Enzo D’Errico. Dall’io al noi per il futuro del Sud

Napoli, Rione Sanità.
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città dai mille colori, Napoli tradita, svenduta, piena di energia. Napoli terra di cultura, Napoli capitale del , Napoli vitale, Napoli addormentata, Napoli e i quartieri Spagnoli, Napoli e Pulcinella. Ma che cos'è veramente Napoli, dov'è il suo cuore, la sua anima? E che cos'è il Sud Italia?

Prova a raccontarcelo Enzo D'Errico, direttore del Corriere del Mezzogiorno.

Chi è Enzo D'Errico?
Un giornalista alla fine della carriera. Perché mi mancano pochi anni per andare in pensione e sono marito e padre di una ragazza con una disabilità cognitiva perché ha una malattia congenita.

Vuole essere più specifico? Ogni disabilità ha una sua specificità.
Lei ha una sclerosi tuberosa ed ha una disabilità cognitiva con tratti autistici.

Lei dice di essere alla fine della carriera. Ma un giornalista finisce la carriera? Il non è anche un po' una passione, una malattia?
Io spero che finisca la carriera. Ci sono delle stagioni nella vita. La mia è stata molto lunga, perché ho cominciato a lavorare che avevo diciassette anni e mezzo. Oggi ne ho sessantatré compiuti. Da ragazzo facevo teatro. La prima cosa che ti insegnano quando fai teatro, ed è la cosa più difficile, è l'uscita di scena. Quindi spero di uscire di scena nel migliore dei modi, senza essere uno di quelli che senza il lavoro non riesce a stare. È stata una grande passione della mia vita il giornalismo, lo è tuttora. Però quando una stagione si conclude bisogna guardare avanti non indietro. Non guardo mai indietro.

Che teatro faceva?

Enzo D'Errico
Enzo D'Errico

Facevo teatro di strada. Le parlo degli anni Settanta, erano anni di impegno politico, culturale. Era un teatro di strada con una compagnia che si chiamava “Chille de la Balanza”, Quelli della Bilancia. Un teatrino off abbastanza famoso a Napoli. Era la stagione in cui nascevano Mario Martone, Renato Carpentieri, insomma tutto quello che poi è diventato il teatro napoletano contemporaneo.

Che cosa significa essere direttore di un giornale come il Corriere del Mezzogiorno? E soprattutto che cosa significa fare giornalismo nel Mezzogiorno?
Essere direttore è un mestiere completamente diverso da quello che ho fatto nei precedenti anni della mia vita. Perché essenzialmente è un mestiere che si basa sul governo degli uomini, sui rapporti con tutto il sistema aziendale che ruota intorno a un giornale, con le pubbliche relazioni che è anche un capitolo fondamentale. È un po' come il regista nel cinema, organizzi il lavoro, le inquadrature. Ogni tipo di giornale è un punto di vista sul mondo che ovviamente è offerto ai lettori, in primo luogo dal direttore che è quello che poi impagina le notizie, decide la gerarchia, decide il valore aggiunto da dare al giornale.
Ho cercato soprattutto di essere in linea con i tempi. Ho cominciato a fare il giornalista a Paese Sera, un giornale che non esiste più da anni, ma che negli anni Settanta era un giornale molto vivace, molto importante nel dibattito soprattutto della sinistra. Quando ho cominciato era il 1977, le redazioni erano dei grandi saloni dove tu entravi ed eri avvolto da questo che oggi è un rumore. Per me all'epoca era una musica, sentire il ticchettio delle macchine da scrivere. Vedevi enormi nuvole di fumo perché si fumava nelle redazioni. Oggi rispetto ad allora le redazioni sono delle piccole sale operatorie dove non si sente un rumore, dove giustamente non si fuma. Quindi è cambiata completamente non solo la scenografia del mestiere, ma è cambiato anche il modo di farlo. Uno come me della mia generazione ha attraversato tutte le fasi dell'innovazione tecnologica passando dalla macchina da scrivere fino a oggi all'online, all'informazione digitale. Dal 1988 sono stato inviato del Corriere della Sera nel Mezzogiorno.

