
Della prof Elenza Ziliotti avevo seguito con attenzione alcune sue dichiarazioni e suoi ragionamenti e mi sembrava fosse fruttuoso un confronto con lei. A maggior ragione ora con il suo nuovo incarico all’interno di un esteso progetto di ricerca tra filosofia e nuove tecnologie. Indubbiamente nella sua intervista credo che possiate leggere di temi di valore e spunti per riflessioni che spaziano dal Confucianesimo al taglio dei parlamentari all’etica dei social.

Elena Ziliotti si occupa di teorie democratiche occidentali e confuciane e l’impatto di nuove tecnologie in filosofia politica. Nel 2013 ottiene una borsa di studio per un dottorato di ricerca in filosofia presso il King’s College di Londra e la National University of Singapore. Nel 2019, inizia attività di ricerca presso l’Università di Wuhan (Cina) e vince la China International Postdoctoral Exchange Fellowship. L’anno seguente entra a far parte dell’Università tecnologica di Delft (Olanda) come Assistant Professor di etica e filosofia politica. Le sue più recenti pubblicazioni:
“Political Meritocracy and the Troubles of Western Democracies,” Philosophy and Social Criticism (2020). “Democracy’s Value: A Conceptual Map,” Journal of Value Inquiry 54 (2020), pp. 407–27. “Public Deliberation in a Globalized World? The Case of Confucian Customs and Traditions”, in The Yearbook Practical Philosophy in a Global Perspective, edito da Michael Reder (Freiburg: Karl Albert Publishing, 2018), pp. 339−61.
Lei è Assistant professor di Etica e Filosofia Politica all’Università di Delft. Quando e come mai la sua vita di donna ha incrociato l’etica e la filosofia? Come connotano la sua quotidianità personale? Perché studiare e lavorare all’estero? Una scelta o si è vista costretta ad emigrare?
Il contesto familiare in cui sono cresciuta incise particolarmente sul mio interesse per l’argomentazione e questioni etiche. Sebbene entrambi colti e istruiti, mia madre e mio padre avevano visioni del mondo molto diverse. Professoressa universitaria di matematica, cattolica e deduttiva, lei. Ex-studente di sociologia formatosi a Trento nel ‘68, intuitivo e agnostico, lui. Conversazioni amichevoli emergevano naturalmente intorno al tavolo da pranzo. Essendo la più giovane di tre figlie, tali conversazioni sono state molto formative per me.
Anche la mia passione per la filosofia nacque tra le mura di casa. Durante l’ultimo anno di liceo, iniziai a leggere alcuni libri della biblioteca di mio padre. Cercando spunti per il tema della ricerca di maturità, mi imbattei in ‘L’uomo a una dimensione’ di Herbert Marcuse. Il libro mi colpì profondamente e mi spinse a rivalutare il mio approccio allo studio. Ritenevo che lo studio fosse un mio dovere ma mi sfuggiva l’obiettivo di quel processo ripetitivo e faticoso. La critica di Marcuse mi aiutò a capire che il sapere non è una pratica fine a se stessa, ma ha uno scopo pratico ben preciso e la filosofia ci aiuta a capire come possiamo migliorare il mondo. Decisi di discutere il pensiero politico di Marcuse all’esame di maturità (anche se non era parte del curriculum) e continuare a studiare filosofia all’università.
Durante i miei studi universitari scoprii che ero interessata a fare filosofia, non storia della filosofia (ciò che la maggior parte dei dipartimenti di filosofia italiani erano soliti fare a quei tempi). Volevo formulare e rispondere a domande filosofiche, non solo studiare il pensiero di altri. Mi resi anche conto che l’Università italiana era in grave difficoltà e la situazione era destinata a peggiorare ulteriormente. Quindi, decisi che perseguire un Master all’estero fosse la cosa migliore da fare per entrare nel mondo accademico. Dopo diversi moduli di domanda inviati all’estero, nel 2013 fui ammessa al programma di dottorato congiunto tra il King’s College di Londra e la National University of Singapore, due delle migliori università del mondo. Vivere a Singapore finì per cambiare la mia vita; mi espose a diverse tradizioni filosofiche e ideali politici. Inoltre, a Singapore conobbi quello che poi è diventato mio marito.
