
Centoventisei, romanzo uscito dal felice connubio creativo tra un famoso sceneggiatore e un giornalista – nonché presidente della Commissione Antimafia siciliana – è un lavoro che vuole invitarci a guardare dal di dentro il quotidiano di un piccolo microcosmo palermitano. Infatti sono solo tre i personaggi, che nolente e/o volente ruotano senza possibili alternative intorno a quel sistema criminale che è la mafia, sostantivo mai usato esplicitamente in nessuna pagina del romanzo.
Certo, non è difficile abbinare la Centoventisei” con i preparativi della strage di Via D'Amelio del 1992, ma Enzo Abbate e Claudio Fava pur facendolo intravedere al lettore non vogliono approfittare dei vantaggi che avrebbero potuto ricavare dilatando i dettagli della cronaca, perché la loro originalità li porta a concentrarsi solo, come detto prima, su tre anonime persone di quelle cioè che non entreranno mai neanche nei brevi resoconti dei giornali locali.
Un killer trentenne dubbioso sul suo futuro professionale, Gaspare, “ma tutti mi chiamano Gasparo perché a Palermo i nomi devono finire con la o. Gaspare pare il nome di una pulla [prostituta; ndr]. Quindi io sono Gasparo”, sua moglie Cosima al nono mese di gravidanza e il diciottenne Cristoforo, che tutti chiamano Fifetto, deciso a diventare mafioso. È una umanità direi artificiale, priva di tutto, che comunque non avverte mai, se non in rari casi, nessuna debolezza, nessun vuoto, perché in realtà ognuno di loro crede di essere al posto giusto, parte integrante, di quella fetta di Palermo che accetta l'assioma “Ci sono due specie di uomini, quelli che uccidono e quelli che muoiono. Tu che uomo sei?”. Oltre c'è il nulla.
La vicenda narrata si svolge nell'arco temporale di un giorno e mezzo, dal sabato mattina alle prime ore del pomeriggio di domenica, in parte ricordando il monumentale Ulisse di Joyce, ma qui non c'è nulla di magico e attraente.
I tre personaggi si muovono disinvolti in una Palermo dilaniata dal caldo, quasi fosse un girone infernale, dominato dalla violenza dello scirocco che riversa sulla città tutti quegli odori malsani – smog, miasmi di salsedine mista a fetore di pesci morti, il fritto delle panelle agli angoli delle strade – dai quali non è possibile fuggire. Bisogna accettarli e subirli. Non c'è via di scampo.
Proprio da questo fetore stagnante, che non è solo atmosferico, vengono sigillate le azioni di Gaspare, Cosima, Fifetto, e gli autori ce le consegnano con pagine brevi, essenziali, utilizzando una scrittura dai periodi stringati dove mai nessuna parola è superflua, grazie anche all'insostituibile aiuto fornito dall'uso dei termini dialettali, esaurienti come sempre, più di ogni altro vocabolo in lingua.
Al di sopra dello scirocco e delle sue conseguenze, c'è il destino a sorvegliare le azioni dei tre; un destino immobile, immanente, al quale loro già sanno dovranno andargli incontro, guardarlo in volto, ed accettarlo, in quanto non ci possono essere alternative a ciò che hanno accettato come l'unica speranza per poter vivere la vita che hanno. Gaspare, a dire il vero, problemi non se ne fa o forse non se ne fa più. “Mi chiamo Gasparo e faccio il killer”, ma la sua carriera nella malavita è iniziata, come ogni altro tipo di lavoro, sbrigando affari di routine per conto del suo capo mandamento; qualche rapina, incendi ai negozi di chi non pagava il pizzo. Forse un lavoro troppo stancante, poco gratificante “quando dovevo dare fuoco a un negozio mi si appiccicava sui vestiti e sui capelli un odore di benzina bruciata che non se ne andava nemmeno dopo mezz'ora di doccia e mi dovevo sopportare pure a Cosima che mi vanniava [urlava, ndr] perché ci stavo consumando tutta l'acqua calda”, foriero soltanto di liti con sua moglie.
Poi il salto di qualità, dopo aver passato un po' di tempo ad uccidere quei cavalli che perdevano nelle corse clandestine. Sangue freddo e una mira portentosa gli garantiscono un avanzamento di carriera, potremmo dire, quando “… s'è messo una mano in tasca, ha tirato fuori una Renato Gamba 38 special con la canna da due pollici e mezzo. Nera. Pulita. Un gioiellino… Totuccio mi ha preso il palmo della mano e ci ha poggiato sopra la pistola”.
D'altronde con una logica stringente, se è bravo a sparare agli equini lo sarà anche nei confronti di una persona. Ed infatti è quello che avviene e Gaspare il suo lavoro lo fa con scrupolo e diligenza come ogni bravo dipendente, non ci prova né gusto né dispiacere.
È semplicemente un lavoro, uno come tanti altri ed anzi va anche tenuto stretto e salvaguardato “perché a Palermo di lavoro ce n'è poco. Io poi conosco lavori peggiori. Friggere panelle e meusa [milza, ndr] in corso Calatafimi col fumo dell'olio che ti entra dal naso, dagli occhi, dal buco del culo, e alla fine ti scassa i pensieri, te li fa neri e arrostiti come la brace”.