Lei parla di valore aggiunto. Qual è il valore aggiunto che ha fornito alla sua testata?
Credo che il primo valore aggiunto che spero di dare ogni giorno al giornale che facciamo è la totale indipendenza di giudizio. Cioè la totale assenza di pregiudizio, inteso proprio nel senso di giudizio pre. Ho cercato di fare del Corriere del Mezzogiorno una sorta di agorà del dibattito pubblico, dove potessero esprimersi le voci più differenti. E potessero poi consentire al lettore di formarsi una sua opinione sulla base del confronto tra opinioni, a volte ai poli opposti. Questo è il primo valore aggiunto che ho cercato di dare. Credo di esserci abbastanza riuscito. E poi quello della narrazione. Questo è molto legato all'evoluzione del giornalismo. Oggi le hard news, cioè le notizie che abbiamo subito, le notizie di cronaca viva, vengono in gran parte date sul digitale, sul sito. Allora bisogna poi offrire al lettore della carta stampata un'informazione che sia più di approfondimento. Perché si suppone che, siccome siamo bombardati da ogni tipo di fonte: i social, i siti, le televisioni, qualunque tipo di notizia è già stata assorbita dal lettore. Quindi, sulla carta stampata noi proviamo a offrire il valore aggiunto di una narrazione più approfondita, che spesso è fatta nel nostro caso dagli scrittori. Noi abbiamo reclutato Maurizio De Giovanni, Viola Ardone, Massimiliano Virgilio, Goffredo Fofi, Erri De Luca. Questi scrittori attraverso la loro capacità di narrare possono spesso offrire un punto di vista diverso.

Questo è il vostro modo di fare concorrenza ai social, e cercare di combattere le fake news?
Esatto. Poi l'intento è di mantenere un'autorevolezza e una credibilità che ci viene dalla testata. Noi siamo Corriere della Sera. Che oggi è il giornale largamente più venduto in Italia, lo è sempre stato tranne brevi periodi. Il concorrente principale, la Repubblica, vende oggi meno della metà di quanto vende il Corriere. Quindi dobbiamo dare un prodotto che rispetti gli standard qualitativi del Corriere della Sera e abbia la stessa credibilità. Nel Mezzogiorno tutto questo è molto più complicato.

Perché? Che cosa significa fare giornalismo al Sud?
Nel Mezzogiorno è più complicato perché è più complicato vivere nel Mezzogiorno. Tutte le condizioni di vita qui sono più complicate, più difficili. Faccio un esempio banalissimo. Si pensa che Milano, dove ho vissuto più di cinque anni, sia un po' la capitale delle diseguaglianze sociali o comunque della differenza in base al reddito. In parte è così, in parte no, perché nel Mezzogiorno e in particolare a Napoli, c'è uno standard di servizi pubblici fondamentali, quelli essenziali, penso al trasporto pubblico, penso alla sanità, penso all'assistenza, al welfare che non è assolutamente competitivo con gli standard del Nord. Questo significa alla fine fare di Napoli, e più in generale del Mezzogiorno, un territorio profondamente classista. Perché laddove non funzionano i servizi pubblici a pagare sono sempre i più deboli. Faccio un esempio io a Milano con un biglietto da 2,20 euro posso circolare e muovermi attraverso la città senza nessun problema. Qui a Napoli praticamente l'inefficienza non dico totale, ma ci siamo vicini, del servizio pubblico fa sì che chi ha i soldi può rimediare e scavalcare l'ostacolo, prende un taxi o prende la macchina. Chi questo non se lo può permettere è costretto a subirne le ripercussioni. Lo stesso riguardo il welfare.

Questa è la sua critica al Sud, a come è organizzato. La domanda di partenza era: perché è così difficile fare giornalismo nel Mezzogiorno?
In primo luogo è difficile perché in generale il Mezzogiorno è un luogo non comune. Che cosa si fa quando c'è una cosa che non si riesce a capire o che è complessa da capire? Perché noi poi parliamo di Mezzogiorno, di Sud al singolare ma esistono tanti Sud così come tanti Mezzogiorno.

Esistono tanti Sud così come esistono tante disabilità.
Piuttosto che comprendere e analizzare la complessità, è molto più facile rinchiudere un luogo non comune in un luogo comune. Quindi è molto difficile narrare il Mezzogiorno in maniera che non sia riconducibile essenzialmente agli stereotipi, al luogo comune. Perché nella narrazione nazionale il Sud, per sua colpa e per colpa altrui, è ancora rinchiuso nei luoghi comuni.

