Gli eccidi nazifascisti occultati. Intervista a Daniele Biacchessi

Daniele Biacchessi
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Il nuovo volume di Eccidi nazifascisti. L'armadio della vergogna  si inserisce a pieno titolo nel campo dei memory studies odierni. L'espressione “memoria storica”, seppur assai corrente nel lessico comune, ha un significato o statuto incerto. Infatti, lega due termini che sono in tensione fra di loro: la storia, in quanto oggetto della storiografia, punta o tende – osserva lo storico Paolo Jedlowski – all'accertamento di una verità che, almeno idealmente, mira all'oggettività, basandosi sull'utilizzo rigoroso delle fonti, formulazione di ipotesi e controllo ricorrente della loro plausibilità da parte di una comunità scientifica; la memoria, al contrario, è spesso soggettiva, risponde frequentemente a esigenze prevalentemente identitarie ed è mutevole sotto la spinta di interessi contrastanti: serve la vita in modo immediato, spesso incurante delle deformazioni cui sottopone il passato.

Biacchessi - Eccidi nazifascisti - copertinaUn testo prezioso, quello di Biacchessi, per non dimenticare le centinaia di eccidi nazifascisti contro civili italiani inermi, per difenderle «da operazioni di revisionismo, o peggio ancora di vero e proprio “rovescismo”, in cui le vittime diventano carnefici e gli assassini si trasformano in martiri». Un libro che non avrebbe visto la luce senza l'impegno di Franco Giustolisi che – attraverso un giornalismo che si dovrebbe definire “militante” – condusse ostinatamente una ricerca su una stagione drammatica e dimenticata della storia italiana, quella delle stragi nazifasciste del 1943-45, raccogliendo vecchie carte e testimonianze, arricchendole con nuove indagini.

Siamo nella primavera 1994 quando il procuratore militare della Repubblica di Roma Antonino Intelisano è impegnato nell'indagine preliminare relativa alla strage delle Fosse Ardeatine. Il magistrato sta cercando in archivio una richiesta di autorizzazione a procedere che potrebbe essere contenuta negli atti del precedente processo contro Herbert Kappler. In seguito ad una lunga serie di ricerche viene alla luce un pezzo di Storia italiana che riguarda gli eccidi nazifascisti avvenuti in centinaia di borghi italiani dal 1943 al 1945. Si tratta di incartamenti occultati attraverso un'archiviazione illegale, firmata il 14 gennaio 1960 dal generale Enrico Santacroce su ordine politico: si trovano in un locale adibito ad archivio nel Palazzo Cesi-Gaddi di Roma. I fascicoli sono stipati in un armadio in legno marrone. Nessuno lo cerca, nessuno lo vuole trovare. Chi lo ha nascosto per ben trentaquattro anni?

Vengono alla luce 695 fascicoli raccolti in faldoni, stipati uno sull'altro. Biacchessi riapre i fascicoli, li confronta con le carte di vecchi e nuovi processi, incontra testimoni, familiari delle oltre 15 mila vittime, magistrati, avvocati, segue le tracce degli assassini rimasti di fatto impuniti e non più in vita, ricostruisce un mosaico composto da tasselli di verità celate.

Insieme alle questioni storiografiche, il libro provoca riflessioni di tipo filosofico sul male che frequentemente irrompe, spesso inaspettatamente, nella storia del secolo scorso o di recente nelle nostre vite, come accaduto in Ucraina o in Medio Oriente. La nostra coscienza si trova catapultata in uno stato di profonda angoscia e smarrimento, tanta è la violenza messa in campo. Un'irruzione, spesso incomprensibile e inattesa, che ci spinge a interrogarci sulle profondità della nostra essenza, facendoci sentire incredibilmente vulnerabili e schiacciati sulle nostre fragilità. Molte volte l'esperienza travolgente del male, nella sua cruda ineffabilità, rende qualsiasi tentativo di descriverlo o di circoscriverlo verbalmente uno sforzo assai arduo o vano. Si sente la necessità di dare voce al proprio sconcerto, di cercare parole che possano lenire, se non spiegare, l'indicibile dolore provocato dagli eccidi nazisti.

Da tempo, la riflessione filosofica sul male ha generato molteplici interpretazioni. Questo genere di male – ha osservato recentemente il filosofo Giovanni Scarafile – solleva domande profonde sulla natura stessa dell'esistenza, poiché non può essere facilmente spiegato né razionalizzato. Vengono in mente tante tragedie del secolo scorso accadute senza apparente motivo, molteplici sofferenze senza causa identificabile o a eventi traumatici incomprensibili. Una tentazione comune nella filosofia e nella teologia è di considerare il male come una necessaria ombra del bene, come una sorta di contrappunto che evidenzia e magnifica la presenza del bene. Questo argomento, tuttavia, diventa problematico – osserva Scarafile – di fronte al male incommensurabile. Come può, infatti, «un male apparentemente senza motivo o spiegazione servire a esaltare il bene? E come può un Dio benevolo, se concepito in tal modo, permettere tali mali? Rispondere a queste domande richiede il ricorso alla razionalità che possediamo, benché limitata e incapace di svelare pienamente i misteri della fede. Questo non implica una rinuncia, ma piuttosto l'adozione di una postura che, pur mantenendo intatto il mistero del male, ci offra una percezione almeno parzialmente comprensibile».

