
L’Etiopia rappresenta oggi una delle poche nazioni stabili e affidabili del continente africano, da anni al lavoro per gettare i presupposti di una crescita economica che faccia uscire il paese dal sottosviluppo. Corteggiata da molti paesi occidentali, non ultimo il nostro con la visita del Presidente della Repubblica nei giorni scorsi, offre prospettive di investimento su più piani. Da una parte il settore dell’agrobusiness, da intendersi soprattutto come floricoltura e prodotti d’eccellenza come il caffè, dall’altra quello energetico, attraverso lo sfruttamento delle risorse idroelettriche.
Proprio in quest’ultimo campo l’Etiopia sta portando avanti grandi progetti volti ad affermare l’autosufficienza energetica ed a permetterne l’esportazione nei paesi vicini: La Grande diga del millennio sul Nilo e il sistema di dighe Gibe sull’Omo.
Per la costruzione della diga Gibe IV, secondo quanto riportato sul quotidiano The Reporter di Addis Abeba, è prevista la firma di un contratto tra l’Ethiopian Electric Power e il gruppo Salini Impregilo, la principale impresa italiana ad operare all’estero nel settore delle costruzioni e dell’ingegneria. Affari per gli investitori che parlano di occasioni di sviluppo e di occupazione, ma a parte i dubbi sui risvolti positivi bisogna dire che, già per costruire la Gibe III, centinaia di persone sono state uccise durante le repressioni di proteste e manifestazioni e molte altre potrebbero esserlo.
Pochi mesi fa una manifestazione antigovernativa è stata duramente repressa dalle forze di sicurezza di Addis Abeba che si sarebbero accanite soprattutto nei confronti dei dimostranti scesi in piazza a fianco delle popolazioni Oromo che protestavano contro i piani di ricollocazione imposti dal Governo nell’ambito dei progetti di sviluppo.
Da sempre l’Etiopia è un Paese in cui convivono gruppi etnici diversi i cui equilibri, in passato, venivano retti da un rigido controllo da parte dell’etnia storicamente dominante, quella Amhara. Oggi a gestirli è la minoranza Tigrina del Nord, salita al potere negli anni ‘90 dopo il rovesciamento del regime filosovietico retto da Manghistu Hailé Mariam.
L’etnia Oromo rappresenta circa il 32% della popolazione etiope e vive principalmente nell’Oromia, regione centro-meridionale, la più estesa e popolosa dell’Etiopia, che attualmente produce l’80% delle esportazioni di caffè del paese e ospita quasi il 75% del bestiame del Corno d’Africa. È un popolo che ha dovuto abituarsi a lottare per la propria sopravvivenza e libertà già dalla fine dell’800, quando le potenze europee che stavano invadendo l’Africa decisero di “civilizzare” i popoli del Sud. Da allora gli Oromo hanno dovuto fare resistenza ai vari colonizzatori, anche interni, attraverso i guerriglieri del Fronte di liberazione del popolo Oromo (OLF) riuscendo a riprendere fiato solo all’inizio degli anni ’90 quando, dopo 30 anni di lotta, la deposizione del regime militare segnò l’inizio dell’indipendenza dell’Eritrea. La tregua durò pochi anni e gli Oromo tornarono presto ad essere di ostacolo agli interessi economici e geo-strategici del nuovo governo formato da Meles Zenawi (regime filoamericano). Tra il ’92 e il ‘95 molti loro rappresentanti (politici, cantanti, poeti e nazionalisti) vennero massacrati e giustiziati spingendo i guerriglieri dell’OLF a rinforcare le armi e riprendere la loro lotta contro l’esercito etiope. I giovani oromo (gli studenti hanno il diritto di studiare la propria lingua nelle scuole dell’Oromia solo dal 1992) sono vittime di persecuzioni nelle scuole e nelle università: avvelenamenti, omicidi di massa ,torture e stupri. Ma i bersagli più indifesi sono sempre stati loro, i contadini, vittime della politica di accaparramento delle terre iniziata dall’ex Premier Zenawi e proseguita dall’attuale Premier Hailè Mariàm Desalegn.
L’accaparramento delle terre (land grabbing) è una vergognosa pratica che esiste da molti anni ma che, dallo scoppio della crisi finanziaria, è cresciuta in maniera esponenziale spingendo nella fame migliaia di contadini del Sud del mondo. Le terre vengono vendute a terzi, aziende o governi di altri paesi, senza il consenso dei popoli che vi abitano da tempo immemorabile e che la utilizzano per il loro sostentamento. In cambio nessuna compensazione e nessun risarcimento. L’esproprio economico e il colonialismo diretto con l’espulsione dei contadini Oromo dalle loro terre si traducono nel massacro di uno dei popoli più antichi e numerosi del continente africano. Questo tipo di attività, infatti, danneggia non soltanto le persone ma anche l’ambiente. Survival International, il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni, denuncia che la costruzione della Gibe III (contratto assegnato senza gara al gruppo Salvini Impregilo) avrà un impatto devastante sulle popolazioni indigene dell’Omo Valley e sull’esistenza del Lago Turkana, da cui dipende la sopravvivenza di almeno 300.000 persone.
Non ci sarebbe niente di male nel modificare la destinazione d’uso delle terre, se questo fosse fatto nel rispetto dell’ambiente e dei diritti umani fondamentali. Se il profitto di questi “investimenti” fosse redistribuito non verso imprenditori, azionisti e governi ma verso quelle civiltà che per quei profitti hanno rinunciato involontariamente alla loro unica risorsa, la terra. Invece non è così. In Etiopia la maggior parte della popolazione vive ancora con un reddito poco superiore a un dollaro al giorno e l’Indice di Sviluppo Umano è uno dei più bassi al mondo. Durante i meeting internazionali, quando i rappresentanti si incontrano per discutere di grandi sistemi e alleanze, alle parole investimenti, terrorismo, lotta alla povertà, immigrazione e cooperazione aggiungiamone un’altra: diritti.
«Tutti i popoli hanno il diritto di autodeterminazione, il diritto di determinare liberamente il loro stato politico e di cercare liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale.»”
Articolo 1 dei Patti internazionali sui diritti civili e politici.
Federica Crociani
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