Come mi ha recentemente raccontato Gabriele Russo, direttore artistico del teatro Bellini, è un problema raccontare la normalità in mezzo a una quintalata di luoghi comuni, di banalità.
Faccio un esempio. Massimo Troisi in questi giorni avrebbe fatto settanta anni. Massimo Troisi ha fatto di tutta la sua storia artistica una lotta contro i luoghi comuni essendo consapevole di vivere in un luogo non comune.

Sorge spontaneo a questo punto chiederle come curate la formazione dei neo giornalisti per evitare luoghi comuni e stereotipi?
Malissimo. Non noi, tutti i giornali. I giornali sono in un momento di profondissima crisi. Essendo un'industria si reggono sulla legge dell'impresa: costi, profitti e via di seguito.

Ci sono articoli che vengono pagati anche solo cinque euro.
Ci sono articoli pagati pochissimo. Noi in un mercato al ribasso siamo quelli che pagano meglio, ma comunque pochissimo rispetto all'impegno richiesto. Oggi se tu vuoi fare il giornalista, rispetto a quando ho cominciato io, devi metterti su una strada che può essere anche infinita, che non ha sbocchi, avere alle spalle una famiglia che ti permetta di incamminarti lungo questa strada che conduce all'ignoto e sperare in un colpo di fortuna.

In un contesto simile l'Ordine dei Giornalisti ha ancora senso?
No.

Io e lei in questo momento che cosa stiamo facendo? Io non ho un tesserino di pubblicista, di giornalista. Stiamo facendo una conversazione conviviale o stiamo facendo giornalismo?
Io sono profondamente contrario all'ordine dei giornalisti.

Perché?
Perché lo ritengo un retaggio fascista, contrario anche all'articolo 21 della Costituzione. Sono stato addirittura processato dall'Ordine per aver detto questo pubblicamente, sottoposto al Consiglio di Disciplina dell'Ordine su mandato dell'allora presidente dell'Ordine Nazionale. Penso di avere tutto il diritto di manifestare questa opinione. Pago le quote all'Ordine perché se non sei iscritto all'Ordine non puoi fare il direttore, non puoi essere giornalista professionista. Però mantengo la mia indipendenza di giudizio. Per me l'ordine è un organismo senza senso.

Questo è valido per tutti gli ordini o solo per l'ordine dei giornalisti?
Credo per tutti gli ordini, per i giornalisti in particolare. Ripeto c'è un articolo 21 della Costituzione che consente a tutti di esprimere liberamente la propria opinione. Conosco persone che non sono iscritte all'Ordine che fanno più giornalismo di quanto ne fanno tantissimi iscritti all'Ordine.

Lei accennava a temi importanti: le differenze tra Nord e Sud; la povertà; la forte sperequazione tra chi ha i mezzi per fare e chi non li ha. L'autonomia differenziata aumenterà queste differenze o le diminuirà?
Penso che l'autonomia differenziata sia un enorme bufala, una cosa che non si realizzerà mai, o che perlomeno si realizzerà non so quando per due motivi. Uno, per com'è strutturata oggi è talmente farraginosa dal punto di vista procedurale che ci vorrà non so quanto tempo per farla passare. Cioè, se ogni passaggio deve essere approvato da commissioni di merito è una cosa molto complessa. Se poi ne volessero fare una cosa seria e quindi dovessero stabilire i Lep, i famosi livelli essenziali delle prestazioni dovrebbero mettere sul piatto tra gli ottanta e i cento miliardi. Non esiste proprio. E in più c'è un partito oggi al governo che è Fratelli d'Italia che non credo digerirebbe molto un impianto di questo genere. Perché oggi con Fratelli d'Italia la destra è una cosa completamente diversa da quella di qualche anno fa che aveva una radice molto forte proprio nel Sud. Radice identitaria legata soprattutto a residui di neofascismo, di vecchi nomi del passato. Mentre oggi la destra con Meloni si è legata molto ai ceti produttivi del Nord. Un partito che parla di nazione non credo che possa far digerire facilmente ai suoi simpatizzanti e ai suoi elettori un'autonomia differenziata come è concepita oggi.
Oggi come oggi la vedo più una bolla, che è servita sicuramente alla Lega in campagna elettorale in Lombardia piuttosto che una cosa seria. Poi certo bisogna stare all'erta, perché un provvedimento di questo genere sancirebbe la totale spaccatura del Paese. Io credo che oggi ci sia un pericolo molto più serio, l'ho scritto anche di recente, la totale insussistenza del Sud nell'azione di governo. È come se il Sud fosse sparito, non ha più voce, è totalmente assente dal dibattito politico. Non c'è un'idea né a sinistra né a destra che possa riguardare il futuro, lo sviluppo. Parlo di una progettualità. Qualcuno mi sa dire Napoli che è la capitale del Mezzogiorno fra dieci anni che sarà?

