
Più di tremila anni fa Gilgames re di Uruk pianse sette giorni e sette notti per la morte dell'amico Enkidu, “finché il verme non fu sopra di lui”.
Più di 3000 anni fa sulle rive dello Scamandro, Priamo re di Troia si inginocchiava davanti ad Achille, per riavere la salma del figlio e tributargli i giusti onori. Così, in un passato che si perde nel mito si onoravano i morti. Oggi?

Di questo e altri temi abbiamo dialogato con Davide Sisto, filosofo, assegnista di ricerca in filosofia teoretica presso l'università di Torino, esperto di tanatologia e docente al master Death Studies & the End of Life dell'università di Padova.
Come ha vissuto il Lockdown? Che poi non è proprio del tutto finito.
L'ho vissuto con relativa tranquillità. In maniera abbastanza razionale forse anche per il tipo di studi che svolgo. Avendo l'abitudine a pensare alla nostra fragilità esistenziale, al fatto che non siamo immortali, tutto sommato ho vissuto soprattutto la prima parte della quarantena in maniera abbastanza tranquilla con lucidità e razionalità. Con il passare del tempo si è manifestata comunque la pressione dell'isolamento, a causa del congelamento del corpo in casa e della sua sostituzione con le identità online.
Di conseguenza a lungo andare ho patito di più l'essere messo in stand-by piuttosto che temere per la mia esistenza.
Il Coronavirus ha portato alla ribalta il fantasma della fragilità, della morte. Come possiamo confrontarci con questo grande spettro?
Nel mondo occidentale non siamo preparati ad avere un rischio di questo tipo per la nostra salute. Di fatto una serie di comportamenti pubblici l'hanno evidenziato. Dal classico slogan “Andrà tutto bene”, che rappresenta il tentativo di rimuovere il rischio, ai primi atteggiamenti con cui si è cercato di ridimensionare il rischio. Penso ai vari atteggiamenti che si sono manifestati sui social, specialmente nella prima fase, per mezzo dei quali si rivendicava il diritto ad uscire di casa, quindi a infrangere il lockdown, quasi come un gesto rivoluzionario. Aspetto che poi ha mostrato la corda quando ci siamo in qualche modo riscoperti vulnerabili e ci siamo resi conto che c'era ben poco da scherzare. Quando supereremo questa seconda fase, questa cosiddetta seconda fase, se non ricadremo in una condizione di quarantena, una volta superato il pericolo, occorrerà francamente creare dei percorsi di Death Education per capire quello che è successo, per fare in modo che le persone dinanzi a un pericolo possano avere una maggiore consapevolezza della propria mortalità.
Freud però parlava di negazione necessaria rispetto all'idea della morte. Non crede che ci dimenticheremo della morte per poter continuare a vivere?
Questo è un aspetto importante da sottolineare. Quando si dice che bisogna uscire dalla rimozione della morte non significa che bisogna vivere paralizzati dal pericolo di poter morire da un momento all'altro.
Ci sono due tipi di rimozione. Da un lato c'è una rimozione sociale e culturale, la quale cerca di farci vedere come immortali e attribuisce alla medicina un ruolo salvifico. Dall'altro lato c'è la rimozione che deriva dall'istinto di autoconservazione, la quale ci permette di non rimanere paralizzati in ogni istante dal pensiero della propria mortalità. Tenuto conto di ciò, è difficile prevedere quale sarà la reazione delle persone una volta finito il pericolo. Sono, tuttavia, dell'idea che una traccia rimarrà, e sarà molto difficile riprendere quell'atteggiamento di estroversione estrema, di tracotanza, dinanzi al rischio della morte.
Secondo me per lungo tempo ci sarà un enorme timore generale, che probabilmente si concretizzerà in comportamenti eccessivamente ipocondriaci, i quali determineranno molte rinunce. Per questo serve la Death Education e dunque l'insegnamento di un rapporto più equilibrato con la nostra finitezza.
Dalle notizie di questi giorni emerge che i soggetti maggiormente colpiti, i primi a morire, sono stati gli anziani. Delle persone con disabilità sappiamo meno. Secondo lei è stata una questione di tipo sanitario o una questione di tipo politico?
