
Ragionare sui figli. Al netto di eventuali responsabilità genitoriali dirette e con il necessario distacco analitico, si cerca di delineare una rappresentazione complessiva dello stato delle relazioni asimmetriche tra madri, padri e figli (target privilegiato, l'adolescenza) e della condizione psico-sociale di questi ultimi, allo scopo di ricavarne un'interpretazione attendibile nella prospettiva d'una riorganizzazione prossima della vita sociale. Consci della necessità d'evitare generalizzazioni improprie, si tenta di cogliere una tendenza ed illustrarne la fisionomia.
Figli: alcuni numeri. Senza voler appiattirsi sugli aspetti di “struttura sociale”, è fruttuoso per la disamina fornire alcuni elementi di informazione (Fonte ISTAT). Nel 2016 sono stati iscritti in anagrafe per nascita 473.438 bambini, oltre 12 mila in meno rispetto al 2015. Nell'arco di 8 anni (dal 2008 al 2016) le nascite sono diminuite di oltre 100 mila unità. Il calo è attribuibile principalmente alle nascite da coppie di genitori entrambi italiani. I nati da questa tipologia di coppia scendono a 373.075 nel 2016 (oltre 107 mila in meno in questo arco temporale). Ciò avviene fondamentalmente per due fattori: le donne italiane in età riproduttiva sono sempre meno numerose e mostrano una propensione decrescente ad avere figli. La fase di calo della natalità avviatasi con la crisi è caratterizzata da una diminuzione soprattutto dei primi figli, passati da 283.922 del 2008 a 227.412 del 2016 (-20% rispetto a -16% dei figli di ordine successivo). La diminuzione delle nascite registrata dal 2008 è da attribuire interamente al calo dei nati all'interno del matrimonio: nel 2016 sono solo 331.681 (oltre 132 mila in meno in soli 8 anni). Questa importante diminuzione è in parte dovuta al contemporaneo forte calo dei matrimoni, che hanno toccato il minimo nel 2014, anno in cui sono state celebrate appena 189.765 nozze (57 mila in meno rispetto al 2008). Nel 2016 si conferma la tendenza alla diminuzione della fecondità in atto dal 2010. Il numero medio di figli per donna scende a 1,34 (1,46 nel 2010). Le donne italiane hanno in media 1,26 figli (1,34 nel 2010), le cittadine straniere residenti 1,97 (2,43 nel 2010). L'effetto della modificazione della struttura per età della popolazione femminile è responsabile per quasi i tre quarti della differenza di nascite osservata tra il 2008 e il 2016. La restante quota dipende invece dalla diminuzione della propensione ad avere figli. La riduzione del numero medio di primi figli per donna tra il 2010 e il 2016 è responsabile per il 57% del calo complessivo della fecondità delle donne italiane e per il 70% di quello delle donne straniere.
Figli: parole per dire di loro. Un'ineludibile caratterizzazione deriva dall'etimologia della parola figlio che è da ricondursi alla radice sanscrita dhe– poi fe- che indica l'idea di succhiare, poppare, allattare; da cui, in latino, il verbo fellare, succhiare ed il sostantivo filius, letteralmente, “colui che succhia il latte …“. Ciò sancisce con evidenza uno stato di “dipendenza” tanto importante da agire come imprinting esistenziale poiché allude al legame sopravvivenziale indotto dall'alimentazione garantita, in primo luogo, dalla madre. Un'altra interpretazione vede l'origine della parola figlio nella radice sanscrita bhu-, da cui il greco φύω(fyo), produco, faccio essere, genero secondo la quale con il termine “figlio” è da intendere “il generato“, concepito e partorito, donato alla luce.
