La Fashion Revolution 10 anni dopo la strage del Rana Plaza

fashion revolution, mofa

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Dieci anni sono trascorsi dalla strage del Rana Plaza di Dacca in Bangladesh, dove persero la vita 1.138 persone, soprattutto donne, sottopagate, operaie delle aziende manifatturiere tessili. Da quel 24 aprile 2013, dinanzi ad una delle più grandi tragedie avvenute in fabbrica che l'umanità ricordi, nacque un grande movimento globale – Fashion Revolution – composto da attivisti organizzati per combattere il mondo della che – fino a quel giorno di dieci anni fa – viveva il proprio business ignorando l'impatto ambientale delle proprie produzioni ed i diritti dei lavoratori in termini di sicurezza sul luogo di lavoro e giustizia salariale.

Il movimento Fashion Revolution ha l'ambizione di cambiare l'industria della moda agendo su tutta la filiera produttiva, coinvolgendo nel cambiamento chi produce, chi acquista e chi consuma i capi di abbigliamento.
Orsola De Castro e Carry Somers, due designers di moda, decretarono la nascita a Londra – un anno dopo la tragedia del Rana Plaza – del Fashion Revolution Day.  Si proposero il fine di onorare le vittime che quel giorno, nonostante i rumori che annunciavano un crollo imminente dell'edificio, furono obbligare dai datori di lavoro a recarsi ugualmente nelle fabbriche, sotto la minaccia di essere licenziate, per non interrompere le produzioni dei grandi brand occidentali.

Knowledge and Awareness: conoscenza e consapevolezza. Sono queste le parole d'ordine del movimento, un grande lavoro combattuto anche sui social e che ha raggiunto tanti consumatori che iniziano a chiedersi: «Chi ha prodotto i miei vestiti? e a quale costo?».
Dalla strage del Rana Plaza qualcosa è cambiato proprio in termini di conoscenza e consapevolezza. Quell'edificio in Bangladesh è diventato un simbolo della catena produttiva del mondo della moda che antepone spesso il profitto ai diritti umani.
Inevitabile che l'Italia sia stata il teatro di tante iniziative ed eventi per il Fashion Revolution Day 2023; in particolare, Milano ha ospitato – alla Fondazione Sozzani – una tre giorni dedicata a brand di moda etici e sostenibili.

Durante la presentazione di questa tre giorni, Marina Spadafora – coordinatrice di Fashion Revolution Day Italia – ha sottolineato gli obiettivi che il movimento si pone e l'importanza del ruolo dei giovani nel mondo della moda. E giovane è anche l'host e co-autore della docu-serie Junk: Matteo Ward, imprenditore, divulgatore e attivista, che ha curato la ricerca dei contenuti scientifici. Si tratta di una serie scritta e diretta da Olmo Parenti e Matteo Keffer, co-prodotta da Will Media e Sky.

Junk (Armadi pieni) racconta gli effetti del fast fashion, mostrando storie e immagini delle persone e degli ecosistemi che ne subiscono direttamente l'impatto negativo. La puntata di Junk relativa al Bangladesh è stata presentata durante l'inaugurazione della tre giorni ed ha mostrato una realtà del Bangladesh dove – se negli ultimi anni qualcosa è cambiato a livello di sicurezza nelle fabbriche che producono per i brand occidentali – poco ancora è stato modificato dal punto di vista salariale.

Nel ricordarci che prima di essere consumatori siamo cittadini, è nata una iniziativa dei cittadini europei: Good Clothes Fair Pay, per invitare la Commissione Europea a introdurre una legislazione che richieda ai marchi e rivenditori nel settore dell'abbigliamento, tessile e calzaturiero, di condurre una due diligence specifica nella loro catena di produzione per garantire che i lavoratori percepiscano salari dignitosi. L'obiettivo è raccogliere un milione di firme. L'ambito di applicazione copre tutti i marchi e rivenditori che desiderano operare in UE, indipendentemente dal fatto che abbiano sede in UE o in altri Paesi. Essi sarebbero tenuti ad attuare, modificare divulgare pubblicamente un piano con scadenza obiettivi per colmare il divario tra salario effettivo e salario minimo [1].

Tra le imprenditrici presenti alla Fashion Revolution ho incontrato Francesca De Gottardo, una giovane donna che – dopo aver maturato esperienze in aziende di abbigliamento di lusso – ha deciso di fare una scelta forte: lasciare il lavoro e fondare una propria realtà, Endelea: una società benefit nata da pochi anni che unisce tessuti africani e design italiano, che ha l'ambizione – oltre a fare moda – di favorire la nascita e sostenere l'industria tessile in , dimostrando che è possibile fare moda seguendo principi etici e pagando il giusto compenso. Francesca De Gottardo, che vanta una laurea in archeologia unita ad un master in marketing, mi ha raccontato la sua esperienza professionale e umana.

