
Il tempo dell’uso di quello che acquistiamo potrebbe essere un concreto e solido alleato per combattere l’emergenza ambientale provocata dal riscaldamento globale causato dall’uomo. A proposito non è del tutto corretto parlare di cambiamento climatico, quello è sempre avvenuto, mentre il riscaldamento globale prodotto dalle attività umane è un fenomeno di pochi decenni.
Dicevamo del tempo. Se riuscissimo a dilatarlo quando si tratta di beni prodotti e da consumare potremmo fare un passo avanti significativo e forse non arrivare al punto del non ritorno che devasterebbe definitivamente le esistenze vegetali e animali sul Pianeta.
Per questo ci viene in aiuto Razmig Keucheyan, sociologo e autore del saggio Les besoins artificiels. Comment sortir du consumérisme (La Découverte, Parigi 2019) che in un recente articolo [1] ci spiega cosa possiamo fare per consumare meno allungando il tempo, in questo caso della vita dei beni acquistati e uscire dal consumismo.
Allungare la garanzia obbligatoria che le aziende produttrici devono dare all’acquirente. Infatti durante questo periodo i consumatori tendono, mediamente, a riportare per riparazioni l’80% dei beni comprati mentre la percentuale si riduce anche al 40%, nel caso di apparecchi elettrici ed elettronici, dopo la fine della garanzia perché si ritiene più conveniente il nuovo acquisto. La deduzione è che più si allunga la vita e meno si consuma e meno impatti si hanno sul Pianeta. Entreremmo in un altro mondo con garanzie a dieci anni. Keucheyan scrive che l’opposizione industriale sarebbe dura, «meno merci immesse sul mercato significa, a parità delle altre condizioni, meno profitti. Certo, la riparazione potrebbe diventare un settore vantaggioso […]. Ma si tratta di ripensare da cima a fondo il modello produttivo vigente». E si tratta di affrontare tutto gli ostacoli che alzeranno a partire dalle solite scuse che alla fine pagano i consumatori dai costi superiori alla mancata libertà di scegliere nuovi prodotti che tarderanno ad arrivare perché si rallenta l’innovazione. Tutte stupidaggini per coprire i profitti.
Non è una cosa semplice da realizzare perché implica che deve cambiare il modello di produzione e il consumismo deve fare passi indietro. Un prodotto perché deve essere riparabile (non può essere un monoblocco ma i componenti devono essere separati e sostituibili), non possono più essere creati con l’obsolescenza programmata, perché devono essere disponibili i pezzi di ricambio, perché devono tornare ad esserci i riparatori. E poi «la professione di riparatore indipendente presenta una particolarità: non si può delocalizzare. Quando lo smartphone si guasta, viene mandato talvolta all’altro capo del mondo e poi rispedito. […]. Al contrario, l’intervento di un riparatore indipendente mobilita un essere umano presente sul posto in carne e ossa. Contrariamente a quanto sostengono gli industriali, cioè che l’estensione della garanzia sia una minaccia per l’occupazione aumentando i costi di fabbricazione e distribuzione, più garanzia significherebbe più riparazioni, e dunque più lavoro». C’è una altro aspetto importante da sottolineare a proposito dell’allungamento della garanzia: la rilocalizzazione della produzione, «senza la quale la transizione ecologica, non ha alcuna chance di riuscita. In effetti, i prodotti di base a basso costo provenienti dall’altro capo del mondo, oltretutto con notevoli emissioni di gas serra nel trasporto, difficilmente potrebbero soddisfare le esigenze di una garanzia decennale. Lo si dimentica spesso, la globalizzazione mercantile ha come corollario un degrado della qualità dei beni, e l’assenza di garanzia per molti di essi. Se gli industriali dovessero garantire i loro prodotti per dieci anni, dovrebbero obbligare i loro fornitori, numerosi e geograficamente dispersi, a procurare loro componenti di qualità».
