
Se dovessi sintetizzare il lavoro dei Familie Floz userei l'espressione Silenzi e maschere. Di questo è fatto il loro ultimo lavoro, Hokuspocus.
Hokuspocus inizia con due figure solitarie sulla scena, immerse in una sorta di paradiso terrestre. Questi due personaggi ancora privi di linguaggio, ancora nella fase della lallazione, ben rappresentata dai rumoristi presenti ai margini della scena, sono poi proiettati nella vita di tutti i giorni. Costruiranno una famiglia. In queste figure solitarie poste all'inizio di ogni evento è adombrato il rapporto che il creatore drammaturgo ha con i propri personaggi. Il drammaturgo crea e plasma i sui personaggi come nelle mitologie della creazione dio dà vita alle sue creature. Le due figure si accoppieranno, compreranno una casa, avranno una famiglia, e invecchieranno finché la morte non li coglierà.
Hainz Kohut affermava che osservare e partecipare al ciclo delle generazioni è la cosa più bella e perfetta che possa capitare. Ed è di questo che si tratta in Hokuspocus, sposarsi, fare figli, passare attraverso le loro crisi adolescenziali, anche attraversare la morte di uno di questi, la tragedia peggiore che possa capitare a dei genitori.
Il semplice fatto di affrontare il tema della morte e proporlo a un pubblico è un atto di coraggio. Non siamo abituati a parlare, a confrontarci con la morte, se non nella sua versione pornografica da Grand Guignol fatta di massacri cinematografici, di grandi stragi nei tg mainstream. Ma non sappiamo parlare della morte come fine che coglie ognuno di noi. Lo stesso Martin Heidegger ci mette in guardia quando parliamo di morte. Non è l'impersonale “si muore” a cui dobbiamo fare attenzione, ma alla possibilità che io, tu, noi, inevitabilmente moriremo. Di fronte a questo morire che rappresenta l'estrema possibilità siamo smarriti. Lo siamo come lo sono i personaggi di Hokuspocus.
Sul palco ci sono gli attori con maschere di argilla, e di argilla siamo fatti tutti noi. Insieme agli attori troviamo musicisti, rumoristi, la stessa figura della morte che con estrema delicatezza, quasi con gentilezza, prenderà alla fine dello spettacolo i suoi personaggi, comparse di un viaggio ineluttabile. Nel finale improvvise e violente le luci dei riflettori si accendono sul pubblico. Sembrerebbe quasi che il regista, Hajo Schüler con questo voglia dire che la morte non riguarda solo gli attori in scena, ma è un evento che riguarda tutti noi. Questa probabilmente è soltanto una suggestione poetica di chi scrive. L'intenzione del regista è diversa, così come emerge dallo scambio di opinioni che abbiamo avuto a fine spettacolo.
È curioso come l'uso delle maschere porti con sé una riflessione sulla morte. Anche la compagnia, tutta italiana del Teatro dei Gordi, lavorando con le maschere, aveva portato in scena lo stesso tema con Sulla morte senza esagerare. Lì però le maschere erano più surreali, il velo di gentile ironia con cui veniva circondato il tutto rendeva lo spettacolo privo di quella lentezza di cui in alcuni momenti risente Hokuspocus. Sembrerebbe ad ogni modo che le maschere consentano di sdrammatizzare quel tanto che è necessario per fare accostare pubblico e attori a quella possibilità estrema che tutti noi fuggiamo, la morte.
A Sipario chiuso con il regista Hajo Schüler
Perché la scelta di lavorare con le maschere, con i silenzi?
La scelta di lavorare con le maschere si è presentata sin dall'inizio del nostro percorso. Ci siamo posti la domanda se era possibile raccontare delle storie senza parole e con l'uso della maschera. Quando ho iniziato a lavorare insieme con questo gruppo, venticinque anni fa circa, era proprio questa la domanda centrale. Io personalmente ho scoperto la maschera durante la formazione, la scuola di teatro e il film che ho fatto ad Hessen. L' incontro con la maschera mi ha colpito e anche scioccato, mi sembrava interessante che un oggetto rigido come la maschera avesse questa capacità di trasformarsi, di cambiare espressione.