La presenza del male pone notevoli sfide al pensare. Ecco perché sono utili i libri come quello di Biacchessi. Aiutano ad interrogarci sulle fondamenta stesse della nostra comprensione della responsabilità e dell'essenza dell'etica. Cercare di capire il male, nonostante la sua devastazione apparentemente insensata, è dunque una testimonianza del nostro profondo bisogno di cercare significato. Il vero valore risiede non tanto nel trovare una risposta definitiva ma nell'avere il coraggio di porre la domanda. Nel nostro continuo interrogarci riscopriamo l'umanità dell'animo umano. E in questo sforzo risiede la nostra vera forza, la capacità di restare umani.

Abbiamo comunque voluto porre alcune domande all'autore per aver maggior contezza dei famigerati fascicoli dell'armadio della vergogna.

Dove nasce la tua inchiesta sui fascicoli dell'armadio della vergogna?
Da molto tempo che mi occupo della ricerca della verità e della mancata giustizia sulle stragi nazifasciste, esattamente da quando Franco Giustolisi del settimanale l'Espresso fece conoscere, per primo, il contenuto di 695 fascicoli occultati dalla politica e dalla magistratura militare per troppi anni. Quella documentazione rappresenta la grande ferita italiana.

Franco Giustolisi - L'armadio della vergognaFranco Giustolisi era un grande giornalista che aveva lavorato su terrorismo, criminalità, P2 e molto altro ancora. Poteva girarsi dall'altra parte, far finta di niente, fare quello che altri avevano compiuto nel corso del tempo. Invece si è messo a scrivere. E ha raccontato una storia che parte dal 14 gennaio 1960. Il procuratore generale militare Enrico Santacroce, che dipende dalle volontà politiche del governo guidato da Antonio Segni (Giulio Andreotti alla Difesa, Giuseppe Pella agli Esteri, Guido Gonella a Grazia e Giustizia), emette un decreto di archiviazione provvisoria dei documenti sulle stragi nazifasciste avvenute tra il 1943 e il 1945, in Italia, ex Jugoslavia, Grecia, contro civili, militari che non aderiscono alla RSI, partigiani. La storia che ho ricostruito nel mio libro arriva al maggio 1994, quando Il procuratore militare della Repubblica di Roma Antonino Intelisano è impegnato nel processo per le Fosse Ardeatine contro l'ex capitano delle SS Erich Priebke. Sta cercando in archivio una richiesta di autorizzazione a procedere che potrebbe essere contenuta negli atti del precedente processo contro Herbert Kappler. All'inizio la missione pare impossibile. Poi il procuratore generale militare Renato Maggiore interpella il dirigente della Cancelleria Alessandro Bianchi, che rammenta l'esistenza di un carteggio del genere in un locale adibito ad archivio, al piano terra del Palazzo Cesi-Gaddi, in via degli Acquasparta, a Roma. Renato Maggiore e Alessandro Bianchi si rivolgono quindi a Floro Rosselli, magistrato in pensione che per anni si è occupato di archivi. Così Intelisano scopre un armadio in legno marrone, sigillato, con le ante rivolte verso il muro, chiuso a chiave, protetto da un cancello in ferro e da un lucchetto. 

 Cosa contengono i fascicoli ritrovati al Palazzo Cesi, nel maggio 1994?
Da quell'armadio rimasto dimenticato negli archivi dell'ex Tribunale speciale fascista vengono alla luce 695 fascicoli raccolti in faldoni, stipati uno sull'altro. C'è un registro composto da 2.274 notiziedi reato, il cosiddetto “Ruolo generale dei procedimenti contro criminali di guerra tedeschi”. Tutto è archiviato, o meglio occultato, in modo rigoroso, preciso, ordinato. Si viene a sapere che in realtà i fascicoli complessivi sono 2.205: 260 inviati ai tribunali ordinari nell'immediato dopoguerra, 1.250 distribuiti alle Procure militari territorialmente competenti, 695 fatti sparire per un terzo di secolo. 

