
Da circa trent'anni l'industria dell'abbigliamento ha un nuovo modo di fare business, un settore che realizza capi ispirati all'alta moda ma di bassa qualità e a prezzi estremamente ridotti, con nuove collezioni lanciate frequentemente e continuamente. La Fast Fashion, così denominata, ha alimentato lo sfruttamento sia del pianeta che delle persone. Non c'è attenzione per i materiali scelti né per le tecniche di produzione che

prevedono anche l'utilizzo di sostanze chimiche aggressive. Non c'è rispetto per i lavoratori spesso sottopagati, schiavizzati e non tutelati sia in termini di sicurezza che di salute. Esistono delle realtà che combattono il fenomeno e a tal proposito abbiamo parlato con Marina Spadafora, stilista e rappresentante italiana di Fashion Revolution.
Fashion Revolution è un movimento nato ad un anno dalla tragedia del Rana Plaza in Bangladesh grazie all'azione delle designer di moda Orsola de Castro e Carry Somers che proclamarono il primo Fashion Revolution Day in memoria delle vittime e con lo scopo di sensibilizzare consumatori e produttori. Da allora il movimento è cresciuto, oggi è attivo in oltre cento Paesi del mondo e annovera tra i suoi sostenitori anche personalità di spicco della moda, della cultura e della politica. Quali sono i vostri obbiettivi e cosa fate per perseguirli?
L'obbiettivo principale di Fashion Revolution è quello di sensibilizzare la società civile alle tematiche legate alla moda usa e getta e ai problemi ambientali e sociali che essa comporta. Per rendere consapevoli i consumatori organizziamo attività di divulgazione sia nelle scuole che in altri luoghi. Queste attività culminano nella settimana intorno al 24 aprile, data in cui è crollato il polo produttivo Rana Plaza nel 2013 in Bangladesh che uccise 1.138 persone e ne ferì 2.500. Da questa tragedia è nato il movimento Fashion Revolution, per evitare di perdere altre vite nel nome della moda a basso costo.
Quella della moda è una delle industrie più inquinanti al mondo ed è anche tra quelle che realizza profitti attraverso un modello a basso costo e ad alta intensità di manodopera dando vita ad una moda “fast”. Bassa qualità, piccolo prezzo e rapido consumo. Cosa si può fare per sensibilizzare i consumatori sulle loro abitudini di acquisto e quali strumenti hanno per controllare la filiera produttiva del capo che comprano?
Sia io che Orsola De Castro abbiamo recentemente pubblicato due libri che parlano di queste tematiche. Ho fatto un Ted Talk nel 2015 dal titolo “Il potere del consumatore” dove parlo dell'importanza delle nostre scelte e dei nostri acquisti. Sono docente in università italiane e all'estero dove insegno la sostenibilità nella moda. Ogni anno come Fashion Revolution Italia organizziamo delle attività divulgative a forte impatto durante la Fashrev Week in aprile. Quest'anno abbiamo lanciato la call “Artivism, l'arte dell'attivismo” invitando followers e non a esprimere artisticamente cosa significa per loro la sostenibilità ambientale e sociale. Il 24 aprile apriremo le porte di una mostra virtuale dove esporremo le opere scelte insieme a Fondazione Pistoletto, nostro partner nell'iniziativa.
La filiera produttiva del tessile è tra le più estese ed articolate. I fornitori giocano un ruolo importante nel garantire un prezzo finale basso, spesso a discapito delle condizioni lavorative e salariali dei lavoratori. Come si può intervenire per porre fine allo sfruttamento nelle catene di fornitura?
Come Fashion Revolution abbiamo appena unito le forze con 60 organizzazioni non governative e insieme abbiamo creato un documento chiamato “Fair and sustainable textiles” che abbiamo inviato al parlamento europeo. È una proposta di legge che comprende le due diligence obbligatorie per i brand che producono all'estero con la richiesta di trasparenza sulla catena di approvvigionamento. Ci vogliono regole e leggi serie che vanno implementate in questo settore per ottenere giustizia e chiarezza per i consumatori.
Alcuni brand si propongono come eco sostenibili, ma è difficile riconoscere le aziende che operano rispettando davvero ambiente e lavoratori. Ci racconta un'esperienza in positivo di una realtà italiana che si è impegnata realmente in tal senso?
La realtà che conosco ed è sostenibile sia ambientalmente che socialmente è Cangiari. Usano materiali certificati e danno lavoro a donne in condizioni di fragilità in un territorio ad alto rischio di interferenze mafiose.
Dalla maglieria tradizionale di famiglia a quella sperimentale e sofisticata che l'ha resa famosa in tutto il mondo. Chi è Marina Spadafora e cosa l'ha spinta a promuovere e a diventare portavoce di una moda etica e sostenibile?
Sono una persona con un alto senso del dovere e ho a cuore sia la giustizia ambientale che sociale. questa coscienza si è sviluppata fin da piccola grazie alla vicinanza con la natura nella mia città di provenienza, che a professori illuminati che mi hanno aperto gli occhi al razzismo e alle diseguaglianze sociali. Ho sempre desiderato che la mia professionalità fosse utile per migliorare il mondo e nello specifico il settore moda e così ho fatto.
Federica Crociani
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