Per chiudere l’analisi Keucheyan ci porta a valutare il prezzo ed in particolare il prezzo d’uso che è un valore legato all’utilizzo e non alla proprietà e che dovrebbe essere evidente. Uno “strumento” che definisce “stupefacente” perché esso «comprende i costi nascosti: quelli della durata di vita limitata che costringerà il consumatore a rinnovare il prodotto a breve scadenza. Rendere evidente questo indicatore potrebbe indurre i clienti a spendere di più all’atto dell’acquisto per risparmiare spese elevate durante il ciclo di vita dell’oggetto».
Determinare il prezzo d’uso non è semplice perché entrano in gioco diversi fattori, ma si tratta di un passaggio importante che deve portarsi dietro anche un’etichetta più trasparente (anche rispetto alle condizioni di lavoro) e dettagliata se vogliamo cambiare l’attuale modello di consumo divenuto insostenibile.
E a proposito di consumo non sostenibile, il settore della moda è una di quelli ancora lontano da certi standard necessari. Uno dei fenomeni peggiori al suo interno è la fast fashion che aiuta un consumo compulsivo e che spesso si porta dietro produzioni di materiale sintetico che pompa petrolio.
Anche qui il tempo entra in gioco. Sempre nella direzione di una vita più lunga degli oggetti acquistati il noleggio potrebbe essere una delle risposte per evitare che questo l’industria della moda continui ed essere la seconda più inquinante al mondo. In un articolo, Emanuele Isonio ci chiarisce il fenomeno: «negli anni, sulla spinta di campagne pubblicitarie aggressive dei big del settore, la durata di utilizzo di un capo d’abbigliamento è crollata: dai 200 giorni del 2000 a poco più di 160 di 15 anni dopo, secondo un rapporto della Ellen McArthur Foundation. Ovvero, il 36% in meno. In Cina, il tasso di sostituzione degli abiti è arrivato addirittura al 70%. […]. La crescita tumultuosa del fast fashion genera ogni anno 16 milioni di tonnellate di rifiuti tessili nella sola Unione europea. La produzione tessile, rivelava mesi fa un’analisi pubblicata sulla testata scientifica Nature.com, “è una delle più inquinanti, responsabile di 1,2 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente (CO2e) all’anno, ovvero più emissioni dei voli internazionali e della navigazione marittima”. » [2].
Il fenomeno che può contrastare la fast fashion è il fashion renting cioè l’affitto degli abiti. Un modello che va verso la sharing economy dove non è necessario possedere ma usare. Una soluzione anche per coloro che hanno voglia di cambiare abbigliamento con l’arrivo delle nuove stagioni o delle nuove tendenze o per esigenze momentanee.
Un fenomeno che ancora una volta parte dai più giovani, Generazione Z e Millennials, più sensibile al tema della difesa dell’ambiente. Si tratta di cifre ancora piccole per l’universo produttivo del settore ma in grande espansione. Infatti «è ormai una realtà che arriva dagli Stati Uniti e si sta già diffondendo in Cina e nel Regno Unito. Qui da noi, invece, sta muovendo solo i primi passi. A livello globale, le analisi realizzate dall’Allied Market Research prevedono che il solo comparto del noleggio online varrà circa 2 miliardi di dollari entro il prossimo quinquennio con un CAGR (tasso di crescita annuo) del 10,6%. Peraltro, se dall’online lo sguardo si allarga alle vendite nei negozi fisici, il valore del settore potrebbe essere anche più alto».
Ritornando alle riparazioni anche il grosso della produzione del settore è fatto di materiale scadente, per giunta difficile da riciclare, che ne impedisce una vita più lunga. Senza parlare poi delle condizioni di lavoro, dai diritti ai salari, della stragrande maggioranza dei lavoratori dell’industria nel mondo.
Pasquale Esposito
[1] Razmig Keucheyan, “Dalla paccottiglia alle cose che durano”, Le Monde Diplomatique/il manifesto, settembre 2019, pag. 3
[2] Emanuele Isonio, “Cambi di stagione, addio. Il futuro (sostenibile) degli abiti è l’affitto?”, https://valori.it/mercato-abiti-affitto/, 24 settembre 2019
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