Conversando con Elisabetta Grande di USA, Italia, modelli giuridici, povertà e sistemi carcerari.

Elisabetta Grande
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– classe 1960 – insegna da molti anni nell'Università del Piemonte Orientale. È studiosa di diritto comparato ed è una delle giuriste italiane più competenti su quanto accade nel mondo statunitense. Si occupa principalmente della circolazione dei modelli giuridici ma è attenta anche alle questioni della e della discriminazione giuridica dei poveri, cui ha dedicato un importante volume dal titolo Guai ai poveri. La faccia triste dell'America [1], ammiccando suggestivamente – nel titolo – ad un altro celebre piemontese, Paolo Conte. Sullo stesso filone, aveva scritto qualche anno prima un altro libro, dal titolo Il terzo strike. La prigione in America [2], nel quale ha voluto mostrare – secondo le parole di Adriano Sofri nella nota di presentazione al testo – «come l'America abbia progressivamente abbandonato il principio della proporzionalità della pena al reato, della risocializzazione del condannato e della flessibilità della pena, in nome di una sua “certezza” sempre più vicina alla tentazione di estromettere definitivamente il detenuto dalla vita sociale, quando non a farne lo strumento di una speculazione d'affari».

Si occupa da tempo di diritto africano e di antropologia giuridica e – tra le molte pubblicazioni scientifiche – annovera sorprendentemente un film documentario, realizzato in , che affronta con originalità alcuni aspetti della in Africa. L'ho raggiuta a Torino, ritornata da poco da un viaggio negli USA, e lei ha accettato volentieri di conversare – a partire dalle questioni fondamentali della comparazione nel diritto – su alcuni dei temi che le sono più familiari.

  • La comparazione: contrasto o integrazione?

Sei una studiosa di diritto comparato. La comparazione – non solo nel diritto – è una cosa suggestiva ma sempre piena di trappole: quali ti sembrano le più pericolose?
Nella comparazione la questione fondamentale è capire davvero l'altro. È inevitabile che quando si osserva l'altro lo si guardi con i propri occhi, con le proprie lenti teoretiche. Da sempre il grande dibattito è quindi: ma quando noi compariamo siamo veramente in grado di raccontare l'altro o stiamo raccontando l'altro così come lo vediamo noi? Se così fosse, la comparazione sarebbe sostanzialmente inutile, perché racconteremmo un falso altro, ossia un altro che abbiamo costruito noi. Questo è un problema che riguarda ovviamente non soltanto i giuristi; nasce anzi fra gli antropologi. Era stato, infatti, un dibattito fra Max Gluckman e Paul Bohannan, due grandi antropologi dell'altro secolo, ad affrontare il tema. Gluckman, studiando i Baraotse del Nord della Rhodesia, aveva detto che, così come gli inglesi, anche i Baraotse utilizzavano il principio di ragionevolezza. Bohannan gli aveva fatto notare che si trattava di un'analisi del tutto autoreferenziale, poiché egli non faceva altro che trasporre presso altri una logica propria. “Siccome nel tuo mondo viene utilizzato il principio della reasonableness tu lo vedi applicato anche presso gli altri, ma si tratta di una costruzione tutta tua”: questo in soldoni il senso della sua critica. Ecco, questo dibattito si è più o meno sviluppato negli stessi termini tra i giuristi. Così Pierre Legrand, sulle medesime basi, ha sostenuto l'impossibilità della comparazione. Vivian Curran, invece, interiorizzando la critica, l'ha affrontata di petto offrendo una via per comparare con successo. La soluzione, sia fra gli antropologi che fra i giuristi, è stata infatti individuata nella capacità di entrare e vivere all'interno del mondo che tu vuoi osservare; così, Bronisław Malinowski ha parlato di participant observation. L'idea è partecipare ed osservare quello che accade; assorbito che sia il pensiero dell'altro, sei in grado di parlarne. La stessa cosa ci ha detto Vivian Curran, parlando di cultural immersion. Io credo che sia davvero questa la cifra della comparazione: devi entrare il più possibile nella mente dell'altro e una volta che sei entrato nella prospettiva altrui, ti riguardi. Guardarsi nello specchio dell'altro fin dall'inizio significa mettere in atto una comparazione per integrazione, non per contrasto. Credo, infatti, che la vera trappola per un comparatista consista nell'approccio che Edward Said chiamava di positional superiority: l'atteggiamento di arroganza, cioè, di chi pensa di essere meglio dell'altro. Quando adotti una comparazione per contrasto, tendi – anche se non era per esempio questo il caso di Max Gluckman – a vedere l'altro in negativo. Ciò capita normalmente a ciascuno di noi quando ci paragoniamo a un altro: rappresentarsi come migliori costituisce una sorta di difesa naturale per evitare di mettersi in discussione. La stessa cosa accade quando compari in ambito antropologico o giuridico. Ecco: io credo che questo sia veramente il pericolo. L'orientalismo – è il ragionamento di Said – mostra l'altro completamente distorto e in negativo, ciò che a sua volta crea occidentalismo. Il risultato è un allontanamento e uno “scontro di civiltà” fra popoli. Io credo che il comparatista debba invece sempre comparare per integrazione – secondo l'insegnamento del grande Rudolph Schlesinger. È come quando, viaggiando, si cerca di capire davvero che cosa sta succedendo nel luogo dove si è e come pensano le persone del posto che visitiamo. Al ritorno a casa, se veramente siamo stati capaci di una immersione culturale, con ogni probabilità ci metteremo in discussione. Troveremo allora dei punti di contatto con l'altro, che precedentemente non avevamo messo a fuoco. Si tratta a mio avviso di un percorso intellettuale necessario, soprattutto in questo periodo storico così conflittuale, in cui si assiste al declino – o all'inizio di un declino – dell'egemonia statunitense, anche nel diritto. Nel momento in cui noi avremo – speriamo non a seguito di carneficine drammatiche – un mondo multipolare, avremo bisogno di incontri e non di scontri di civiltà. In questo senso penso che una comparazione per integrazione possa davvero mettere tutti sullo stesso piano e mostrare come non sia vero che i valori occidentali sono necessariamente superiori rispetto a quelli non occidentali e come fra valori occidentali e non ci possano essere punti di contatto che non abbiamo mai esplorato, perché abbiamo sempre adottato una positional superiority. Per rispondere alla tua domanda con una frase, insomma: è la comparazione per contrasto la trappola per il comparatista, che va aggirata attraverso una comparazione per integrazione.