È difficile dare una risposta. Da quello che sappiamo, tramite i resoconti giornalistici, l'emergenza epidemiologica è stata una questione di tipo sanitario, per cui le persone già debilitate ne hanno pagato maggiormente le conseguenze. La questione diventa etica e politica nel momento in cui, a causa dei limiti del nostro sistema sanitario, ci si è ritrovati a dover fare delle scelte di natura anagrafica. Pensiamo alle polemiche sorte riguardo alle raccomandazioni di etica clinica nel documento SIAARTI.
Questo è un tema molto delicato perché chiama in causa diversi attori nell'ambito della gestione del fine vita. Penso ai palliativisti, agli studiosi del fine vita. Nel senso che, secondo me, dovremo una volta terminata l'emergenza ragionare con attenzione sulle scelte che sono state fatte nel corso della fase uno.
Di recente non abbiamo potuto piangere i morti. L'attrice Maddalena Crippa e la poetessa Chandra Livia Candiani sostengono la necessità di festeggiare i morti. In quale modo possiamo festeggiare i morti in questo momento? Quali rituali abbiamo a disposizione?
Innanzitutto quello che è emerso è l'importanza, quasi inedita, delle tecnologie digitali. Nel momento in cui non si sono potuti più celebrare i riti funebri tradizionali ci siamo resi conto che le tecnologie digitali possono mettere quantomeno una pezza. Pur non essendo sostitutive ripropongono on-line pagine che si sono trasformate in una specie di memoriale, sulle quali investire la propria celebrazione dei morti, stare vicini alle persone che hanno patito il lutto, fare comunità. Questo ovviamente non sostituisce, per una sana elaborazione del lutto, tutto quello che si può fare e si deve fare nella dimensione off-line. Non sostituisce il ruolo del contatto fisico.
Quindi probabilmente una volta che usciremo dalla fase emergenziale sarà necessario probabilmente qualche rito pubblico collettivo, che almeno a livello simbolico permetta di recuperare quei riti che non sono stati svolti. Va comunque sottolineato il ruolo terapeutico di pagine Facebook come “Noi denunceremo“, in cui la comunità lombarda ha creato un luogo di ritrovo per darsi sostegno reciproco.
È notizia di questi giorni che L'Eco di Bergamo ha inaugurato un portale on-line delle necrologie, a disposizione di coloro che vogliono aderire al lutto. Il gruppo GEDI ha inaugurato il sito memorie.it per ricordare chi non c'è più.
Ne ho sentito parlare. E ritengo tali iniziative molto importanti.
Ti leggo alcune righe sul lutto, scritte dalla poetessa e studiosa di meditazione Chandra Livia Candiani.
“Lo chiamano lutto. Se accogli i suoi inviti, le sue chiamate a sentire la morte, interrompere tutto, sedersi o sdraiarsi e assaggiare l'assenza, allora è un dono. Se fingi che non ti chiami, se riempi ogni attimo di distrazione ti fa a pezzi. […] Ti prego morte non lasciarti addomesticare, non diventare turistica, continua a farmi un assoluto male e dammi il mistero di te, di me, della non separatezza”.
Ti andrebbe di commentare?
In linea generale non posso che essere d'accordo. Nel senso che evidenzia bene i due lati, i due aspetti contraddittori del lutto. Da una parte il lutto in fondo ci mette di fronte a un aspetto che caratterizza tutta la nostra vita che è quello della perdita. Tutta la nostra vita è fondata su delle perdite, nelle relazioni sentimentali, nei processi di crescita, le morti dei nostri cari. Quindi il lutto di fatto rappresenta un elemento che caratterizza, che definisce le nostre vite. Di conseguenza accoglierlo e rendersi consapevoli che le cose finiscono e che bisogna scendere a patti, è assolutamente un aspetto salutare per il processo di maturazione individuale e collettiva.
Dall'altra parte il lutto è anche ciò che in qualche modo può trasformarsi in una vera e propria prigione mentale, in una vera e propria prigione psicologica. E si collega alla non accettazione, e al non riconoscimento della mortalità all'interno della nostra vita. Per cui meno si è propensi a riconoscere che le cose finiscono più è difficile accettare la fine e la perdita dell'altro.