L'argomento ha come sfondo d'attenzione la tematica della genitorialità, di come si è modificata nel tempo nei nuclei familiari la modalità di rapporto genitori – figli, durante l'intero arco di tempo costitutivo dell'età evolutiva giovanile. Il significato della maternità e della paternità nella società contemporanea è senza dubbio diverso rispetto a quello che ha caratterizzato la società moderna. È stato un cambiamento graduale, fortemente legato alle vicende economiche, politiche e sociali: dalla madre esclusivamente dedita alla cura dei figli e della casa, alla madre lavoratrice, che sempre più guarda fuori dalla sfera domestica e ricerca nel lavoro occasioni di realizzazione personale; dal padre, detentore dell'autorità e unico procacciatore di reddito a padre più presente nella cura dei figli e nella condivisione dei compiti familiari. Nel mondo occidentale, la famiglia “patriarcale” è alle spalle – in verità, con preoccupanti permanenze antropologiche – con untrend consolidato che genera nuclei familiari composti dai genitori (lavoratori entrambi o aspiranti tali) ed uno o massimo due figli. Per approfondire le conseguenze di questo aspetto, si rinvia a “Modelli di famiglia – Conoscere e risolvere i problemi tra genitori e figli” (di Giorgio, Nardone, Emanuela Giannotti, Rita Rocchi, Ed. TEA, 2001-2015), utile volume nel quale si trova la descrizione di sei modelli esemplari di gruppi familiari (modelli iperprotettivo, democratico-permissivo, sacrificante, intermittente, delegante, autoritario), quelli che più spesso ricorrono nel panorama attuale e che in questi ultimi anni emergono come responsabili, a vario titolo, della formazione di nodi problematici all'interno della famiglia italiana.
A partire dalla metà degli anni Sessanta del Novecento si sono verificati in tutti i paesi dell'Europa occidentale grandi cambiamenti sociali e culturali che hanno coinvolto la famiglia; tra questi, una rapida e drastica riduzione delle nascite; i demografi, hanno parlato di seconda rivoluzione contraccettiva che a sua volta avrebbe portato a una “seconda transizione demografica” (si è attribuito il nome di seconda transizione demografica ad un processo evolutivo, caratterizzato da una diminuzione importante della mortalità e della natalità). Un diverso filone di studi economici, attribuisce il calo delle nascite a una valutazione razionale dei costi e benefici dei figli; questa crescita dei costi sarebbe dovuta in parte all'aumento della presenza delle donne nel mercato del lavoro rendendo meno conveniente per loro dedicarsi alla cura dei figli, dovendo rinunciare ad un proprio reddito, ed in parte all'innalzamento generalizzato degli standard di vita dei paesi sviluppati provocando una più elevata aspettativa sulla qualità della vita dei figli; nella società presente i costi monetari di un figlio sono molto aumentati, mentre i benefici che i genitori ne ricavano sono molto diminuiti. È Philippe Ariès (rif. “L'enfant et la vie familiale sous l'Ancien Régime”, 1960, tradotto in Italia nel 1968 col titolo “Padri e figli nell'Europa medievale e moderna”, 1968) ad aver messo in evidenza che il drastico calo della fecondità nella società occidentale contemporanea ha una radice culturale e starebbe ad indicare il passaggio dalla centralità del bambino a quella della coppia: mentre nella prima transizione demografica la riduzione delle nascite era dovuta al desiderio di migliorare la qualità di vita dei figli, nell'epoca attuale essa deriverebbe anche dal desiderio della coppia di realizzarsi in modi diversi dalla procreazione. La scelta di avere un figlio può quindi entrare in competizione con altre opportunità. Per lo storico francese va ripensato il tema d'una relazione riproduttiva non alienata, già affrontato in suoi scritti precedenti (Ariès, 1948-1971), e che risponde sia alle sue opzioni di studioso di demografia, sia al suo interesse per la famiglia, cellula del vivere associato, denotata in termini demografici, con essenziali tratti affettivi e religiosi; tema che lo accompagna durante tutta la sua vita di savant. Egli è uno storico della famiglia prima che uno storico dell'infanzia: e tale a ben vedere rimarrà per tutto l'arco della sua esistenza, fino a promuovere quella storia della vita privata – la quale è soprattutto seppure non esclusivamente, una storia dei nuclei familiari –, che egli consegna come legato ai rerum scriptores delle nuove generazioni. Sempre, nel suo territorio culturale e affettivo, il bambino non ha un posto marginale: marito di un'amatissima moglie, ma membro di un'unità domestica dove non ci sono figli, Ariès ha avuto una famiglia di origine in cui individui di varie classi d'età non mancavano, e tale plurima presenza ha segnato il suo passato. Tutto questo ha fatto sì che la sua curiosità per il non adulto fosse acuta, quasi elegiaca; e che egli lo andasse a cercare fuori dal suo tempo, in testimonianze dei secoli scorsi, poco perlustrate da altri scienziati che si muovono nel grande solco della storia delle mentalità e poi della nouvelle histoire.