  • Declino dell'egemonia USA?

Da questo punto di vista, tu sei collocata in un punto di osservazione particolarmente necessario ed importante, dal quale indaghi il mondo degli d'America. Sosteneva Cesare Pavese che negli Stati Uniti accade in grande ciò che da noi si ripete in piccolo [3]… Questa lettura – che era certo frutto anche della passione di Pavese per l'America, della quale anche tante generazioni dopo di lui hanno subito l'innamoramento – andrebbe però costantemente verificata. Che cosa ci puoi dire oggi a proposito di questa fine dell'egemonia USA?
Possiamo vedere che cosa è stata questa egemonia e quanto – fino a questo momento – sia stata fortissima. Noi comparatisti ci occupiamo della circolazione dei modelli perché pensiamo che il diritto cambi non per innovazione originale, ma sostanzialmente per imitazione [4]. Tutte le Elisabetta Grande, Imitazione e diritto - copertina dell'edizione portoghesevolte che il diritto cambia, almeno nella grandissima parte dei casi, è perché si imita qualcun altro. Poi magari non lo si dice, ma di fatto è quello che succede. Secondo me è interessante capire perché a un certo punto è il modello americano quello che si espande e si diffonde. Si dice che si imita un modello perché esso è prestigioso; ma cosa significa per un modello essere prestigioso? Significa che proviene dal paese politicamente ed economicamente più forte o anche qualcos'altro? Nei miei studi ho cercato di individuare il significato di questo prestigio in una maniera un po' più specifica. Quando noi abbiamo visto diffondersi il modello americano nel mondo del diritto privato, sicuramente è stata una dottrina forte, non positivistica, che ne ha spinto la circolazione. Ma non è sempre stato così.
Per esempio, nel campo della procedura penale, se noi – come tanti altri – abbiamo subito la fascinazione del modello americano, è perché esso si è presentato come un modello più avanzato sotto il profilo della civiltà giuridica. La cosa interessante è che– in questo caso – (per fortuna, dal mio punto di vista) la diffusione è stata limitata. In , nell'89, abbiamo assistito all'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale. Gli studiosi all'epoca non avevano osservato appieno quel modello, ma si basavano proprio sull'immagine di maggior avanzamento dal punto di vista della civiltà giuridica che esso proponeva di sé, perché – si diceva – quello americano è un sistema non paternalistico, a differenza del nostro che era stato autorevolmente definito come un parental model, in contrasto con il modello at arm's lenght, caratteristico invece del sistema statunitense. Quest'ultimo sarebbe infatti caratterizzato da una scarsa ingerenza statale (at arm's lenght per l'appunto), in sintonia con i valori liberali perorati da John Locke. In esso l'imputato non subisce l'oppressione dello Stato – si dice – ma opera autonomamente le proprie scelte processuali. Può decidere di affrontare un processo senza giuria (c.d. bench trial); sceglie la sua strategia processuale senza interferenze da parte del giudice; può scegliere di difendersi da solo, eccetera. Lo Stato in quel sistema è terzo, non nel senso di imparziale ma nel senso di neutrale, mero arbitro di uno scontro fra due parti – teoricamente ad armi pari – da cui viene fuori la verità. C'è qualcuno che osserva lo scontro – la giuria – e qualcun altro – ossia il giudice – che semplicemente, nel momento in cui le due parti glielo chiedono, interviene facendo valere le regole del processo. Si tratta, dunque, di un sistema che sembra essere perfettamente coerente coi valori di libertà di stampo lockeiano, mentre il nostro si presentava come un sistema a forte ingerenza statale. Tutto ciò che avveniva nella fase delle indagini era completamente trasposto nel processo, cioè nel dibattimento, e il ruolo che in esso accusa e difesa rivestivano era sostanzialmente irrilevante: era il giudice ad esserne protagonista, non solo per via del suo potere di iniziativa probatoria, ma anche per esempio per la sua veste determinante nell'interrogatorio dei testi piuttosto che nell'esame dell'imputato.
L'idea di adottare il modello statunitense coincideva, dunque, con l'aspirazione ad implementare un processo di parti, in nome di una civilizzazione del nostro sistema che appariva troppo paternalista nei confronti dell'imputato. Ciò tuttavia non accade. Un po' perché al nostro giudice sono fin dall'inizio concessi poteri (ingerenze, direbbero coloro che ammirano il sistema at arm's lenght) che il giudice statunitense non ha; un po' perché tutta una serie di interventi giurisprudenziali, anche della Corte costituzionale, gli restituiscono un ampio potere di iniziativa probatoria che inizialmente aveva perso. Il modello processuale penale statunitense viene così rapidamente rigettato: nel nostro sistema la verità processuale non scaturisce, infatti, da uno scontro fra accusa e difesa, ma la ricerca della verità rimane demandata al giudice, che non ricopre e non ha mai ricoperto il ruolo di mero arbitro di una contesa. Ogni tanto, però, quel modello torna a far capolino. Così oggi, per esempio, stiamo in qualche misura cercando di recuperarlo attraverso il tentativo di separazione delle carriere. Se separiamo le carriere – si dice– finalmente rendiamo avversario il Pubblico ministero. Il che – conoscendo il sistema americano – è dal mio punto di vista preoccupantissimo. Al di là delle apparenze, quel sistema –che si presenta come “a controllo di parti” – è in realtà a controllo di una sola parte, quella più forte. In un processo a scontro di due parti – accusa e difesa – perché si possa immaginare di raggiungere la verità (sia pur solo processuale) occorre, infatti, che le stesse abbiano pari opportunità di lotta: la famosa parità delle armi. Fra la parte pubblica (che resta pubblica per quanto la si voglia costruire come sganciata dallo Stato) e la parte privata, la parità di armi, però, non ci potrà mai essere. La prima, anche nel sistema statunitense, ha per esempio a sua disposizione – nella fase cruciale delle indagini – una serie di mezzi di ricerca delle prove che sono esageratamente a suo favore e che non trovano – e non possono trovare – alcun riscontro presso la parte privata. Lo scontro a dibattimento fra avversari, al di là delle affermazioni, è così necessariamente impari e il prosecutor (ossia l'accusa) potrà essere messo in difficoltà solo da un imputato ricco, che possa avvantaggiarsi di investigatori privati e avvocati particolarmente esperti, e proprio per questo particolarmente cari. L'idea, insomma, che una parte privata possa effettivamente avere gli stessi poteri di una parte pubblica è davvero inattuabile. Non per niente negli Stati Uniti il patteggiamento (plea bargaining) raggiunge addirittura il 99% dei casi: questo la dice lunga intorno alla possibilità di trovare la verità in un sistema a (finto) “controllo di parti”.
In Italia siamo finora riusciti ad evitare le derive del sistema statunitense, perché siamo attrezzati di anticorpi dal punto di vista culturale. Il giudice, cui nel nostro sistema è sempre stata demandata la ricerca della verità, ha continuato a farlo, anche perché non abbiamo introdotto l'istituto della giuria, che negli Stati Uniti ha il compito di dichiarare l'innocenza o la colpevolezza dell'imputato. Un grande comparatista dei nostri tempi – Mirjam Damaška – ci ha insegnato che il diritto è come uno spartito di musica: lo spartito può essere sempre lo stesso, ma se i musicisti cambiano, anche la musica cambia. La stessa cosa vale per le circolazioni di modelli giuridici: il modello che circola, se recepito all'interno di un contesto culturale differente, potrà portare a un risultato diverso da quello inizialmente auspicato, perché i suoi attori lo interpreteranno e applicheranno secondo il proprio background culturale.