Questi sono i due significati in contraddizione che riguardano il lutto. Il riconoscimento in qualche modo del ruolo della morte, dell'autentico significato della morte, emerge anche in questa dialettica tra positivo e negativo all'interno del nostro rapporto con il lutto.
Come mai ti sei avvicinato i temi della Death Education? Qual è il tuo rapporto personale con la morte, la tua morte e la morte degli altri?
La mia formazione filosofica più tradizionale è nel campo del romanticismo tedesco dell'Ottocento, in cui il tema della morte svolge un ruolo assolutamente centrale. In più, io sono un appassionato di rock estremo, di musica heavy-metal, genere che parla di morte. Quindi questo, forse anche solo inconsciamente, ha facilitato l'interesse per il tema. Il terzo punto è che è un tema a cui ho sempre pensato fin da piccolo, anche perché in famiglia soprattutto da parte dei miei ci sono stati dei lutti importanti. Quindi questo tema è sempre stato centrale per me.
Per quanto riguarda invece l'altra parte della domanda non ho un grande problema nei confronti della mia morte. Nel senso che sono consapevole che non sono io a scegliere quanti anni potrò vivere. Di conseguenza accetto tranquillamente quello che capiterà. L'unica cosa che mi fa timore è il dolore che anticipa la morte. La morte di per sé non è un problema.
Sicuramente un pochino più impegnativo è invece il rapporto con la morte altrui, quindi con la perdita. Ho un rapporto meno pacificato con la morte dell'altro.
Vladimir Jankèlèvitch sostiene che non possiamo parlare della morte perché qualsiasi cosa diciamo usiamo un linguaggio che appartiene alla vita. Mi sembra una dimensione opposta a quella verso cui stai andando tu. Che cosa ne pensi?
Ma, in realtà neanche così tanto distante. Nel senso che in realtà una cosa che va detta è che chi come me si occupa di questo tema di fatto non si occupa dell'evento della morte, dal momento che è un evento che nessuno può descrivere rimanendo in vita. Ma si occupa di tutto ciò che sta attorno e che in qualche modo porta a quell'evento. Quindi tutto sommato non mi sento così lontano da questo tipo di pensiero. Nel senso che, e questo è un aspetto interessante a livello più filosofico, chiunque si occupi di morte, se vuole occuparsene bene parla di tutto tranne che della morte.
Parla di tutto ciò che in qualche modo circonda quell'evento e che in qualche modo determina timore, paura, sofferenza, angoscia negli esseri umani.
Ci sono molti scritti al master di Death Studies a Padova?
Ogni anno ci sono una media di trenta, quaranta corsisti. In realtà è un pubblico molto variegato. Ci sono studenti universitari, soprattutto di psicologia, educatori e pedagogisti, lavoratori nell'ambito delle onoranze funebri, filosofi, nonché figure religiose. È un master intergenerazionale. Ci sono corsisti ventenni e corsisti over sessanta.
Che cosa si propone il master di Padova?
Bisogna tener conto che il master è stato ideato da Ines Testoni, che ha una formazione filosofica, sotto la guida di Emanuele Severino, e una formazione psicologica, insegnando Psicologia Sociale a Padova.
A un certo punto del tuo intrigante libro La morte si fa social, parli di eternità digitale, che non è soltanto l'eternità del rimanere nella memoria degli altri. È un'eternità in cui è preservata anche la capacità di continuare ad apprendere, di essere coscienti di se stessi. Scrivi, e citi le fonti, che ci sono dei progressi in questa direzione.
Questo non è l'ultimo inganno per esorcizzare la morte?
Non è un inganno come quello di Heidegger quando scrive dell'essere-per-la-morte?
Così come è un auto inganno quello di Freud che sostiene che la vera angoscia non è per la morte ma per la castrazione?
È un tranello della ragione la posizione di Jung che ritiene che la parte migliore di noi sopravvive in un viaggio che continua anche dopo?
È un'astuzia quella di Morin che introduce il concetto di amortalità, cioè di una vita umana che in futuro potrà durare centinaia di anni?
