
Se avessi letto il libro
prima di incontrarlo qualche mese fa avrei potuto chiedere a Fabio Cleto come mai non ha provveduto a scrivere un aggiornamento che
conduce l’analisi ai giorni nostri. “Intrigo internazionale – Pop, chic, spie degli anni sessanta” è un saggio pubblicato nel 2013 e sarebbe stato interessante, soprattutto dopo l’elezione di Trump alla Casa Bianca, avere almeno una decina di pagine in più da leggere.
Eh si, direi che questo mancato aggiornamento è l’unico difetto di questo saggio. Scorre agevole e chiaro nei suoi concetti pur non tralasciando mai l’acutezza nelle spiegazioni, compresa l’accuratezza dell’apparato bibliografico da studioso quale è. Se poi si aggiunge un’ampia dose di immagini a corredo, sapientemente inserite nello scorrere del testo, possiamo dire che è assoluta-mente da leggere.
Ma esattamente cosa c’è dietro e dentro a queste mie chiacchiere introduttive? Il Camp, le sue icone, le celebrità-spia degli anni Sessanta come James Bond, Miss Camp, Jackie Holmes e tutto il portato culturale e politico che vi si nasconde e che qui diventa più esplicito. Il 1964 è l’anno di “Goldfinger”, della consacrazione di James Bond e di quello che ha rappresentato nella cultura pop che già assisteva all’esplosione del consumo di massa, del divismo riproducibile, delle mode travolgenti e della liberazione femminile mentre dappertutto risuonavano i ritmi dei Beatles e dei Rolling Stones.
Sono gli anni in cui la nuova Pop Art consacra le opere di Andy Warhol, in cui «la celebrità non è tanto un individuo quanto un apparato cerimoniale […]».
In questo contesto la spia James Bond si trasforma in una moda e nel corso di pochi anni nasceranno un numero esorbitante di suoi colleghi da romanzi, film, serie televisive e saggi, ai quali si aggiungerà un’ampia produzione di gadget e prodotti vari “modello 007”.
«Offre un personaggio popolare imperniato su un consumo tanto e tale da acquietare con un sog-ghigno gli spettri di Kennedy, e da tacitare le minacce rivolte alla gerarchia sociale della rivolu-zione etnica, culturale e sessuale dei primi anni Sessanta. [..] Incarna insomma un’immagine della trasgressione legittimata, e così facendo innesta l’aplomb, lo chic, il glamour nobiliare britannico sulla rivoluzione “anticlassista” e femminista dell’America degli anni Sessanta».
Miss Camp è il nomignolo affibbiato a Susan Sontag. Il sotto titolo del capitolo riassume bene il ruolo della scrittrice e intellettuale americana: “La ragazza che sapeva troppo”. L’allora trentunenne autrice, in un articolo scritto per Partisan Review scrive il saggio “Note sul Camp” e per la prima volta il Camp si disvela in tutta la sua essenza. E per farlo, la scrittura «si rivolgerà all’intero spettro della produzione culturale, dall’arte visiva alla globalizzazione, dalla fantascienza alla por-nografia, dall’estetica del fascismo alla semiotica francese, dalla malattia alla tortura» e questo proprio perché «il camp è il regno dell’eterogeneo, di identità mutevoli, e stra–ordinarie».
Non si tratta del primo saggio sul Camp, ma il più profondo anche perché la sua possibilità di osservazione la troviamo proprio negli anni in cui «l’humus del Camp – il vivere cioè in “società opulente, in gruppi o circoli capaci di sperimentare la psicopatologia del benessere” (nota 49) – diventa accessibile a molti, cosicché la passione estetica del Camp per la trasformazione e il travestimento fornisce una soluzione al problema “come essere dandy nella cultura di massa (nota 45)».
Il passo è breve per avvicinare il Camp alla diffusione della mania spionistica. Anzi il «Camp ne fornisce di fatto la chiave, con la sua ironia elusiva e propriamente contemporanea, […] l’ironia Camp rende gli agenti segreti tanto diffusi quanto inafferrabili, e dunque assimilabili da pubblici diversi a scopi contraddittori – emancipazione, libertà, misoginia, esotismo imperialista, trasgressione in formato famiglia, ecc. ».
La capacità della Sontag di indagare, di spiare le consente di far venire a galla un altro aspetto del Camp, fatto di travestimenti e ironia; «l’ironia Camp, che converte tra “uomo” e “donna”, “persona” e “cosa” (nota 11), poteva servire non solo alla fantasia maschile dei James Bond in sedicesimo, ma anche il suo contrario».
Passando per Victor J. Banis e il suo romanzo “The Affairs of Goria”, con protagonista una ninfomane che ama uomini e donne, e la diffusione sempre più larga di pubblicazioni del genere pulp scabroso, si arriva al romanzo erotico “The Man from C.A.M.P. “del 1966 in cui avviene la consacrazione del duo spionaggio e Camp. In primo piano, l’agente Jackie Holmes, «un’esuberante regina platinata, […] sguardo ammiccante, mano indolente sul fianco e sigaretta col bocchino, e al guinzaglio (in collarino di brillanti) un barboncino bianco. Lo stereotipo dell’omosessuale, fragile ed effeminato, con il suo docile animale domestico?», forse si, ma pur sempre un agente segreto in costante azione contro il crimine e con tutte le caratteristiche fisico-intellettuali che si addicono al ruolo.
Jackie Holmes di fatto rappresenta anche altro, come spiega Cleto: «è la stella non dell’intellighenzia newyorchese, bensì di migliaia di lettori anonimi, che acquistano furtivamente dal giornalaio, […] l’agente della C.A.M.P. , mostra – prima che si profilasse una scelta di auto-nominazione e si aprisse un fronte di rivendicazione dei diritti gay – la possibilità di rendere politi-co il desiderio, di essere omosessuali e anche di andarne fieri: di essere cioè davvero gay, nel sen-so pieno del termine».
Il Camp diventa un tramite per l’affermazione e per l’integrazione omosessuale. Lo svelamento di questo codice segreto avvenuto grazie al lavoro della Sontag trasforma quest’ultima paradossalmente in una spia.
E torniamo all’aggiornamento di cui si parlava all’inizio. L’ultimo capitolo del saggio è dedicato agli anni Zero italiani: «uno sterminato freak show, un teatro dell’errore, un mondo alla rovescia che ridisegna i Campi del plausibile e vi colloca come centro la logica dello Spettacolo Totale». Il tutto senza inquietare, senza far paura, quasi rassicuranti insomma; a partire da “Amici”, nei varietà o nei talk show in maniera più o meno velata, più o meno esplicita, l’omosessuale è accolto, ma «a condizione che sappia ballare e cantare, o che insegni il bon ton senza mai prendersi troppo sul serio». Anche il presente italiano ha le sue sorgenti nel Camp, ma è ormai obsoleto.
«Da Andy Warhol al reality show il passo è breve, certo; lo scarto però è enorme. Il Camp era un’esperienza condivisa da figure ai margini dell’ordine normativo da chi poteva trovarvi sopravvivenza […]. Negli anni Zero, il sottile equilibrio tra norma e trasgressione, fra pop e snob – […] si è rotto. […]. Perché nell’economia dello Spettacolo Totale l’ironia produce accumulo e paccotti-glia, ma non effettivo scarto. Non apre distanze: le colma. Integra, unisce, abbraccia e stringe fino a soffocare».
E chi è Donald Trump? E chi sono i suoi simili o i suoi cloni? La cultura pop(ulistica)?
Ciro Ardiglione
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