Di quale materiale sono fatte le vostre maschere?
Sono fatte di cartapesta. Si forma un negativo fatto di silicone e da lì si fa la maschera di cartapesta. È un metodo molto tradizionale, molto semplice. Le faccio io. Ho iniziato ad Essen da autodidatta.
Quali sono le difficoltà più grandi che hai nel lavorare con le maschere, con i silenzi, con gli artisti e con i musicisti in scena?
È proprio il lavoro con la maschera ad essere complesso. Mancando la parola la prima difficoltà consiste nel trovare le situazioni giuste che si possono veramente raccontare senza la parola, senza il testo che manca. Il secondo punto è trovare l'essenzialità dei gesti, dei movimenti e della postura. Lavorando con le maschere è necessario trovare la chiarezza del gesto, la chiarezza della respirazione dell'attore. È necessario trovare questa essenzialità, e andare verso il nucleo della situazione e delle emozioni.
Ti rifai in qualche modo al Teatro dell'arte italiano, quindi alle maschere come Arlecchino, Pulcinella? Hai questi riferimenti o le tue maschere hanno un altro linguaggio?
Chiaramente è un riferimento. Però a me personalmente non è mai interessato lavorare con delle forme tradizionali, con le maschere della commedia, dell'Arlecchino o del Pantalone. Perché, devo essere sincero, non li capisco più. Non capisco più il senso di usare queste forme per un teatro e per storie di oggi. Il punto è il modo in cui vediamo le maschere. In Europa non abbiamo una vera cultura del recitare con le maschere come in Giappone o in Indonesia. Non c'è un codice chiaro, una forma per recitare con maschere come, per esempio, in Europa abbiamo per la danza classica. Ho fatto quello che mi sembrava giusto nel creare forme di recitazione e le maschere.
Quindi il tuo obiettivo è quello di inventare dei nuovi codici?
Sì. Però quello che mi interessa molto di più è il rapporto con il pubblico. L'obiettivo del teatro è che una cosa parli e arrivi allo spettatore. Io preferisco molto di più questa cosa. Quello che per me è interessante è avere la sensazione che il linguaggio che uso arrivi al pubblico e che ci sia veramente una comunicazione. Mi interessa se la storia o il personaggio, la respirazione, l'azione, le emozioni del personaggio veramente tocca qualcosa in chi guarda. Questo mi interessa molto di più che creare una forma ottima. Per me la maschera è ancora uno strumento molto funzionale, è uno strumento comunicativo. Se non serve a questo non ha molto senso.
Pensi che il tuo messaggio sia arrivato al pubblico?
Questa è una domanda pericolosa. Noi non siamo mai contenti. Io non sono mai contento di me. Ogni sera ci sono cose che funzionano e altre che funzionano meno. Ho la sensazione che specialmente qui in Italia ci sia una maggiore apertura verso il tipo di teatro che facciamo. Sento sempre un un'apertura, una curiosità.
Tu affronti il tema della morte. Non avevi paura che che questo potesse in qualche modo creare un rifiuto nel pubblico?
Avevo questa paura. Abbiamo fatto un altro spettacolo quattordici anni fa che si chiamava Infinità. Parlava dell'inizio della vita, della fine, della morte. Anche lì avevamo la stessa paura.
In Hokuspocus parli anche della morte di un figlio.
A me interessava fare una proposta forte. Inserire la morte del figlio per mettere al centro nella seconda parte dello spettacolo la relazione tra la creatura e il creatore. E quindi inserire questo personaggio in nero che è senza maschera, che verso la fine rappresenta più chiaramente la morte. A me interessava questo rapporto anche se ne avevamo paura. Però mi sembra anche importante, e credo che sia una cosa che in tutti i nostri spettacoli è presente, mi interessava questa vicinanza tra comicità e tragedia, tra fallimento e morte. È un tema che attraversa più o meno tutto lo spettacolo. Anche la comicità diventa interessante quando c'è veramente qualcosa in gioco.
Tra l'altro tu lanci una grande provocazione proprio sul finire dello spettacolo. Quando la donna è sul punto di morire si accende una luce violenta in faccia al pubblico, quasi come per dire guardate che questa morte non riguarda solo le maschere e i personaggi sul palco, riguarda anche voi, riguarda noi, tutti. È una provocazione che volevi lanciare o è una mia sensazione?
