
Erwin Rommel (1891-1944) è stato certamente il più noto alto ufficiale dell’esercito tedesco. Lo storico Marco Mondini ne ha tracciato il profilo in un agile volume che fa parte di una collana, I signori della guerra, edita da RCS MediaGroup e abbinata alla Gazzetta dello sport da febbraio, con uscita settimanale. Mondini ripercorre le tappe della carriera di un giovane che, al contrario della maggior parte degli alti ufficiali dell’esercito imperiale, non proveniva dall’aristocrazia della Prussia orientale né dagli alti funzionari del Brandeburgo. I suoi genitori erano tedeschi meridionali, agiati e patriottici: schwaben (svevi), laboriosi e tranquilli. Rommel, amante della matematica, crebbe dunque in uno «strano connubio di patriottismo e amore per la cultura, nazionalismo e quiete domestica» apparentemente molto lontano dai gangli del potere e dai sogni di grandezza in cui verrà coinvolto durante il nazismo. Quando Hitler divenne cancelliere (gennaio 1933), Rommel, da quasi un anno Maggiore e dal 1929 istruttore alla scuola di fanteria di Dresda, fu nominato comandante di battaglione. Era già stato un valente ufficiale durante la Prima guerra mondiale, quando aveva mostrato le sue principali caratteristiche, qualità ma anche limiti. Molto audace fino a essere spesso imprudente e affidarsi all’improvvisazione; abile nella tattica ma non nella strategia; affidabile e stimato dai suoi sottoposti e dalla truppa (anche perché sempre in prima linea), ma non immune da una “voglia di apparire” che lo rendeva inviso a vari altri alti ufficiali.
Nella prima fase del regime nazista, Rommel iniziò quindi una scalata inarrestabile che lo portò a diventare, tra il 1939 e il 1943, Generale di brigata assegnato al quartier generale di Hitler di cui aveva guidato la scorta nei Sudeti, strappati alla Cecoslovacchia nel 1938 dopo il vergognoso Patto di Monaco. Poi comandante dell’Afrikakorps; Generale di corpo d’armata; Feldmaresciallo in seguito alla riconquista di Tobruk, che indebolì la posizione di Winston Churchill al vertice del governo e che costituì un grande trauma per gli inglesi; comandante in capo del gruppo di armate d’Africa. Dunque Rommel, già rivelatosi decisivo per i successi della Wehrmacht in Francia nel 1940, raggiunse l’apice della carriera in Africa ma, il 14 ottobre 1944, dopo la cacciata delle potenze dell’Asse da quel continente seguito al suo trasferimento nel 1943 in Italia centro-settentrionale (dove si mostrò alquanto brutale nell’attuazione delle rappresaglie contro l’esercito regio accusato di aver tradito dopo l’8 settembre) e poi in Francia, fu costretto al suicidio proprio da Hitler, della cui guida politica era stato «un sincero ammiratore». Perché? Cosa accadde di così grave da portare Rommel a togliersi la vita per salvare la famiglia? La volpe del deserto aveva preso coscienza che, dopo lo sbarco in Normandia, la guerra non si poteva vincere e che sarebbe stato opportuno puntare alla pace per salvare il salvabile. La moglie e il figlio testimoniarono poi che Rommel aveva perso ogni fiducia in Hitler, mettendo in dubbio la sua sanità mentale. Ma questo mutato atteggiamento aveva coinciso davvero con la convinzione che il führer dovesse lasciare la guida della Germania o che, addirittura, dovesse essere eliminato? Quali furono i reali rapporti che Rommel coltivò con i cospiratori che, guidati dal colonnello Claus Schenk von Stauffenberg, con l’operazione Valchiria (fallita per un soffio e seguita da una terrificante repressione che colpì circa 200 militari), tentarono di uccidere Hitler il 20 luglio 1944? Mondini spiega che nessuno dei suoi biografi, in realtà, ha del tutto risolto il mistero.