Elisabetta Grande, Guai ai poveri, La faccia triste dell'America - copertinaQuella di cui ho parlato è una chiara ipotesi di diffusione del modello statunitense (per il momento) non riuscita. Ci sono anche altri esempi di circolazioni mancate, laddove però le ragioni tanto dell'imitazione quanto della mancata recezione sono altre. L'esportazione del modello sanzionatorio penale statunitense della mass incarceration, ossia della carcerazione di massa, che da noi si è per ora (e per fortuna) realizzata solo fino a pagina tre, è stata ad esempio veicolata dalla forza del potere economico delle grandi corporation, che negli Stati Uniti, terra di capitalismo avanzato per eccellenza, hanno trovato il primo terreno fertile. Mentre le ragioni della mancata completa ricezione hanno a che vedere con la differente capacità economica e finanziaria di un sistema come il nostro, che ha limiti di budget che gli Stati Uniti non hanno. È un modello, quello sanzionatorio penale statunitense, che non trova altra spiegazione che non sia di riempire il più possibile le carceri di marginali, nel solo interesse delle grandi corporation, le quali si avvantaggiano della trasformazione dei tanti – sempre più numerosi – poveri, i quali se da liberi non consumano più, diventano però consumatori coatti quando sono incarcerati [5].
È un modello, inoltre, la cui più ampia diffusione in Italia è purtroppo sempre dietro l'angolo: si pensi al recentissimo novello pacchetto sicurezza, con la sua introduzione di nuovi reati da poveri e all'avvio della costruzione di nuove carceri, che non produrranno altro che l'aumento dei carcerati.

  • La criminalizzazione dei poveri

Mi hanno molto dato da pensare le cose che hai scritto – e che ora stiamo dicendo – sulle politiche USA nei confronti dei poveri, che non vorrei – almeno auspico – riuscissero troppo a “contaminare” il resto del mondo. Per questo vorrei capire un po' meglio come affrontare la questione. Criminalizzazione dei poveri (e della povertà) ma anche , che mi appaiono come due paradossi imbarazzanti del sistema americano, che viene ritenuto comunque un esempio di democrazia.
È così: non necessariamente questo sistema – che tende a presentarsi come civilmente più avanzato – lo è per davvero. È un paradosso che questo sistema, che noi prendiamo a modello, preveda per esempio ancora la pena di morte. Non è – come dicono alcuni – una pena totalmente simbolica. Certo, negli Stati Uniti la pena di morte è in fortissimo calo. Ciò nonostante, ben 27 Stati la prevedono (più della maggioranza) ed ha ancora applicazioni pratiche. I dati più recenti ci dicono che nel 2023 ci sono state 21 condanne alla pena di morte e 18 esecuzioni, sempre in discesa ormai da parecchio tempo. Giusto per avere un'idea, nel 2017 le condanne erano 39, adesso sono 21; le esecuzioni erano 23, adesso sono 18. Insomma, un numero molto limitato, tuttavia capace di mostrare – al di là del simbolo – la predisposizione per un diritto violento.
La violenza americana non è solo la violenza che noi vediamo portata fuori dai confini USA, è una violenza che vediamo anche esercitata e applicata all'interno degli States. Dovremmo, poi, associarvi la questione delle armi. Negli Stati Uniti ci sono due stragi al giorno, laddove per strage si intende il coinvolgimento di almeno quattro persone in qualità di vittime.