Nei nostri primi scambi mi ha accennato che è appena entrata a far parte di un importante progetto sul’Ethics of Social Disruptive Technologies. Quali sono gli obiettivi del progetto e quale il suo ruolo?
In collaborazione con altre quattro università olandesi, l’Università tecnologica di Delft ha lanciato nel 2020 uno dei più grandi progetti di ricerca nella storia della filosofia. Finanziato principalmente dal Ministero dell’Istruzione olandese, il progetto mette insieme una squadra di quasi 40 studiosi.
L’idea alla base del progetto è che le nuove tecnologie stanno cambiando non solo il modo in cui viviamo, ma anche concetti filosofici fondamentali. Solitamente, la tecnologia è spesso vista come uno strumento ‘neutrale’, qualcosa che uomini e donne hanno creato per cambiare il mondo secondo le loro necessità e ambizioni. Tuttavia, la tecnologia ha un forte valore sociale perché altera equilibri sociali, politici, ed economici. Ad esempio, alcuni colleghi all’Università di Delft sostengono che l’architettura dei social media influisce non solo sul modo in cui ci esprimiamo e parliamo l’uno con l’altro ma anche sul contenuto delle nostre reazioni. La ragione è che il modo in cui questi social media sono progettati rende più facile esprimere alcune emozioni piuttosto che altre. Ovviamente, questo ha un forte impatto politico. Pertanto, è imperativo rivalutare e “aggiornare” i concetti filosofici in luce degli effetti delle nuove tecnologie.
All’interno di questo progetto di ricerca, sono la co-coordinatrice della linea di ricerca dedicata alla filosofia politica. La mia ricerca ruoterà principalmente attorno a due temi: uno è il significato e la funzione della democrazia nell’era digitale, l’altro guarda all’Asia e sviluppa una nuova comprensione delle sfide dell’era digitale da una prospettiva confuciana.
Nei suoi studi c’è uno sguardo di cui raramente si trova traccia nel discorso politico: il Confucianesimo e le sue connessioni con la democrazia. Il Confucianesimo è un immenso sistema di valori che si propaga e si sviluppa da tempi immemorabili in Asia. Uomo e società in rapporto intrecciato con la natura in maniera armoniosa, sia pur all’interno di gerarchie di valori e di ruoli ben precisi. Un modello diverso di democrazia? Cosa accosta nelle sue ricerche confucianesimo e democrazia?
Quello che accosta Confucianesimo e democrazia nelle mie ricerche è il tentativo di contribuire alla comprensione di un cambiamento politico che interessa diverse parti dell’Asia orientale. Il Cnfucianesimo è una tradizione politica antichissima e pochissimi si considerano confuciani. Tuttavia, le pratiche e i valori confuciani regolano ancora molti aspetti della vita in quella regione. D’altra parte, spinta dagli sviluppi economici e tecnologici, l’Asia orientale sta attraversando cambiamenti sociali significativi e probabilmente otterrà un ruolo sempre più rilevante nello scenario internazionale. Alla luce di questi fatti, molti filosofi si chiedono quali sistemi politici siano in grado di guidare una tale trasformazione sociopolitica, rimanendo al contempo in sintonia con i valori e le tradizioni locali. Il dibattito è dinamico, c’è però un punto su cui molti si trovano d’accordo: il futuro dell’Asia non si scriverà secondo ideali occidentali. Da qui, l’interesse per il Confucianesimo come guida filosofica.
A mio avviso, questi cambiamenti possono acquistare un significato positivo all’interno di un quadro istituzionale democratico. Come dicevo, c’è un forte consenso sul fatto che i valori liberali non siano compatibili con le culture dell’Asia orientale. Tuttavia, l’autoritarismo è un’alternativa inaccettabile. Questa posizione apre le porte ad una ricerca filosofica estremamente stimolante: lo studio di un’idea nuova di democrazia. Questo è interessante non solo per l’Asia orientale, ma anche per l’occidente. Considerando l’odierna crisi delle democrazie liberali, questo studio può aiutarci a comprendere alcuni dei limiti dei modelli democratici liberali ed eventualmente trovare nuove soluzioni.