Figli: stato dell'arte. Seguendo questa chiave esplicativa che consente di delineare una rappresentazione complessiva dello stato delle relazioni asimmetriche tra madri, padri e figli e della condizione psico-sociale di questi ultimi, ci si rende conto che i genitori del ventunesimo secolo per poter davvero insegnare a vivere (ricordiamo che il termine “insegnare” deriva dal latino insignare composto dal prefisso “in” unito al verbo “signare“, con il significato di segnare, imprimere e che a sua volta riconduce al sostantivo “signum“,che significa marchio, sigillo; pertanto, l'attività di coloro che “insegnano”, lungi dal limitarsi alla trasmissione del sapere, consiste nel “segnare” la mente del discente, lasciando impresso un metodo di approccio alla realtà, che va ben oltre l'apparato di conoscenze) secondo quello che desiderano e ritengono inevitabile per i figli, devono imparare a considerare anche i problemi che richiedono una soluzione immediata come opportunità per raggiungere gli obiettivi di lungo termine. Se la domanda è: è possibile riuscire a partecipare alla vita dei propri figli adolescenti ? (rif. a “Gli sdraiati”, Michele Serra, Feltrinelli 2013), senza riuscire intenzionalmente a farne parte pienamente, senza essere capaci di “insegnare loro” qualcosa di importante in modo da concorrere a ristrutturare le personalità, senza riuscire a farsi includere nella scansione delle loro ore quotidiane – perché è di questo che si tratta – non siamo in presenza solo d'una scontata incomunicabilità edipica con risvolti psicoanalitici poco attendibili, siamo all'alba inoltrata di rapporti assurdi di razionale estraneità, all'aurora d'una inadatta formazione dell'identità genitoriale, d'una noncuranza etica che fa risorgere la dimensione magico-misterica nelle rebus humanis e segnala fragorosamente l'approdo all'irresponsabilità.
Tuttavia, la piattezza comportamentale intergenerazionale, il grigio standard esistenziale proposto dai genitori, privato di un efficace critical thinking, non sono direttamente ascrivibili solo agli adulti coinvolti nei “ruoli”, bensì – e ciò allarma alquanto – è l'autonomia del fare e del pensare dei figli che è la “grande assente” nella storia recente dei rapporti sociali. Sulla falsariga del libro di Massimo Recalcati “Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre” (Feltrinelli, 2013), possiamo dire che è la figura del il figlio-Narciso che si sta imponendo nella materialità dei legami, figli che restano fissati sterilmente alla loro immagine, in un ambito esistenziale chiuso in sé che sembra non ospitare più la differenza tra le generazioni e che, pertanto, giustifica l'intercambiabilità dei ruoli, l'indifferenza all'insegnamento ed all'ascolto, il silenzio del “guardarsi allo specchio”, l'arroganza ontologica di “richieste” abortite, di meccanismi mercificati d'aiuto del tutto naturalizzati, d'una eredità già disponibile, d'uno svuotamento di senso dei legami affettivi, d'una filiazione simbolica mai appassionatamente avvertita, d'una propensione esclusiva all'acquisizione.
La diretta responsabilità individuale dei figli adolescenti – rebus sic stantibus – per come sono e si relazionano con il mondo non può essere sottaciuta, inabissata per “senso di colpa” genitoriale; è il modo pessimo di peggiorare le cose.