  • Armi violenza e pena di morte

È il tema che possiamo definire sotto il titolo della esperienza tragica della “legittima difesa armata”…
Interpretando il secondo emendamento della Costituzione americana (che così recita: «Siccome alla sicurezza di uno Stato libero è necessaria una milizia ben organizzata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non può essere infranto» [6]), prima nel 2008 e poi nel 2010, la Corte suprema ha detto che i cittadini hanno il diritto costituzionalmente protetto di possedere armi – anche cariche – a casa propria, perché devono potersi difendere. L'anno scorso, nel giugno del 2022, la stessa Corte ha addirittura stabilito che quell'emendamento attribuisce loro il diritto, costituzionalmente protetto, di andare in giro armati, senza perciò essere obbligati a offrire una ragione specifica per giustificare il porto dell'arma. Ti puoi così facilmente trovare accanto – magari mentre stai sorseggiando il tuo caffè – qualcuno con un'arma in bella vista nella fondina. Paradossalmente, in un mondo in cui non ci sono che sparatorie tutti i momenti, si crede che ciò renda tutti più sicuri. È chiaro che c'è qualcosa che non funziona.
Si dice che nell'americano medio sia radicata l'idea del vigilante e che questo spieghi la generosità del sistema nel consentire a tutti di armarsi e di girare armati. Io credo, però, che anche in questo caso la mentalità statunitense sia plasmata da un messaggio veicolato dai poteri forti e da chi da tutto ciò guadagna. Pensa alla American National Rifle Association, che è una corporation determinante da questo punto di vista: non è certo un segreto che dopo la sentenza della Corte Suprema del giugno del 2022, i produttori di armi abbiano visto impennarsi i rispettivi titoli azionari [7].
La pena di morte rientra nell'ambito di questo atteggiamento violento, che è addirittura più violento di quello che noi possiamo immaginare. La pena di morte viene giustificata oggi attraverso l'idea che sia una pena “razionale”. Infatti, a partire dal 1976 la Corte Suprema ha introdotto –a livello processuale– alcuni paletti che ne hanno limitato gli aspetti più drammatici. È razionale –si dice– anche perché è stata limitata a livello soggettivo: i malati mentali non possono più essere sottoposti alla pena di morte; i ritardati mentali neppure, neanche i minori (ma solo dal 2005, dalla sentenza Roper contro Simmons, che è come dire: ieri [8]). A livello oggettivo, poi, l'unico caso in cui può oggi essere applicata la pena di morte è l'omicidio volontario.
Viene anche presentata come una pena “democratica”, visto che in fondo è la giuria – ossia il popolo – che decide della morte o della vita del condannato. Sono, inoltre, gli Stati che la vogliono ed in questo senso è doppiamente democratica. Nel 1972 la Corte Suprema aveva, infatti, dichiarato incostituzionale la pena di morte, solo tuttavia per reintrodurla nuovamente nel 1976, a fronte del fatto che la stragrande maggioranza degli Stati che l'avevano prima del 1972, l'avevano rivoluta e rivotata. Siccome la materia penale è in base alla Costituzione degli Stati Uniti di competenza statale, la Corte Suprema ha quindi deferito ai Parlamenti statali – e perciò ai loro popoli – il compito di stabilire se la pena di morte fosse accettabile o meno. È infine vista come pena democratica per un ulteriore motivo: perché – si dice – permette l'attuazione della così detta psychological closure, ossia consente ai familiari delle vittime dell'omicidio di godere di quel sollievo psicologico che si realizzerebbe nel vedere uccidere chi ha ucciso il proprio caro. È l'idea della vendetta, quella di cui oggi sentiamo parlare, ad esempio, da Netanyahu. Si dice infine che la pena di morte sia oggi giustificata in quanto “umana”. Non è più quella morte per squartamento in pubblica piazza, dei tempi del tentato assassinio di Luigi XVI, di cui ci parla Michel Foucault nel suo Sorvegliare e punire. Adesso la pena di morte viene inflitta in una stanza asettica, nascosta agli occhi dei più, visto che di regola alla sua esecuzione possono assistere soltanto i parenti delle vittime, quelli del condannato e le guardie carcerarie che la infliggono. Viene, inoltre, praticata attraverso un'iniezione letale, che sembra assicurarne l'“umanità”, giacché il condannato passerebbe dalla vita alla morte senza soffrire e senza accorgersene. E se già parlare di pena di morte in termini di sanzione “umana” appare come un ossimoro, ciò che più colpisce è quanto falsa sia l'immagine di assenza di dolore associata all'iniezione letale.
Studi recenti, come quelli di Corinna Lain [9], si sommano a studi più risalenti, e in maniera inequivoca chiariscono ormai quanto crudele sia la pena di morte inflitta ai condannati sottoposti all'iniezione letale negli Stati Uniti, laddove i protocolli prevedono in genere l'iniezione di tre sostanze una di seguito all'altra: un anestetico, un paralizzante e infine il cloruro di potassio, che blocca il cuore.
Gli studi raccontano come nell'84% dei casi i condannati a morte muoiano – patendo le stesse sofferenze di chi annega – per edema polmonare, mentre sono ancora vivi e in grado di percepire il dolore. Soffrono moltissimo, per un periodo di tempo che va dai 10 minuti ai 20, anche se quella sofferenza è spesso nascosta agli occhi di chi assiste all'esecuzione per via dell'operare della sostanza paralizzante, che viene iniettata come secondo medicinale, dopo l'anestetico che causa l'edema. Anche se non muoiono per edema polmonare, i condannati a morte con iniezione letale troppo spesso patiscono un dolore straziante – intrappolati come sono in un corpo paralizzato, ma ancora sensibile – a causa degli effetti soffocanti della sostanza paralizzante oppure della sensazione di bruciore insopportabile determinata dalla terza sostanza introdotta. L'anestetico, infatti – per ragioni legate al fatto che i protocolli prevedono una medesima dose per tutti, indipendentemente dal peso, dallo stress emotivo, o dall'abitudine all'alcool o alle droghe (tutti elementi che incidono pesantemente sugli effetti anestetici) di ciascuno – sovente non fa effetto. Nessuno però se ne accorge, perché la paralisi indotta dal secondo medicinale impedisce la vista del corpo agonizzante. E mentre la Corte Suprema non ha mai voluto ritenere l'iniezione letale incostituzionale in quanto contraria all'ottavo emendamento, che vieta le pene “crudeli e inusuali”, da pochissimo tre Stati, fra cui l'Alabama – per superare problemi di approvvigionamento delle sostanze necessarie all'iniezione letale hanno introdotto un nuovo metodo per dare la morte: il soffocamento tramite azoto!
Ma perché tutta questa sofferenza? Essa poteva avere un senso – aberrante ma comprensibile – ai tempi dello squartamento pubblico, laddove la sofferenza pubblica consentiva allo Stato in via di affermazione di mostrare il suo volto brutale nei confronti di chi ne violava le regole. È invece oggi difficile dare un senso a una pena che si vorrebbe umana, ma che umana non è, né potrebbe probabilmente mai esserlo. L'impressione è tuttavia che, nonostante la forte diminuzione nel tempo delle condanne e delle esecuzioni, la pena di morte negli Stati Uniti continuerà ad esistere.