Confucianesimo e leadership. In una recente ed estremamente stimolante intervista, concessa a Simone Pieranni su Il Manifesto, ha spiegato che «il confucianesimo ha ancora una forte autorità simbolica sia tra la gente che tra i leader politici. Ad esempio, il partito comunista cinese è il partito al governo della Cina, ma Xi Jinping cita sempre più Confucio che Mao nei suoi discorsi pubblici». Quali i valori più ricorrenti nella filosofia politica? Quanto c’è di convinzione intima e quanto di strumentale nella leadership cinese? Sempre rispetto alle leadership, la situazione è diversa negli altri paesi dell’Asia dove solo in Indonesia e ad Hong Kong è considerata una religione?
Alcuni dei valori più ricorrenti nel pensiero politico confucianesimo sono la benevolenza come principio guida della leadership politica, la governance efficiente nel mantenere un ordine politico stabile e armonioso, ma soprattutto creare le condizioni materiali per la coltivazione morale degli individui. Quanto i leader del Partito Comunista Cinese credano in questi valori va oltre la mia conoscenza. Probabilmente opinioni e punti di vista diversi coesistano al suo interno. Il Partito Comunista Cinese è un’istituzione enorme, con novanta milioni di iscritti e si diffonde su un territorio vastissimo.
Come hanno sottolineato alcuni osservatori, l’uso dei valori confuciani nella retorica politica del partito può essere un segnale incoraggiante. Il suo uso stabilisce un modello attraverso cui valutare le decisioni politiche reali. In altre parole, esprimere pubblicamente preoccupazione per il benessere dei membri della collettività ti costringe ad agire di conseguenza se vuoi mantenere la fiducia delle persone. Naturalmente, le implicazioni più pratiche di questi ideali sono oggetto di disaccordo. A questo proposito, gli studi sulle questioni politiche contemporanee da una prospettiva confuciana possono essere d’aiuto.
Veniamo all’attualità italiana. Si è votato per il referendum costituzionale che ha previsto il taglio dei parlamentari. Molti studiosi e, più modestamente anch’io, sono dell’opinione che sia una ferita alla democrazia perché come ha spiegato la docente di diritto costituzionale Alessandra Algostino intaccare «la rappresentanza, come avviene con la riduzione del numero dei parlamentari, depotenzia la sovranità popolare, in specie attraverso l’espulsione delle minoranze e lo scardinamento di presupposti ineliminabili della democrazia». Lei cosa ne pensa?
Credo che i problemi più seri che affliggono la politica italiana dipendano dalla qualità del lavoro dei nostri rappresentanti politici, non dal loro numero totale. Il taglio dei parlamentari si prefigge l’obiettivo di aumentare la qualità della rappresentanza politica incidendo sulla quantità dei rappresentanti. Ma questo è chiaramente insensato e mi stupisce che molti italiani non siano riusciti a comprendere tale insensatezza. Se ci preoccupa la qualità della politica italiana, la soluzione non è ridurre il numero di parlamentari ma sostituirli con persone più competenti che abbiano a cuore i problemi di questo paese.
Ciò di cui l’Italia ha più bisogno non è un referendum sul numero dei parlamentari, ma un dibattito su quello che in inglese vengono chiamate “big questions“. Politici e cittadini, con l’aiuto dei media, dovrebbero chiedersi dove stiamo andando come paese e quali sono le priorità da perseguire insieme. Una cosa che abbiamo imparato dalla pandemia è che gli stati nazionali non sono morti, come molti intellettuali ritenevano da tempo. Al contrario, l’entità politica che chiamiamo Stato e il suo governo possono svolgere un ruolo chiave anche in un mondo globalizzato come il nostro. Allora, quale tipo di stato vogliamo? In che cosa crediamo? Crediamo in un sistema sanitario pubblico forte? In un sistema scolastico che dia ai nostri giovani le stesse opportunità dei loro coetanei nei paesi del nord Europa? Se questi obiettivi ci avvicinano, indipendente dal nostro orientamento politico, ci sono condizioni sufficienti per creare e realizzare insieme una visione politica comune.
Forse, questo è il momento giusto per affrontare un tale dibattito. La pandemia non ha solo scombussolato in modo drammatico il nostro modo di vivere, ma ha reso chiara una verità indiscutibile: grillini, leghisti pro-Salvini, leghisti pro-Zaia, renziani, liberal, cattolici, gente di sinistra pro-Zingaretti, gente di sinistra contro Zingaretti, dipendiamo tutti l’uno dall’altro. Quindi, perché non discutere su ciò che ci accomuna, piuttosto che quello che ci divide? Questo potrebbe essere un modo intelligente per sfruttare le nostre diversità.