Leggere le pagine che Abbate e Fava dedicano alla figura di Gaspare è stato per me un po' come sfogliare una raccolta di radiografie, lastre tutte uguali, dove l'immagine non è mai sfocata, dove non ci sono colori, dove lui non può nutrire dubbi sull'utilità del suo lavoro perché a Palermo, nella “sua” Palermo, non ci sono amici ma solo quelli che uccidono e quelli che muoiono.
Ed allora non ho potuto fare a meno che ricollegare l'elementare schematicità di pensiero del killer con la mediocrità e banalità del male, come ci ha indicato Hannah Arendt, dove qualunque mediocre individuo, banalmente comune, può compiere atti criminali se inserito in un meccanismo che lo spinge ad agire senza pensare al valore morale delle sue azioni, come fa Gaspare in quel mondo stagnante, che è invece visto come l'inaccessibile punto di arrivo del diciottenne Cristoforo, conosciuto da tutti come “Fifetto”. È lui che il capo mandamento assegna a Gaspare per rubare la “centoventisei” e per il giovane scunchiurutu [scemo, ndr], dalla “faccia di minchia” è ovviamente motivo di soddisfazione “Cosa cazzo ho fatto di buono? Me lo chiedo da stamattina. Voglio dire, dopo tutto questo tempo passato a farmi notare, a chiedere a destra e a manca di mettermi alla prova, sì, insomma di farmi entrare nella famiglia di Domineddio… Uno sogna e poi i sogni si avverano? Oh, mi dovete capire, sono contento… È che ormai ci avevo messo una pietra sopra… e poi da zero a mille: perché io questo Gasparo lo conosco, ed è uno grosso… È un killer: minchia che killer!”.
E sì, “Fifetto” l'occasione non vuole farsela scappare ma è difficile ancora credere che la vita questa volta gli stia sorridendo, a lui, proprio lui che ha dovuto subire torti di ogni genere, perché una cosa l'ha capita e cioè che la vita va presa così, senza farsi troppe domande, perché altrimenti è lei che ti prende “e ti cafudda [sprofonda, ndr] giù dove io sono stato già troppo tempo e dove non ho più voglia di stare”.
Cristoforo/Fifetto è l'esatto contr'altare del suo idolo Gaspare, tentato di abbandonare il lavoro pur sapendo a quale pericolo mortale si esporrebbe, vuole dimostrare a chi gli ha concesso fiducia di essere pronto al grande salto, e non vuole farsi trovare impreparato. L'ordine di rubare insieme a Gaspare quella insignificante “centoventisei” senza conoscerne il motivo, un lavoro sicuro e senza pericoli, vuole dire realizzare il suo sogno di sempre “perché uno deve avercelo un sogno, penso. Uno deve sapere dove andare. Sennò come minchia fai a capire se sei buono o una testa di minchia? Non mi vergogno a dire che voglio diventare il killer dei killer di Palermo”. Cristoforo/Fifetto conosce le regole e sa stare al suo posto, pronto a sfruttare ogni opportunità che quel mondo vorrà concedergli, unico ascensore sociale a lui noto ma, probabilmente, il destino di uno scunchiuruto è segnato fin dalla nascita e gli autori lo accompagnano senza rimpianti al suo incontro.
Gaspare e Cristoforo/Fifetto sono sostanzialmente soggetti che non si pongono molte domande, la loro psicologia è lineare, quasi piatta, non riserva mai sorprese, e stride con la complessità del pensiero di Cosima, moglie ventinovenne di Gaspare al nono mese di gravidanza e con due aborti spontanei alle spalle. Razionalità e pensieri al limite del metafisico, tipico della mentalità siciliana, sono gli strumenti che la giovane donna è costretta ad usare per vivere in quel mondo che lei ha accettato, probabilmente per amore verso Gaspare.
“Mi chiamo Cosima, c'ho ventinove anni e mio marito è mafioso. Ma è pure un bravo cristiano, un lavoratore, uno che si toglie gli occhi dalla faccia per farmi stare bene. Solo che il suo lavoro è quello: fare cose tinte. Le faceva pure quando l'ho conosciuto”.
Cosima, ovviamente consapevole del mestiere di suo marito, intuisce molte più cose di quante gliene racconti Gaspare e si nutre di sospetti, di dubbi, si avvinghia a contorti meccanismi mentali servendosi della esasperata superstizione alla quale giunge soltanto per un motivo: salvare la vita del figlio che aspetta. Forse è lei la vera eroina di questa storia drammatica, e come nelle tragedie greche riserverà la sorpresa di saper compiere atroci misfatti “Com'è che tutti i maschi si fanno convinti che le loro femmine sono sempre rimminchionite? Che non si accorgono mai di nulla? Non lo capiscono che facciamo finta?”.
La vicenda è ormai al suo epilogo e a cosa servirà quell'insignificante “centoventisei” è purtroppo tristemente noto. A trent'anni esatti da quel 19 luglio, Ezio Abbate e Claudio Fava con una storia verosimile dal forte impatto, ci invitano a non dimenticare, a custodire e difendere la memoria di quell'evento che ci ha cambiato e in cui tutto è cambiato.
Stefano Ferrarese
Ezio Abbate, Claudio Fava
Centoventisei
Mondadori, giugno 2022
Pagine 130
€ 17,50
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