  • Ricchezza, povertà e lavoro precario dagli USA all'Italia

Questa forte diminuzione è un po' anche il frutto delle campagne abolizioniste, che sono riuscite ad ottenere risultati davvero importanti, sia nei confronti degli stati (per l'abolizione o la moratoria delle esecuzioni) che sul fronte della cultura: penso all'enorme cambiamento che è stata – ad esempio – la modifica sul punto del catechismo della Chiesa cattolica… D'altra parte, la pena di morte negli USA avviene pur sempre in un contesto “pubblico”: penso sempre invece – a questo proposito – a paesi come il Giappone, che ancora praticano invece le esecuzioni comunicandole al condannato solo un'ora prima, impedendogli sia di incontrare o salutari i familiari che di tentare un estremo appello. Comunque, se i dati ci dicono che grazie ai movimenti abolizionisti è in atto un contenimento generale delle condanne a morte, non so se sia possibile fare analisi statistiche sul versante della criminalizzazione dei poveri, che mi sembra in grande espansione. Non solo dei poveri della strada, dei senza casa – che pure è un dramma in espansione – ma anche contro le masse di poveri che oggi sono gli immigrati…
Sì. Io credo che la questione della povertà, della criminalizzazione del povero e del business carcerario, cui accennavo prima, siano questioni collegate in un circuito diabolico. Prima si crea povertà attraverso politiche legislative che permettono lo spostamento della ricchezza dai molti ai pochi, poi si criminalizzano i poveri che sono così stati creati, quindi si riempiono le carceri con le quali quei pochi ricchi fanno ancora cassa [10].

Elisabetta Grande, Il terzo strike. La prigione in America - copertinaLa ricchezza negli Stati Uniti – negli ultimi trent'anni – è cresciuta di circa tre volte [11]. Nello stesso tempo però è cresciuta anche la povertà. Questo cosa significa? Che, immaginando la ricchezza come una torta, nel tempo i più ricchi hanno mangiato non soltanto tutto il suo incremento, ma si sono anche sbafati più di una fetta di quel poco che avevano gli altri. La Federal Reserve – che non è certamente una istituzione “sovversiva” – ci dice che dalla fine degli anni ‘80 al 2018, l'1% più ricco della popolazione statunitense ha guadagnato 21 trilioni, mentre il 50% più povero ha perso 900 milioni; gli ultimi dei quali, che di ricchezza non ne possiedono, hanno visto solo aumentare i propri debiti. Si tratta di un vero e proprio furto dei più ricchi ai danni dei più deboli. Nello stesso periodo, d'altronde, l'ufficio di bilancio del Congresso statunitense ci informa che l'1% più ricco della popolazione statunitense ha visto crescere la propria fetta della torta della ricchezza nazionale dal 27% al 34%; mentre il 50% della popolazione più povera – stiamo parlando della metà della popolazione statunitense! – è passato da possederne il 4% a possederne il 2%.

In Italia le cose non sono andate tanto diversamente: dalla metà degli anni '90 al 2016 la ricchezza dello 0,1% più ricco passa dal 5.5% al 9.3% della quota di ricchezza nazionale, mentre quella del 50% più povero dall' 11,7% al 3,5% [12] e la quota spettante al top 0,01% (ovvero i 5 mila adulti più ricchi) è quasi triplicata, passando dall'1,8 al 5% [13]. Questo chiarisce quanto forte sia il parallelismo fra quel mondo e il nostro in termini di concentrazione esagerata di ricchezza e nello stesso tempo di aumento della povertà. Ricordo che nel 2008 una ragazzina amica della mia seconda figlia venne qua a Torino dagli USA e la prima cosa che mi chiese arrivando a casa dopo un giro in città fu: ma dove sono i vostri homeless? Questo mi colpì enormemente; però se oggi questa persona tornasse a Torino, non me lo chiederebbe più. Qua sotto i portici abbiamo distese di poveri di strada (una piccola fetta dei 5,6 milioni di poveri assoluti, che da allora sono triplicati). È chiaro, dunque, che quel modello – come dicevi tu prima – sta davvero diffondendosi, perché le politiche che noi abbiamo introdotto sono molto simili alle politiche messe in campo negli USA, anche se loro le hanno implementate un po' prima rispetto a noi.
E quali sono queste politiche? Sono innanzitutto quelle di un lavoro che è sempre meno tutelato. Negli Stati Uniti ai tempi della legislazione sociale di F.D. Roosevelt i lavoratori erano protetti da leggi che ne vietavano lo sfruttamento: si pensi alle normative che proibivano il lavoro minorile o che limitavano le ore lavorative giornaliere. A partire da Ronald Reagan essi non hanno invece più trovato protezione nel diritto, sull'onda del principio per cui la regolamentazione del lavoro doveva essere lasciata alle forze del mercato. Precarietà lavorativa, negli States, ha così rapidamente significato per i lavoratori non solo poter essere licenziati in qualsiasi momento, ma soprattutto non sapere quante ore lavoreranno e quindi quanti soldi porteranno a casa a fine mese. Si tratta di una situazione di incertezza economica davvero difficilmente sopportabile. Come se non bastasse, quando il mercato avrebbe finalmente favorito i lavoratori, per via di un tasso di disoccupazione particolarmente basso, strumenti giuridici “canaglia” – che sarebbe qui troppo lungo approfondire – intervengono per mantenere bassi i salari dei più deboli e alto il loro sfruttamento, smentendo l'assunto per cui il diritto non avrebbe dovuto interferire nella regolamentazione del lavoro, Uno per tutti: la clausola contrattuale di non competizione (non compete clause) che i lavoratori sono obbligati a firmare e che prevede che, se ti licenzi, per due anni non puoi più accettare lo stesso lavoro da nessuno. Quindi, o cambi completamente lavoro o resti dove sei con la paga da fame che hai, perché non puoi farti assumere da chi ti darebbe uno stipendio migliore.
Alla mancata tutela sul piano del diritto del lavoro, si è poi aggiunta la ritirata del welfare state, determinata anche dalla diminuzione dei soldi pubblici, causata da un sistema fiscale che hai visto ridurre fortissimamente le aliquote marginali dei più ricchi. Si pensi che se con Jimmy Carter essa raggiungeva il 70,1%, con Ronald Reagan, nel giro di quattro anni, si era abbassata fino al 28%, per non ritornare mai più ai livelli precedenti. L'impoverimento dei più deboli è così stato inevitabile.
Negli ultimissimi tempi per fortuna le cose sembra stiano finalmente cambiando. La sindacalizzazione – dopo decenni di declino – sta riprendendo vigore e per la prima volta dopo quarant'anni i salari sono aumentati, a volte anche notevolmente, soprattutto per i lavoratori meno qualificati. E la cosa dà finalmente un po' di speranza. Paradossalmente, questa inversione di tendenza si è registrata a seguito della pandemia, durante la quale gli americani hanno ricevuto piccoli aiuti economici da parte dello Stato. Ciò ha fatto sì che all'uscita dalla stessa, in molti abbiano trovato la forza per dire: io non torno più ad essere schiavizzato come prima! Così parecchi non sono tornati a lavorare e in tanti hanno dato le dimissioni (dando vita a quel fenomeno che è stato chiamato delle “grandi dimissioni”), innescando un circuito virtuoso che ha portato a una situazione per cui oggi per ogni persona in cerca di occupazione ci sono quasi due posti a disposizione, a differenza di quel che avveniva qualche anno fa, quando quattro persone in cerca di lavoro si dovevano contendere un solo posto disponibile. Tutto ciò dà forza ai lavoratori e ai sindacati. E, per quanto la Federal Reserve abbia recentemente alzato i tassi come era tempo che non faceva –al fine di raffreddare l'economia, e quindi creare di disoccupazione per invertire la rotta (virtuosa)– con suo grande disappunto tutti i mesi viene pubblicato un job report che testimonia il costante aumento dei posti di lavoro disponibili.