SOS IL TELEFONO AZZURRO ONLUS e Doxa Kids hanno pubblicato (2014) la ricerca “Osservatorio Adolescenti: pensieri, emozioni e comportamenti dei ragazzi di oggi” (aggiornata con l'ulteriore ricerca “Il tempo del web – Adolescenti e genitori online”, Febbraio 2016) che denuncia il “bisogno” degli adolescenti di autoaffermazione e di “essere visti” sia passato, per molti ragazzi di oggi, da una necessità tipica dell'età a un'urgenza pervasiva, un obbligo autoimposto (You like me ergo sum), amplificato e condizionato nella sua espressione dai social network assolutizzati come evanescente proscenio dell'esserci e della neoiconoclastia inconsapevole del selfie, preoccupati come sono per la propria immagine e il proprio aspetto fisico. Inoltre, auto-isolati nelle caverne devoniane delle dimore familiari, secondo la citata indagine, gli adolescenti sono always on, per ascoltare musica o radio (61%), per guardare video (60,2%), per fare ricerche per la scuola e i compiti (58,3%) per curiosare e navigare nel web (57,3%), per fare acquisti (22%), comprando online giochi (34,6% dei ragazzi), accessori di moda (22,3% delle ragazze), ma anche libri (17,6% delle ragazze); ad essere però prioritario è il poter essere sempre in contatto con gli amici, fondamentale per l'89,7% dei ragazzi, attraverso Whatsapp e Facebook (li utilizza rispettivamente l'89,8% e l'82,3% degli intervistati). Sono anche intrigati dall'esercizio di varie forme di cyberbullismo ed appaiono essere sempre più diffusi anche tra le ragazze, in primisl'uso di superalcolici – nonostante la maggior parte dei ragazzi dichiara di avere un'alimentazione variegata (23,4%), equilibrata (21,7%) e sana/genuina (20,3%) – (il 37,1% delle ragazze vs il 17,4% dei ragazzi ha dichiarato di assumere superalcolici), il numero di ubriacature (52,9% delle ragazze vs 44,8% dei ragazzi ha dichiarato di essersi ubriacato almeno una volta nell'ultimo mese), i comportamenti violenti nelle relazioni di coppia (il 7,9% dei maschi vs 3,3% delle femmine ha dichiarato di essere stato picchiato dalla propria fidanzata), per rabbia e autodifesa. Per quanto riguarda la scuola, 1 adolescente su 2 (51%) ha risposto che vorrebbe ci fosse più sport, oltre che più tecnologia (44%), musica, arte e cultura (42,7%), più attenzione alle emozioni (33,2%); quasi 1 adolescente su 2 (il 49,6% del totale dei ragazzi intervistati) ritiene che nella scuola dei propri sogni ci dovrebbe essere un maggior orientamento verso il mondo del lavoro e maggiori occasioni di contatto con le aziende; più di un quarto degli adolescenti intervistati (28,7%), inoltre, vorrebbe che la scuola offrisse una maggiore preparazione.
Tra le persone di cui si fidano di più i ragazzi indicano quasi a pari merito i genitori (44,8%) – con una preferenza per le mamme rispetto ai papà (30% vs 16%) – e gli amici (45,7%). La riservatezza resta comunque un “must” dell'adolescenza – quasi 1 ragazzo su 5 (19,7%) afferma che i genitori non conoscono tutto quello che il figlio fa – così come la richiesta di maggiore libertà e autonomia, unita ad un vissuto di insofferenza davanti a tutto ciò che viene percepito come “limite” e “invadenza”: più di 1 adolescente su 4 (26,4%) ritiene che i suoi genitori dovrebbero fidarsi di più di lui/lei ed il 24% degli 11-14enni vorrebbe che i genitori concedessero loro maggiore libertà.
Questi i dati rilevati; resta non sondata la dimensione psico-sociale immersiva dei figli che si materializza in uno stato di instabile apatia rispetto a tutto ciò che non entra nei limitati radar egoici, si incarna nell'ostentato malumore o anche in condotte passivo-aggressive quando essi “avvertono” pressioni esterne sollecitanti una visione priva di “paraocchi” tanto limitanti quanto pseudotrasgressivi; atteggiamenti di ripulsa/estraneità, quest'ultimi, espressione di immaginario ribellistico, provocatorio tendente a spezzare i legami affettivi (tra l'altro, alquanto bisognosi di apporti “creativi” causati proprio da inedita proattività), ma che confluiscono in una socializzazione neotribale tra pari età, a propria tutela, la quale – costituita da pratiche “immature”, “inesperte” – finisce con esaltare fenomeni di nefasto conformismo e consolidare “modi” che diventano “mondi”, insondabili ed estranianti, enfatizzanti l'autovalorizzazione del Sé.
