, il PIL ha segnato una flessione congiunturale. La crescita media per il 2019 si attesta allo 0,2 per cento”.
Nel 2019 il calo della produzione è stato registrato a partire dal secondo semestre atterrando ad un -1,4% nell’ultimo. A farne le spese maggiori è stata l’industria dell’automobile che ha registrato una diminuzione, rispetto al 2018, del 13,9%, a cui seguono le industrie estrattive con un -10,4%, quelle della fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati che segnano un -9,3%) e poi quella della fabbricazione di macchinari e attrezzature con -7,7%.
I comparti con una tendenza positiva sono solo quelli della fabbricazione di computer, prodotti di elettronica e ottica (+5,3%), l’industria alimentare, bevande e tabacco (+2,9%).
Non aiuta nemmeno il fatto che le economie più importanti dell’Europa registrino stime simili o peggiori come nel caso della produzione industriale in Francia con un calo del 3% tra dicembre 2019 e dicembre 2018 o della Germania che vede un -6,8% rispetto a dicembre 2018. E non aiuterà nemmeno, se non ci sarà un buon accordo, la Brexit.
Questi i dati che sono indicativi di un quadro a tinte scure,
Va detto che non bisogna considerare la produzione industriale né tantomeno il PIL un totem, visto che nessuno dei due sono indicatori seri delle condizioni socio-economiche di una nazione che sono l’obiettivo delle attività produttive. Non solo, ma in tempi di disastri ambientali bisogna fare riflessioni serie sulla crescita quantitativa senza sostenibilità di cui si parla molto, ma la cui applicazione e diffusione resta del tutto inadeguata. Basti pensare che sono 117 miliardi gli euro che «i diversi Stati europei stanno pensando di investire, tra fondi pubblici e privati, in nuove infrastrutture di gas fossile. Centrali elettrice a gas, terminali di importazione di gas naturale liquefatto e gasdotti aumenteranno del 30% la capacità di importazione di gas in Europa» [1].
Allora probabilmente in Europa e in Italia se si vuole dare una svolta bisognerà considerare che gli investimenti nelle varie versioni di “Green Deal” debbano essere di gran lunga superiori a quelle messe in campo per consentire da una parte l’accelerazione necessaria a bloccare un cambiamento climatico che rischia di essere irreversibile e dall’altra ad evitare che in questa trasformazione finiscano per subire conseguenze altrettanto disastrose quelle comunità che adesso sono completamente appiattite su produzioni dannose.
Le risorse ulteriori possono trovarsi tassando le multinazionali della finanza che continuano non pagare imposte come il lavoro e tassando tutte quelle multinazionali che risiedono nei paradisi fiscali o che eludono il fisco, come molte piattaforme del web, approfittando di sistemi fiscali troppo permissivi.
Tornando all’Italia e alle risorse necessarie ad una crescita sana, il professore ordinario di Politica Economica presso l’Università del Piemonte Orientale Guido Ortona ci spiega che gli investimenti possono essere fatti perché non è vero che «“ce lo impone l’Europa”: l’Italia ha un potere di ricatto enorme nei confronti dell’Europa, che non usa (a differenza per esempio della Germania e della Francia, e persino del Portogallo). E infine, non è vero che “i soldi non ci sono”. Faccio un esempio. Due miliardi non sono pochi, due miliardi in più di tasse possono creare molto malcontento – basti pensare al dibattito sulla cosiddetta plastic tax– mentre due miliardi spesi (per esempio) per consentire ai comuni interventi per la messa in sicurezza del territorio e degli edifici creerebbero consenso (oggi sono 300 milioni). Ora, 2 miliardi sono lo 0,45 per mille della ricchezza finanziaria (quindi escluse le case) degli italiani. Per capirci: perché una tassa sulla ricchezza finanziaria dia un gettito di 2 miliardi occorre che chi ha 100.000 di risparmi paghi un po’ meno di 4 euro al mese. Se poi escludessimo metà -sottolineo: metà- delle famiglie italiane, vale a dire quelle che hanno meno di 6000E di risparmi, per dare un gettito di due miliardi gli altri dovrebbero pagare lo 0,46 per mille invece dello 0,45, tanto la ricchezza è concentrata. Ma davvero c’è qualcuno che può pensare in buona fede che simili cifre farebbero impazzire i mercati finanziari e farebbero fuggire i risparmiatori all’estero? Naturalmente sarebbe meglio un’imposta con aliquote progressive, ma il punto fondamentale è che i soldi per rimediare almeno a qualcuna delle carenze del nostro paese e per creare quindi dei posti di lavoro ci sono» [2].
Ciro Ardiglione
[1] Emanuele Isonio, “Gli obiettivi climatici Ue minacciati da 117 miliardi di fondi per il gas fossile”, https://valori.it/gli-obiettivi-climatici-ue-minacciati-da-117-miliardi-di-fondi-per-il-gas-fossile/
[2] Guido Ortona, “L’ascesa della destra e le responsabilità degli economisti progressisti”, https://www.economiaepolitica.it/2020-anno-12-n-19-sem-1/lascesa-della-destra-e-le-responsabilita-degli-economisti-progressisti/, 27 Gennaio 2020
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