Quel che forse è più interessante, tuttavia, è provare a capire come Rommel divenne una sorta di mito non solo per i tedeschi, ma anche per gli Alleati e per gli studiosi che, dopo la guerra, ne approfondirono la vita evidenziando, in particolare, le sue qualità. Ma mettendo in secondo piano i suoi limiti e presentandolo come un militare “puro”, cioè alieno da vere simpatie politiche e sostanzialmente insensibile agli ideali nazisti, quasi come se egli si fosse dovuto adeguare a una situazione imposta dai tempi e si fosse mantenuto per tutta la vita veramente fedele solo al suo lavoro. Le cose però non stanno proprio così, come senza alcun eccesso polemico spiega Mondini. Rommel non fu solo ingenuo, immaginando da un lato che Hitler potesse farsi da parte volontariamente e, dall’altro, che alcuni generali ai quali concesse la sua fiducia (von Kluge e Guderian, un suo vecchio superiore e “profeta” della guerra-lampo) potessero prendere in extremis un’iniziativa politica per cambiare le sorti del III Reich e uscire dalla guerra in tempo per evitare il disastro, iniziativa che non ci fu. Rommel, in realtà, proprio grazie a Hitler divenne una figura determinante per il corso del conflitto, prima di cadere in disgrazia, e aderì al progetto di un mondo nuovo forse senza capirne tutti i contorni, ma certamente non rimanendo neutrale alle lusinghe del potere ed eseguendo con disciplina gli ordini che gli vennero impartiti dal führer, anche quelli ben poco “onorevoli”.
La narrazione di un Rommel a lungo invincibile, prestato a una causa sbagliata ma corretto verso gli avversari, convenne anche agli inglesi e agli italiani, questi ultimi forse alla ricerca di un vero “condottiero” rispetto a coloro a cui dovevano rispondere nei momenti più difficili del conflitto. Gli stessi vertici dell’VIII armata britannica, soprattutto dopo che Montgomery sostituì Auschinleck (che temeva la crescente popolarità di Rommel tra i suoi soldati), tesero a descriverlo come un avversario quasi invincibile innanzitutto per esaltare ancor di più i propri successi e innalzare il morale delle truppe, sfiancate e bisognose di ulteriori stimoli per avere ragione del nemico. Rommel, in realtà, come fa notare Mondini, tese a scaricare sugli altri (italiani compresi) gli insuccessi che dipesero molto da lui. Anche Hollywood alimentò la creazione della leggenda quando, nel 1951, sulla base della biografia scritta da Desmond Young e delle memorie della moglie Lucie, la Twentieth Century Fox produsse il film The Desert Fox: the Story of Rommel interpretato da James Mason, per ironia della sorte obiettore di coscienza durante la guerra, «che conferì al suo personaggio un tratto nobile e tragico, lontano dallo stereotipo caricaturale del militare nazista sadico e alienato che spopolava sugli schermi dell’epoca». Il processo di autentica mitizzazione proseguì nel 1953 con la pubblicazione dei Rommel Papers, i carteggi e le memorie inedite del feldmaresciallo assemblati e commentati da Basil Liddell Hart, con la collaborazione di Manfred, figlio di Edwin. Al talento militare si affiancò «il suo lato umano, quello di un uomo leale e cavalleresco, forte e coraggioso, in grado di attirare anche le simpatie del nemico». Un quadro, per Mondini, esagerato e in parte rivisitato in un secondo tempo da studiosi come Mark Connelly e David Fraser, un quadro coerente con la presa di distanza dalla politica e l’inevitabile rispetto per gli ordini che fu, in realtà, l’alibi dietro il quale anche dopo Norimberga quasi tutti gli ufficiali tedeschi nascosero i crimini commessi.
Era iniziata la Guerra fredda, la Repubblica Federale Tedesca avrebbe avuto un ruolo determinante nella stabilizzazione dell’Europa occidentale sotto l’ombrello della NATO, un accordo con l’Italia avrebbe consentito l’accantonamento dei reciproci crimini di guerra compiuti innanzitutto in Europa, senza dimenticare l’Africa. L’idea che ci fosse stata una parte dei vertici politico-militari tedeschi non proprio allineati al nazismo avrebbe favorito nuovi scenari, nel nome della costruzione della democrazia e della lotta al comunismo. Ma Rommel, pur non essendo animato da sentimenti antisemiti, in realtà aveva sposato la politica del III Reich fin dalla sua nascita ed era rimasto fin quasi alla fine grato a Hitler, che gli aveva consentito di scalare velocemente l’Olimpo del regime sotto la sua protezione. Questo «fino al punto di esitare quando gli venne chiesto se preferiva tradire il giuramento di fedeltà al dittatore che l’aveva favorito, o tradire il proprio Paese condannandolo all’annientamento», in realtà annientando anche se stesso e riuscendo a salvare solo la famiglia. Ma non la tanto sbandierata dignità di un combattente coraggioso e non proprio disinteressato, attore protagonista di una delle epoche più buie dell’umanità.
Andrea Ricciardi
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