Le politiche – che potremmo chiamare di austerità – messe in atto negli ultimi quarant'anni negli Stati Uniti sono state dopo poco riprese anche da noi italiani, con gli effetti, in termini di furto dei ricchi ai danni dei più poveri, che ho cercato di evidenziare prima. Pensiamo all'abbandono delle garanzie giuridiche dei lavoratori dal pacchetto Treu – passando per la legge Biagi – fino ad arrivare al cosiddetto Jobs Act. La flessibilizzazione, che avrebbe dovuto portare più posti di lavoro, ha invece condotto a maggior precarietà e salari più bassi, altro che maggiore occupazione! Occupazione a tempo determinato, precaria e sottopagata è stato il risultato: questo lo dice la Banca d'Italia, non lo dico solo io. Nonostante ciò, il nostro governo continua oggi sulla stessa strada: reintroduce i vouchers ed elimina il decreto dignità … D'altro lato cancelliamo sanità e scuola così come le conoscevamo, e abbassiamo le tasse, secondo la lezione impartitaci dagli Stati Uniti: dal 1974 a oggi siamo passati da 35 scaglioni a 3. Insomma, queste sono le manovre in termini di politica legislativa che creano povertà. E cosa fai per questi poveri una volta che sono tutti per strada? Emani leggi che li criminalizzano. Anche noi stiamo criminalizzando i nostri poveri di strada, pensa ai Daspo urbani. Conoscerai la questione dei regolamenti comunali di polizia urbana…

  • Razzismo e legalità

Non pensi che ci sia anche una dose di razzismo culturale in questo fenomeno? C'è una parte del macro –fenomeno che ovviamente deriva dal governo delle economie; però ci sono degli altri fenomeni che a me a volte sembrano dominati da un disprezzo culturale nei confronti del diverso che assocerei a quello che dicevi tu all'inizio, il rischio della comparazione a contrasto. Oggi che una parte della povertà è costituito dagli immigrati senza risorse, dagli immigrati che sono stati nel tempo marginalizzati e criminalizzati. Cerco sempre di spiegare – quando mi capita di parlarne con qualcuno –che anche nell'immigrazione c'è una differenza fra l'illegale e l'irregolare: a chiunque può succede di essere “irregolari”, e non per questo sono illegali, non per questo sono nell'area della sanzione penale…
Quello che tu dici è verissimo: è la questione del povero visto come diverso, brutto, cattivo e pericoloso. È il fenomeno psicologico che prende il nome di alterizzazione, quel processo mentale, cioè, per cui a un certo punto il povero diventa altro da te. Al povero, altro da noi, diverso da noi, possiamo fare qualunque cosa: tutto ciò che a noi stessi noi non faremmo…; in fondo, si tratta spesso di un “illegale”… Sebbene negli Stati Uniti i neri siano di gran lunga i più poveri e tra coloro che sono maggiormente per strada, mi sembra che qui in Italia il fenomeno sia ancora più “razzializzato”: forse perché abbiamo una immigrazione più recente o forse anche perché non abbiamo interiorizzato un discorso di – come dire – Black Lives Matter, cioè un discorso per cui effettivamente è assurdo pensare che il colore della pelle possa determinare una diversità nel tipo di approccio che abbiamo nei confronti dell'altro. L'alterizzazione in Italia mi pare pertanto più razzista. Ad ogni modo, noi non facciamo nulla di meglio rispetto a quello che viene fatto negli Stati Uniti: anche in questi regolamenti comunali di polizia urbana si nota quanto il povero venga colpito solo per la sua povertà, così come è stato negli Stati Uniti. Laggiù il tema è entrato subito nell'ambito del diritto penale perché – a differenza di quello che succede da noi – il penale non è solo statale…

Eh sì, in Italia la criminalizzazione resta confinata soprattutto sul fronte della sanzione amministrativa.
Esattamente. A parte la stagione delle “ordinanze pazze”, ancora adesso accade che attraverso ordinanze contingenti sindacali oppure attraverso la modifica dei regolamenti comunali – che viceversa dovrebbero essere l'espressione di tutta la comunità locale – i Comuni confezionino dei regolamenti fortemente punitivi nei confronti dei più deboli, che sanzionano chi chiede l'elemosina anche in modo non aggressivo o coloro che usano in modo “improprio” le panchine (ossia vi si sdraiano perché non hanno altro luogo dove riposare) o puniscono addirittura quelli che aiutano le signore a portare il carrello della spesa verso la macchina…
I poveri da noi sono soprattutto i migranti, negli Stati Uniti sono i neri – che non sono più migranti ma cittadini a tutti gli effetti – ma alla radice, purtroppo, il razzismo è sempre lo stesso.