Non sono tutti escamotage per vincere la pornografia della morte?
Domanda non facilissima. Partendo da questa forma di eternità digitale, dagli studi che ho fatto in questi anni mi sembra che gli obiettivi siano due fondamentalmente.
Uno è un obiettivo completamente incentrato nell'ambito del ricordo. Quindi di conseguenza è un'eternità digitale potremmo dire dissimulata. Nel senso che è un utilizzo di questi mezzi per modernizzare il nostro modo di ricordare.
Dall'altra parte invece è un tentativo di tenere proprio in vita le persone. Quindi si entra nel campo del transumanesimo, di un transumanesimo digitale che vuole in qualche modo a sconfiggere la morte, che mira all'immortalità.
Per quanto riguarda il collegamento con gli autori citati ci dovrei ragionare.
Estrapolerei Heidegger da questo gruppo. Heidegger in fondo con l'essere-per-la-morte dice una cosa molto banale, che di fatto la morte è parte integrante della vita e tutto quello che noi costruiamo è basato sulla morte.
Non saprei dire se si possa collegare in qualche modo con il concetto ad esempio di Morin, della amortalità che comunque mi sembra un concetto che può anche essere in qualche modo sfruttato dai transumanisti, e quindi andare nella direzione di una negazione. Dovrei ragionarci.
Mi ha incuriosito molto l'analisi di Baudrillard, il quale afferma che la distinzione tra vivi e morti, l'estradizione dei morti dal mondo dei vivi, è il primissimo punto di emergenza del controllo sociale. Là avviene la prima strutturazione dei rapporti di potere, in cui c'è la necessità di un sacerdote che amministra il culto. Questa separazione, tra vivi e morti è la base di tutte le dicotomie che vengono dopo, maschile-femminile, corpo-anima, mente-cuore.
Ma la prima dicotomia è tra vivi e morti. Che cosa ne pensi?
In realtà mi sento abbastanza d'accordo con Baudrillard. Tra l'altro è un aspetto che si collega anche a Canetti. Canetti ammette il suo odio nei confronti della morte perché la morte è ciò che in qualche modo determina i rapporti di potere tra gli uomini. Per cui si viene a creare una specie di gerarchia tra sopravvissuto e defunto. Per cui il sopravvissuto alla lunga si sente in qualche modo molto più forte. In qualche modo sente di aver avuto o di avere un ruolo predominante rispetto a chi non ce l'ha fatta. In realtà Baudrillard nella sua opera “Lo scambio simbolico e la morte” questa cosa la declina anche nei confronti della rimozione. Per cui probabilmente resta anche il fatto che lui alla fine declini questo tipo di rapporto anche tenendo conto della progressiva deritualizzazione, della progressiva limitazione del discorso della morte all'interno della vita.
Le persone con disabilità, le persone in carrozzina hanno in qualche modo la morte iscritta nei loro corpi. Il rapporto che loro hanno con la morte è diverso secondo te? Può esserci una differenza? Non possono allontanare l'idea della morte, e per loro è più complicato rimuoverla.
Mi sembra molto difficile da parte mia non avendo questo tipo di situazione dare una risposta. Poi dipende probabilmente dal tipo di disabilità. Penso anche che sia molto soggettivo. Non mi sento di dire una cosa che poi potrebbe essere in qualche modo smentita da chi ha questo tipo di problema.
È interessante la traccia che ci ha fornito il filosofo Davide Sisto. Non è tanto la disabilità che determina il rapporto che noi stabiliamo con la morte. È più l'indole intima che stabilisce il nostro legame con le cose. Interessante questa ultima riflessione. Così come è interessante poter riflettere sui temi della morte, senza partecipare alla congiura del silenzio che spesso la esclude dal discorso pubblico. Questo lo si può fare anche visitando il sito http://www.sipuodiremorte.it che Davide Sisto cura insieme a Marina Sozzi
Abbiamo trovato appagante la capacità del filosofo di dialogare con noi, anche quando le domande non prevedevano risposte certe, e esponevano al contraddittorio. Ma d'altronde, se la filosofia non è contraddittorio e non è saggiare i limiti della ragione non è vera filosofia.
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