S'assiste al trionfo dell'ambivalenza delle proli impegnate a trovar posto nella società e, nello stesso tempo, a rivendicare l'oblio come unica cifra d'una loro esistenza in vita che i genitori, volenti o nolenti, certificano e tollerano quasi con timore. Le tradizionali difficoltà indotte dalla pubertà, dalle crisi “fisiologiche” dell'accesso alla sessualità ed alle responsabilità sociali, sembrano non determinare più qualitativamente la “condizione di figlio”, bensì s'afferma, senza contrasti, un sistema esigenziale autopoietico (rif. Humberto Maturana, 1980) che altera e manipola i ruoli dentro i nuclei familiari, sterilizza l'apporto d'esperienza dei genitori, ormai “muti” nell'orientare e capaci solo di, in maniera residuale, organizzare gli “eventi” programmati dalla progenie.
La contestazione autentica dell'operato genitoriale da parte dei figli, semplicemente, non si dà più, non è contemplata dall'immaginario giovanile; la relazione è misurata in termini di “utilizzo” dei genitori rispetto ai propri, incontestabili “disegni” esistenziali. I figli, avendo disimparato la tecnica del conoscere gli altri, agiscono tra simili come se gli occasionali interlocutori fossero proiezione del Sé e quindi si privano ab origine dell'esperienza del “competere / convivere” tra “diversi”, dell'impegno e della fatica nel conquistare con le proprie sole forze obiettivi rilevanti, non identificando nemmeno le “sconfitte” come tali, poiché anestetizzati da routine che illudono sulla realtà d'una perenne, magica rigenerazione di opportunità, genitorialmente sostenuta.
I figli hanno l'aspetto di individui pragmatici che rinunciano a priori a rapportarsi razionalmente con l'ignoto, che non esercitano l'esplorazione apprenditiva e delegano ai genitori, in famiglia, il riconoscimento delle debolezze come se non fossero le loro, come solo mamma e papà sanno sublimare, e, allo stesso modo, non sono abili nel riconoscere i punti di forza degli altri con i quali fanno credere di “avere a che fare”.
Non sembri arido ed eccessivamente negativo il quadro; si colgono solo sintomi d'una condizione di prevaricazione delle figure genitoriali, in un'escalation sociale constatabile di generazione in generazione, che ha ridefinito da tempo (si ipotizza, come periodo storico, il decennio '80 – '90 del Novecento, con fenomeni quali il “rafforzamento del terziario”, il deterioramento della moralità pubblica, l'attrattiva esercitata dalle profferte della società consumistica correlata alla riduzione drastica dell'interesse per la politica ed alla inarrestabile “educazione” televisiva e rizomatica che impone significati nuovi all'agenda setting della cittadinanza, l'incapacità d'aggregazione sociale dei “corpi intermedi” e la decomposizione delle appartenenze “ideologiche”, la strisciante compatibilità di pratiche eversive e di contrasto alla multietnicità) le forme di collaborazione domestico-privata e/o politico-sociale nonché di configurazione della sfera “intima”.
Figli, quindi, privi di cordone ombelicale con la storia e “gettati nel mondo” (Geworfenheit) con il richiamo dell'esistenza a se stessa, cioè al proprio nulla di fondo (rif. Martin Heidegger, “Sein und Zeit”, 1927). È il venir meno di quella situazione nella quale si produce storicità autentica: la scelta, per l'avvenire, delle possibilità che sono già state, ovvero un tramandarsi di tali possibilità, una loro ripresa decisa, che Heidegger chiama anche destino (in senso attivo e non passivo).
Giovanni Dursi
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