  • Il Mali, la globalizzazione in Africa e le migrazioni

Molte cose hai detto finora e molte altre te ne vorrei chiedere, ma non posso terminare la nostra conversazione senza domandarti qualcosa di questo tuo collegamento con L'Africa. Sei una giurista che è impegnata – nella sua esperienza di studio – soprattutto negli Stati Uniti. Poi però nel 2007 realizzi questo documentario Le Bon Élève. Le Mali et nous [14], con Ugo Mattei e Luca Pes, una riflessione sulla globalizzazione in Africa e in questo paese, dove purtroppo da tempo si è amplificata l'instabilità politica e si moltiplicano le tensioni e le violenze di matrice jihadista. Da dove nasce questo tuo interesse – che non è solo un interesse umanitario – per un paese così misconosciuto?

Sahel
Sahel

È un paese dell'Africa lontana, ma anche importante: nel Sahel c'è qualcosa che interessa molto l'Occidente. Ci sono tante risorse, a partire dall'uranio… Il mio è nato come un impegno scientifico e ti spiego perché. Come ti ho detto, i comparatisti per tanto tempo – per troppo tempo – hanno pensato (sempre in un'ottica di superiorità e arroganza) che il diritto esistesse soltanto quando avesse le caratteristiche proprie del diritto occidentale: fosse scritto in una legge, provenisse da uno Stato, fosse interpretato da giuristi e applicato nei tribunali come li conosciamo noi. Per cui, al di là di queste caratteristiche tipiche del diritto occidentale, non ci poteva essere diritto. Il che, come minimo, era miope: il diritto è uno strumento valido a regolare la convivenza civile delle persone, è difficile affermare che se non ci sono quelle caratteristiche significa che non c'è diritto. Però, effettivamente, era quello che noi pensavamo fino a poco tempo fa. C'è stato bisogno degli antropologi giuristi, come Malinowski, che sono andati a studiare il diritto della tradizione non occidentale (quello vigente nelle isole Trobriand, nel suo caso), per capire che in realtà il diritto c'è anche nei luoghi in cui tutte queste caratteristiche non ci sono: magari non c'è neanche la scrittura, però il diritto c'è. Per me era molto interessante cercare di capire quali fossero – e come e da chi venissero immaginate, stabilite e applicate – le regole in un sistema in cui le caratteristiche tipiche del diritto occidentale sono assenti. Ho avuto come maestro Rodolfo Sacco, il quale a sua volta era andato in Africa e aveva scoperto l'esistenza di un diritto stratificato, la compresenza cioè – all'interno di uno stesso contesto spazio-temporale – di più ordinamenti giuridici stratificatisi nel tempo. Per farti un esempio banale, se un uomo maliano decide di sposarsi, magari si sposa dieci volte secondo le regole tradizionali (in forza delle quali tu puoi sposarti un numero di volte illimitato); quattro delle sue dieci mogli sono tali anche secondo il diritto islamico, che gli consente di sposarsi fino a quattro volte; solo una sarà però la sua moglie ufficiale, in forza del diritto statale che gli impone la monogamia. La stessa persona vive, insomma, regolato da più registri giuridici.
Io volevo andare a vedere che cosa succedeva in un luogo in cui veniva principalmente applicato lo strato più risalente nel tempo, ed allora ho cercato tra i miei contatti, sono andata in Mali varie volte e ho fatto grande amicizia con Amadou Keita, studioso e politico di grande livello [15]. Amadou – in un periodo precedente al mio arrivo per il documentario – aveva vissuto a lungo e osservato (la famosa osservazione partecipativa di cui sopra) il villaggio di Bancoumana, che sta a 60 chilometri a sud della capitale, Bamako. Così, attraverso la sua conoscenza e il suo sguardo privilegiato, ho pensato di girare un film ad uso dei miei studenti. Volevo che vedessero come il diritto ci può essere – e può essere anche un diritto migliore rispetto a quello che abbiamo noi – pur laddove non esiste la legge di un Parlamento, lo Stato, la scrittura, i giuristi e i tribunali come li conosciamo in Occidente. È accaduto, però, che – arrivando a Bancoumana per girare il documentario – ci siamo resi conto che sarebbe stato impossibile raccontare il diritto locale fuori dai suoi intrecci con gli altri strati del diritto. In particolare, c'era un nuovo strato, che probabilmente Rodolfo Sacco non aveva avuto modo di osservare nella sua applicazione pratica: uno strato che, per la prima volta, era ed è davvero in grado di distruggere il primo livello, quello tradizionale, che io volevo documentare. Occorre tenere presente che il diritto dello Stato coloniale in Africa non è mai riuscito a sostituirsi al diritto tradizionale, per tantissimi motivi. In Mali, per esempio, il colonialismo francese aveva imposto la registrazione delle terre a titolo individuale e – qualora ciò non fosse avvenuto – lo Stato ne sarebbe risultato il proprietario. Siccome, però, nel mondo tradizionale africano non esiste il concetto di proprietà in relazione alla terra, men che meno di proprietà privata – perché, in una prospettiva invertita rispetto alla nostra attuale, la terra non ti appartiene, ma sei tu che appartieni alla terra – l'ovvio risultato fu che nessuno registrò a titolo individuale le terre (ciò che, fra l'altro, avrebbe creato dei conflitti mai visti all'interno delle comunità). Per tantissimo tempo, tuttavia, la situazione rimase sostanzialmente invariata: lo Stato, formalmente titolare del diritto di proprietà sulle terre non registrate individualmente, non esercitò sulle stesse alcuna prerogativa, le quali di fatto continuarono ad essere esercitate dalle comunità locali come se nulla fosse mutato. Il radicale cambio della situazione si ha invece con l'entrata in gioco di un nuovo strato giuridico: quello sovranazionale delle grandi multinazionali, della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale, con i loro programmi di aggiustamento strutturali imposti agli Stati in difficoltà economica. Ciò che rapidamente ne discende è la privatizzazione di quel poco di pubblico che esisteva, l'apertura obbligatoria delle frontiere – che impedisce un autonomo sviluppo dell'economia attraverso un sistema protezionistico (che è quello attraverso cui noi ci siamo sviluppati) – e la messa sul mercato delle terre africane, oggetto oggi di land grabbing, ossia di accaparramento da parte di multinazionali, grandi fondi di investimento, eccetera. Sotto questo ultimo profilo, lo stato maliano decide, infatti, per la prima volta di far valere la sua titolarità – fino a quel momento silente – sulle terre, per venderle alle multinazionali; gli stessi abitanti del villaggio, che cercano finanziamenti, decidono di mettere sul mercato quelle su cui hanno mantenuto diritti. Una vera rivoluzione culturale ed economica, insomma, che comporta inevitabilmente al crollo di quelle realtà. Senza terre, su cui hanno fondato la loro essenza e sopravvivenza, le comunità locali sono infatti inevitabilmente destinate all'immiserimento e alla scomparsa.
Così, mentre ho potuto constatare direttamente quanto lo strato tradizionale del diritto – quello locale che volevo documentare – sia in via di estinzione per l'operare odierno del nuovo strato di diritto sovranazionale (che per la prima volta al primo non si aggiunge, ma lo distrugge), diventa evidente la ragione della notevole migrazione delle popolazioni africane in Europa cui oggi assistiamo. Una immigrazione che è un problema perché noi l'abbiamo costruito come tale. Sia perché ne abbiamo determinato le cause, ma anche perché – chiudendoci nelle nostre “fortezze” – ne esasperiamo gli effetti.
Interessante è osservare cosa succedesse fino agli anni ‘70: fino ad allora non operava il sistema fortezza che esiste oggi. In Francia, per esempio, i migranti del Nord Africa andavano a lavorare senza bisogno neppure di passaporto. Chi arrivava per lavorare mandava i soldi a casa e dopo un certo periodo di tempo si dava il cambio con un altro membro della grande famiglia africana che lo sostituiva, e così via. Nessuno era obbligato a lasciare la propria casa e, in tempi in cui le comunità locali non erano ancora state distrutte dai meccanismi del diritto globale di cui sopra, il sistema funzionava per tutti. Poi abbiamo creato quelli di cui tu dicevi: “gli illegali” – tali non per quello che fanno, ma per quello che sono, ossia persone che migrano, perché cercano soluzioni di sopravvivenza a fronte dell'immiserimento che la “fortezza” ha procurato loro. Un corto circuito che può essere risolto solo eliminando alla fonte le ragioni che spingono alla migrazione. Siamo noi in sostanza che dobbiamo andarcene da “casa loro” (altro che aiutarli a casa loro!), non loro che devono andare via da “casa nostra” (volendo qui usare formule stantie di appartenenza dei territori, su cui riteniamo di avere il diritto di stare solo perché abbiamo avuto la fortuna o la sfortuna di esserci nati o di essere nati da chi vi è cittadino). Ogni altra soluzione mi pare miope e inutile, non solo perché si tratta di processi che non possono essere arrestati con nessuna legge e nessuna sanzione (neppure quella più tremenda di tutte: l'annegamento in mare), ma anche perché noi europei siamo ormai popolazioni di vecchi, destinate a sparire se non ci apriamo a seri ricambi. Nella retorica quotidiana l'immagine della persona illegale, invece, è sempre più forte e non ci abbandona mai, anzi viene enfatizzata allo scopo di creare allarme. Se una persona è illegale devo inevitabilmente averne paura – è questo il messaggio che la gente recepisce – quindi lo devo allontanare, magari in Albania. Poco importa se così facendo esasperiamo un problema, che è tale solo perché lo abbiamo costruito come tale, generandone tanto le cause che le conseguenze, con politiche di predazione fuori “casa” e di esclusione da “casa”. Certo, ora tornare indietro è un po' difficile.