Perché considera Napoli la capitale del Mezzogiorno?
In primo luogo è la città più grande del Mezzogiorno, la terza città italiana. Poi comunque ha una sua storia. Il Corriere del Mezzogiorno ha anche una sua sede in Puglia. Noi siamo un giornale che è bicefalo. Io dirigo sia Napoli che Bari, cioè due mondi completamente diversi, fra l'altro mal collegati fra di loro. Per un pugliese o per un napoletano Milano è molto più vicina rispetto a Bari o a Napoli. Sicuramente non c'è una progettualità sul Mezzogiorno. Non c'è una capacità di dire quello che sarà di Napoli, e quindi anche di quello che sarà il Mezzogiorno. Perché poi Napoli è la capitale del Sud sicuramente per una tradizione storica, per un peso storico. Non dimentichiamo che è stata la capitale dell'Illuminismo insieme a Parigi nel Settecento. Poi forse dal punto di vista produttivo non lo è più. La Puglia è una regione molto più dinamica dal punto di vista produttivo rispetto alla Campania. Però proprio questo ci dovrebbe far riflettere su questo deficit di progettualità.

Se lei dovesse elencare due problemi fondamentali di Napoli, quali individuerebbe?
I servizi pubblici in primo luogo. La loro assenza rende villaggio una città e l'individualismo sfrenato. Napoli non ha mai avuto nella sua storia una borghesia produttiva. Quando parlo di borghesia produttiva intendo un'impresa privata che produce cose che si toccano. Ci sono degli esempi ma isolati. Non c'è un sistema di produzione che ha determinato la formazione di una classe borghese e come tale anche lo scontro sociale. L'impresa è progressista paradossalmente, anche se questa idea non appartiene molto al patrimonio della sinistra. L'impresa è fonte di progresso perché fonte di scontro sociale. Qualunque scontro prelude ad un avanzamento. Sempre la dialettica è questa: tesi, antitesi e sintesi. Ma soprattutto Napoli è da sempre governata dal notabilato e oggi proprio all'ennesima potenza con Manfredi. Cosa è il notabilato? Il notabilato sono i ceti professionali, ossia i professori universitari, gli avvocati, i medici, i primari, i notai. Il notabilato prevede per sua costituzione, ha nel suo DNA, la trasmissione del potere, la trasmissione della ricchezza, non la redistribuzione.

Che cosa è cambiato nel passaggio da Luigi De Magistris a Gaetano Manfredi?
De Magistris è stato un disastro totale, ha scontato la sua totale incapacità ad amministrare una città. De Magistris è un demagogo, un capopopolo, un Masaniello, che agitava, faceva casino. Ma ha distrutto la città anche nel suo tessuto culturale, perché si è affermata la logica di ognuno faccia quello che gli pare. Con Manfredi sicuramente c'è una persona perbene. Manfredi è sicuramente un galantuomo. Ha fatto bene il rettore, ha fatto così e così il ministro. Però una città non è un'università. Amministrare una città come Napoli così articolata, così difficile, così inguaiata anche, è un'impresa molto complessa. Poi quel ceto di potere che dopo il '92 con Tangentopoli un po' si era allontanato, si era ritirato a Posillipo, nelle sue ville e appartamenti, oggi in qualche modo ritorna un'altra volta.

Pensa che Manfredi riuscirà a mettere mano a Bagnoli che aspetta da trent'anni?
No.

Cosa farete di Bagnoli?
Rimane così vita natural durante.