Francesca, tu vivi e lavori tra Italia e Tanzania, perché la Tanzania?
Sono stata in Tanzania per uno stage di marketing per una ong locale, ho vissuto li tre mesi nel 2012. L'idea di fondare Endelea mi è venuta mentre ero in Zambia nelle mie ferie; la Tanzania ed il suo popolo amichevole ed aperto mi era rimasto nel cuore. In Tanzania non esistono scuole professionali ed un percorso accademico in moda, in altri Paesi africani sarebbe stato più semplice, ma volevo portare l'azienda che avevo in mente di fondare in un Paese in cui poteva essere socialmente impattante. Ho parlato del mio progetto all'ambasciata italiana in Tanzania ed all'inizio non sono stati molto incoraggianti, in considerazione del fatto che l'ex presidente della Tanzania non vedeva di buon occhio gli stranieri. La parte no profit del progetto legato alla formazione ha fatto sì che esso fosse accolto e riuscisse vedere la luce perché il governo voleva investire sul settore tessile, visto che la Tanzania aveva l'80% delle importazioni nel settore tessile

Quanti dipendenti ha la tua azienda?
In Italia siamo in 16, tutte donne, tra assunti e collaboratori ed in Tanzania 17, quasi tutte donne anche li.

Parliamo di cose importanti; come sono retribuiti i lavoratori di Endelea in Tanzania?
Molte delle nostre lavoratrici sono madri lavoratrici, lo stipendio è nettamente superiore alla media degli stipendi del Paese e paghiamo l'assicurazione sanitaria per loro e tutti i loro figli. Non esiste gap salariale tra uomini e donne. Abbiamo un rapporto molto trasparente, gli stipendi vengono discussi insieme, cerchiamo di far crescere le persone perché si sentano parte dell'azienda italiana. Le donne tanzaniane sono molto curiose su quello che è il ruolo della donna in Italia e sul rapporto tra uomo e donna

Confermi che società della Tanzania evolve velocemente?
Sì, nel 2017 non c'era una classe media e adesso invece se ne sta creando una, tutto è molto veloce rispetto all'Europa e questo è davvero divertente. I social media sostengono culturalmente l'evoluzione su tanti temi, anche sulla omosessualità o fluidità di genere e fanno crescere nuovi settori; Uber Tanzania è molto sviluppata ad esempio, se pensiamo che in Tanzania nel 2012 non c'era internet mentre adesso – seppure a macchia di leopardo e soprattutto nelle grandi – città tanti hanno accesso alla rete.

Proponi in occidente tessuti e disegni africani nella moda, creando anche un ponte culturale, come sono accolti i vostri capi di abbigliamento e chi sono le vostre consumatrici, quale sensibilità hanno nei confronti della moda etica?
Ci sono le fashion addict attratte dai disegni, dai colori, dal fatto che l'Africa va di moda, ci sono le clienti consapevoli che acquistano perché sensibili al nostro progetto e poi appassionate dell'Africa.

Voi non fate come si desume dai prezzi dei vostri capi di abbigliamento. Sta cambiando la sensibilità dei consumatori rispetto alla sostenibilità ambientale della filiera moda e alla equità salariale che viene richiesta per chi moda produce nei Paesi in via di sviluppo?
I budget marketing dei grandi marchi di moda hanno pilotato la sensibilità del consumatore verso l'attenzione all'impatto ambientale, ma c'è pochissima sensibilità sul fair pay: ci si chiede se un capo è sostenibile a livello ambientale, ma non ci si chiede se esso è sostenibile a livello umano, se costa 10 € stai sicura che chi lo ha prodotto è stato pagato 10 centesimi e questo è un problema che si può risolvere solo pagando il giusto , mentre l'impatto ambientale si può risolvere con nuovi studi, nuova ricerca quindi tante grandi firme investono in ricerca sviluppo e materiali.

Mi sembra che anche grandi brand stiano uscendo sul mercato con linee “etiche”, ma trovo incredibile che una azienda posso porre ai consumatori se acquistare i propri prodotti etici o non etici, non credi?
Questo atteggiamento di alcune aziende danneggia chi nel nostro settore sta invece seriamente cercando di cambiare il paradigma. L'Italia non premia in nessun modo chi vuole cambiare, non esistono incentivi; ad esempio, noi siamo una società benefit, una tipologia introdotta per prima dall'Italia a livello mondiale. Questo ci rende soggetti a maggiori controlli per il ruolo sociale che abbiamo deciso di assumerci, ma non godiamo di nessun beneficio se non una percezione diversa a livello di immagine. Si parla tanto giustamente di ambiente nessuno parla mai di governance e nessuno parla mai di social; Endelea è nata con l'obiettivo di mettere le persone al centro. Noi abbiamo il perseguimento della felicità nel nostro statuto come primo obiettivo, mentre ci sono aziende – non solo della moda – che sono impegnate a creare l'inferno lungo la filiera. La questione ambientale è stata recepita dal consumatore perché se ne parla tantissimo ed è la questione che si riesce a comunicare in maniera immediata; le immagini delle montagne di tessuti ammassate sulle spiagge del Ghana hanno una presa istantanea, mentre ragionare sui giusti compensi dei lavoratori lungo tutta la filiera produttiva non è immediato e necessita di ragionamento.

Adelaide Cacace

 

[1] La petizione si può firmare al seguente indirizzo: https://italy.fashionrevolution.org/it/good-clothes-fair-pay/.

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