Paolo Sassi

[1] Elisabetta Grande, Guai ai poveri. La faccia triste dell'America, Torino, EGA, 2017.
[2] Elisabetta Grande, Il terzo strike: la prigione in America, Palermo, Sellerio, 2007.
[3] «Ci si accorse, durante quegli anni di studio, che l'America non era un altro paese, un nuovo inizio della storia, ma soltanto il gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti. E se per un momento c'era apparso che valesse la pena di rinnegare noi stessi e il nostro passato per affidarci corpo e anima a quel libero mondo, ciò era stato per l'assurda e tragicomica situazione di morte civile in cui la storia ci aveva per il momento cacciati. La cultura americana ci permise in quegli anni di vedere svolgersi come su uno schermo gigante il nostro stesso dramma». Cesare Pavese, «In giro per l'America», l'Unità (edizione piemontese) 3 aprile 1947, p. 3 [https://www.unita.it/2023/05/18/cesare-pavese-e-il-mito-americano-in-un-articolo-del-1947/].
[4] Cfr. Elisabetta Grande, Imitazione e diritto. Ipotesi sulla circolazione dei modelli, Torino, Giappichelli, 2000.
[5] Maggiori approfondimenti in E. Grande, Il terzo strike, cit.
[6] «A well regulated Militia, being necessary to the security of a free State, the right of the people to keep and bear Arms, shall not be infringed».
[7] Cfr. https://www.forbes.com/sites/sergeiklebnikov/2022/06/23/gun –stocks –surge –higher –as –supreme –court –rejects –new –yorks –concealed –carry –law/?sh=5cfbc8e4039f.
[8] Cfr. https://www.associazionedeicostituzionalisti.it/old_sites/sito_AIC_2003-2010/cronache/estero/pena_morte_usa/index.html#:~:text=Simmons%2C%20543%20U.S.%20_%20(2005,anni%20ed%20essere%20cos%C3%AC%20divenuto.
[9] Cfr. Corinna Lain, Death Penalty Exceptionalism and Administrative Law, in https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3889817.
[10] Cfr. E. Grande, Guai ai poveri, cit.
[11] V. sul punto https://fred.stlouisfed.org/series/BOGZ1FL192090005Q.
[12] Cfr. https://lavoce.info/archives/86640/ricchezza-sempre-piu-concentrata-anche-italia/.
[13] Così https://www.oxfamitalia.org/disuguitalia –2023/.
[14] Il documentario – con sottotitolazione in italiano – è ora disponibile in internet sulla piattaforma youtube all'indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=VzdD7wLFAaw.
[15] Cfr. https://www.jstm.org/mali-pr-amadou-keita-nomme-ministre-de-lenseignement-superieur-et-de-la-recherche-scientifique/

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