Tra le sue attività di studio c’è anche la meritocrazia. In Italia la sua evocazione è un modo per contrastare una storia spesso fatta di vantaggi altrui basati su relazioni clientelari. Un termine anche accostato alla democrazia. Credo che la questione sia più complessa e anzi in alcuni casi è un modo per sostituire l’aristocrazia di nascita con l’«aristocrazia dell’ingegno», comunque fonte di disuguaglianze soprattutto con lo slittamento in senso economicista del termine. Il merito è poi un concetto associato strettamente all’individuo e ai suoi interessi/obiettivi e non alla comunità. Gli studi e le ricerche sul campo dove ci portano?
Molti disaccordi sulla meritocrazia derivino da una certa confusione sul significato del termine “meritocrazia“. La meritocrazia intesa come allocazione di posizioni lavorative in base alle competenze individuali viene spesso proposta (soprattutto da liberalisti) come metodo per distribuire posizioni lavorative allo scopo di migliorare l’efficienza del sistema lavorativo. Tuttavia, tale idea di meritocrazia ha implicazione elitarie.
Bernard Williams, un filosofo inglese del Novecento, metteva la questione nei seguenti termini. Si immagini un’ipotetica società governata da una classe di ricchi guerrieri. A un certo punto, per mitigare la crescente insoddisfazione popolare nei confronti dell’attuale regola elitaria, i guerrieri decidono che i futuri leader non verranno più scelti in relazione ai loro legami familiari ma solo in base alla loro forza fisica. In questo nuovo scenario, i membri della società avranno la stessa possibilità di diventare sovrani. Ma la composizione della classe dirigente cambierà di poco—sostiene Williams—se solo le famiglie più agiate di guerrieri potranno fornire ai loro figli il nutrimento adeguato a sviluppare una forza fisica superiore.
L’esempio di Williams mostra che, in una società caratterizzata da disuguaglianze socioeconomiche (come l’Italia), un sistema selettivo che pretende di assicurare uguali diritti di competere per una posizione è ingiusto. Tale sistema ignora il fatto che i membri della società hanno un diverso punto di partenza nella corsa per quella posizione. Nel caso in cui si decida di allocare posizioni lavorative in base alle competenze individuali dei candidati, le figlie e i figli delle famiglie più abbienti o con maggiori legami sociali avranno più possibilità di frequentare Università prestigiose, fare un tirocinio alle Nazioni Unite o magari a Bruxelles o Pechino.
Che fare quindi? Buttare via l’idea di meritocrazia e concludere che il merito non conta nulla? Prima c’è da chiedersi se la proposta di far competere tutti in base alle loro competenze individuali sia veramente meritocratica. Se la meritocrazia consiste nel dare a tutti uguali opportunità di correre per una certa posizione, allora non implica solamente la creazione di processi selettivi per individuare i ‘migliori’ (quelli cioè con le migliori qualità e competenze). La meritocrazia richiede di dare a tutti anche uguali opportunità di maturare le qualità indispensabili per essere selezionati. Nell’esempio precedente, è chiaro che, come nella società di guerrieri di Williams, i candidati vincenti non ‘meriteranno’ la loro posizione perché la loro vittoria dipende principalmente dai loro vantaggi sociali. Per questo motivo, sostengo che, quando si parla di meritocrazia, una selezione imparziale e pari opportunità di formazione sono due facce della stessa medaglia. Certo, anche la mia definizione di meritocrazia fa perno sull’idea di individuo, ma nulla toglie che una meritocrazia efficiente e giusta possa giovare alla comunità stessa.
Per finire la nostra conversazione, non una domanda ma una richiesta di supporto. Lei si occuperà di tecnologie socialmente dirompenti nel gruppo di ricerca di cui parlavamo all’inizio. Sono dirimenti per quello che significano e comportano nelle nostre esistenze quotidiane e nel prossimo futuro. Tornerà a trovarci per raccontare i suoi studi e la sua esperienza?
Ne sarei lieta. Ci potete contare!
Pasquale Esposito
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