Passiamo a una seconda parte dell'intervista.
Napoli e il Sud sono in grado di fare qualcosa per le persone disabili? Non soltanto per le persone con una disabilità fisica ma anche per le persone con una disabilità psichica? Come si sta muovendo il Sud e nello specifico Napoli sulla legge del dopo di noi?
È un problema che come le ho detto prima conosco alla perfezione sulla mia pelle a partire dal dopo di noi. Secondo me nel Mezzogiorno anche qui scontiamo un deficit di culturale proprio rispetto alla condizione della disabilità. Viene visto come un problema che appartiene sostanzialmente alle famiglie che ce l'hanno. Ma secondo me c'è un grandissimo deficit istituzionale. Lei mi accennava al dopo di noi. Qui è partito con molta fatica il dopo di noi. È partito perché le famiglie si sono mobilitate, alla fine anche grazie alla sensibilità dell'assessore comunale della nuova giunta Luca Trapanese, che ha adottato una bambina down ed è omosessuale. Quindi c'è una sua sensibilità. Però è stato molto complicato sbloccare i fondi. Poi non si sa quando arriveranno. Perché parlo di deficit istituzionale? Le faccio un esempio. Mia figlia fin da quando era piccola fa riferimento a questa associazione che si chiama TMA, Terapia Multisistemica in Acqua, che in parte è stata creata da uno psicologo che parte dal presupposto che in piscina tutti i ragazzi sono uguali. Lui attraverso questo lavoro in piscina li coinvolge, aiuta la socializzazione. Da qui è nato tutto un percorso, e oggi siamo arrivati proprio perché molte famiglie ponevano il problema del dopo di noi, siamo arrivati grazie a lui alla costruzione di un esperimento di co-housing, sullo schema un po' delle  case per le donne maltrattate, oggetto di violenza. In questa struttura dovrebbero trovare posto sei ragazzi disabili cognitivi. Ebbene abbiamo fatto tutto quello che doveva essere fatto, ma non riusciamo ad avere i finanziamenti pubblici. Altrimenti bisogna pagare una retta di quattromila e cinquecento euro al mese, una retta che non si può permettere nessuno. Non riusciamo ad avere i finanziamenti perché non c'è una legge che contempli questo tipo di esperimento, che è praticamente il primo in Italia. Cioè si ritiene che il disabile cognitivo sia un paziente socio sanitario e quindi debba andare a finire in una Rsa.

Tra l'altro con una grande miopia. Allo Stato costerebbe molto meno rendere le persone disabili autonome e presenti nel tessuto sociale. Il sistema attuale consente alle Rsa di fare grandi speculazioni e guadagni.
Esatto.

Lei condivide questa riflessione?
Perfettamente. È esattamente così. C'è una mancanza di elasticità rispetto a un problema così complesso. Noi parliamo di disabilità ma le disabilità sono infinite. Con mia figlia vedi che c'è chi sa fare una cosa e non ne sa fare un'altra. Io ho cresciuto mia figlia che adesso ha venticinque anni prima da solo e poi in compagnia.

Questo l'ha provata molto?
Sì, mi ha provato molto. Certo avrei preferito che mia figlia non fosse disabile. Però devo dire che ho avuto un'esperienza umana, un'avventura umana straordinaria stando vicino a mia figlia. Impari un altro alfabeto, è come se devi imparare l'aramaico, allora se impari quel linguaggio entri in connessione. Poi certo, ci sono dei momenti che daresti la testa al muro. Ci sono momenti in cui lei passa anche una giornata intera a urlare e non riesci a fermarla. Per fortuna mia figlia ha un grado medio di difficoltà. È una ragazza che ha una grandissima connessione sentimentale. È dolcissima. Poi ha i suoi momenti. Questa cosa ti cambia la vita naturalmente. Avrei preferito che mia figlia, in primo luogo per lei non per me, non avesse questo tipo di problemi. Però ti devo anche dire che oggi non cambierei in mia figlia con nessun normodotato, nella maniera più assoluta.

Napoli che cosa può fare, non per lei o per tua figlia ma per  stessa?
Ragionare come comunità e non come Io. Far prevalere il Noi sull'Io. Purtroppo a Napoli prevale l'Io. Certo, prevale in quasi tutto il paese.

Gianfranco Falcone

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