No, per niente. La madre alla fine esce della storia e il personaggio decide di non fare più parte di quella storia, di cambiare la storia che viene raccontata sul palco, e si confronta con il pubblico. Per questo si accende la luce e quel personaggio e il pubblico finalmente stanno nello stesso spazio.
Stanno nello stesso spazio e c'è un momento di confronto al di là della maschera?
Sì, perché lei alla fine si toglie la maschera. E questo gesto non lo fa nello spazio dove fino a quel momento si è svolta la scena. Lo fa fa con la gente. Con questo gesto, che a me sembra bello, esce fuori della storia, rifiuta di morire dentro questa storia. Questo serve anche per sottolineare che i personaggi delle storie sono immortali, proprio perché sono parte di una storia. A me interessava raccontare con il teatro qualcosa sulla morte. Però i personaggi sono immortali.
Mi ha colpito che tu decidi di portare i musicisti e i rumoristi sulla scena. Non ricorri, a delle registrazioni, ma è tutto visibile sul palco. Perché questa scelta?
In tutti i nostri spettacoli normalmente provavamo a nascondere tutti i cambiamenti. Questa volta volevamo proprio rompere con questa abitudine e non volevamo nascondere niente. Volevamo rendere ogni passaggio il più possibile visibile, e volevamo mostrare gli strumenti, le lingue, la tecnologia, e qualunque cosa venisse usata per raccontare questa storia. Noi abbiamo cominciato con questo progetto di Hokuspocus proprio con la Genesis, la storia della Bibbia o altre storie antiche della creazione della Genesis, e anche di altre mitologie e religioni. Avevamo cercato un po' il parallelo, l'analogia tra Dio che crea una creatura, un essere umano e l'attore che crea un personaggio. Quello ci sembrava interessante. Anche l'uso della maschera, per esempio, riguarda un po' lo stesso materiale usato da Dio. Dio prende l'argilla e crea l'uomo con le sue mani e noi facciamo un po' la stessa cosa. Prendiamo l'argilla e creiamo una creatura che inizia a mostrare gli attrezzi e ogni cosa come se fossimo in un laboratorio.
Non avevi paura che la lentezza dello spettacolo potesse rappresentare un ostacolo per il pubblico? Noi siamo abituati alla velocità, ai prodotti Netflix. Il tuo sicuramente non è un prodotto Netflix.
Secondo me questo è un errore che il teatro non deve proprio fare, di mettersi in competizione con altri mezzi visuali come la televisione e il cinema. Secondo me è un errore. Capisco la speranza che noi possiamo creare un altro tempo attraverso il teatro e questo a volte funziona, a volte no. Però il mettersi in competizione con con altri linguaggi è proprio un errore. Lo capisco, perché lo vivo anche della mia esperienza come spettatore. Quando vado a teatro sento come se dovessi litigare con me stesso per accettare un altro tempo. Ma per me bisogna attraversarlo questo conflitto e no, non ne ho paura. Non ho neanche paura di essere inaccessibile. Per me il teatro può avere altre qualità, non deve per essere forza così accessibile come la televisione.
Teatro Menotti – Milano
10-15 gennaio 2023
Familie Flöz
Hokuspokus
Produzione Familie Flöz in coproduzione con Theaterhaus Stuttgart e Theater Duisburg. Opera supportata da Hauptstadtkulturfonds
Un'opera di Fabian Baumgarten, Anna Kistel, Sarai O'Gara, Benjamin Reber, Hajo Schüler, Mats Süthoff e Michael Vogel
durata: 90 minuti
Regia e maschere Hajo Schüler
Costumi Mascha Schubert
Set design Felix Nolze, (rotes pferd)
Musica Vasko Damjanov, Sarai O'Gara, Benjamin Reber
Disegni Cosimo Miorelli
Assistente Crezione Maschere Lei-Lei Bavoil
Assistente direzione Katrin Kats
Assistente costumi Marion Czyzykowski Luci,
Video Luci Reinhard Hubert Sound design: N.N.
Direttore di produzione Peter Brix
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