 Nell'elenco del cosiddetto “Ruolo generale dei procedimenti contro criminali di guerra tedeschi”, c'erano anche nomi italiani?
Si, certamente. Nel libro ci sono i nomi dei criminali nazisti e anche quelli dei fascisti responsabili di quegli eccidi. In certi luoghi i repubblichini hanno compiuto stragi efferate, penso a VincaBardine di San Terenzo, Valla, Forno, Borgo Ticino. Non solo. In questa mia inchiesta c'è la descrizione minuziosa del muro di gomma messo in campo dagli apparati dello Stato per ostacolare la ricerca della verità. C'è il coraggio del giornalista Franco Giustolisi dell'Espresso che per primo conia il termine “armadio della vergogna”. Ci sono i processi giudiziari compiuti e le domande rimaste senza risposte. Nella sostanza, i nazisti ordinarono, i fascisti eseguirono senza fiatare, perché conoscevano il territorio delle operazioni militari. 

 Chi erano le vittime?
Le vittime erano donne, vecchi, bambini, piccoli ancora in fasce. E ancora oggi è così in varie parti del mondo, in Medio Oriente e nel conflitto tra Russia e Ucraina. Tedeschi e repubblichini hanno colpito anche partigiani, renitenti alla leva, ex militari dell'Esercito italiano che non avevano aderito alla Repubblica di Salò, ai famigerati bandi del generale Graziani, normali cittadini non belligeranti. Del resto, il sistema nazista era preciso e si basava sugli ordini draconiani impartiti dal feldmaresciallo Albert Kesselring, secondo cui chiunque veniva trovato in una zona “infestata dalla presenza di banditi” è pure lui partigiano.
Infatti, negli atti riservati dello Special Investigation Branch (SIB) (documento Report on German Reprisals for Partisan Activity in Italy, 9 luglio 1945), è scritto che le rappresaglie non erano eseguite su ordine dei comandanti di singole formazioni ed unità tedesche, ma erano esempi di una campagna organizzata, diretta dal Quartier generale del feldmaresciallo Albert Kesselring. Le vittime erano per lo più contadini, mezzadri, persone semplici che lottavano per conquistarsi la pagnotta quotidiana, ed erano ovviamente più fragili. Molti di loro aiutavano le brigate partigiane per i loro figli erano partiti per le tante guerre perse dal (Etiopia, Grecia, Albania, Libia, Russia), e mai più tornati, perché uccisi nei vari teatri di guerra. 

Chi erano i carnefici? 
I soldati nazisti del Secondo Reggimento della 16a SS-Panzergrenadier-Division (responsabili delle stragi con il maggior numero di vittime come Montesole-Marzabotto, Sant'Anna di Stazzema, Vinca, Valla, Bardine di San Terenzo, Bergiola Foscalina, fiume Frigido, Certosa di Farneta), erano stati addestrati per la guerra ai civili ben prima del loro arrivo in Italia alla guida del generale Max Simon e da Walter Reder detto “il monco”. Le loro gesta non ebbero nulla di eroico, bensì traevano ispirazione dallo sterminio di tipo castale dettato dalle idee di Himmler. I repubblichini di Salò e le tante polizie segrete obbedivano ai nazisti perché erano come loro. Anzi qualcuno li superò, nel metodo e nell'azione. Il prefetto di Roma Pietro Caruso e il responsabile del Reparto speciale di polizia, il sadico e cocainomane Pietro Koch, avevano compilato insieme a Herbert Kappler (capo della Sicherheitsdienst, il servizio segreto nazista), le liste dei tre centotrentacinque antifascisti romani da mandare alla fucilazione alle Cave Ardeatine. E gli uomini della undicesima Compagnia del terzo Battaglione del SS-Polizei-Regiment “Bozen” uccisi dai partigiani dei Gap in via Rasella, non erano componenti di una banda musicale di semi pensionati, come li ha definiti il Presidente del Senato Ignazio La Russa, ma una squadra addestrata e specializzata in rastrellamenti antipartigiani, a Roma.

 Per rendere l'impunità ai carnefici si giunge dunque alla ragion di Stato.
Si, si arriva all'archiviazione provvisoria di fascicoli contenenti notizie di reato, nomi e cognomi dei responsabili di stragi. Quindi una archiviazione totalmente illegale come hanno ammesso i massimi organi della magistratura militare, come emerge dalla relazione di minoranza della Commissione parlamentare d'inchiesta, dalle massime cariche dello Stato. Ad esempio, nel libro pubblico lo scambio di lettere tra l'allora ministro degli Esteri Gaetano Martino e il ministro della Difesa, il democristiano ed ex partigiano bianco Paolo Emilio Taviani, nella quale si sostiene l'inopportunità di alimentare in quella fase storica una polemica contro la Germania, proprio nel momento in cui il governo di Bonn riorganizza l'esercito in funzione anche di scudo atlantico contro l'Est sovietico. Nel 1960, e sono ormai passati quindici anni dalla fine del conflitto, la Germania, sconfitta e lacerata, è divisa in due dal muro di Berlino. Il nemico dell'Occidente non è più il nazismo, ma l'Unione Sovietica. In Italia è terminata la ricostruzione, i consumi si impennano grazie al boom economico, e i civili e i militari uccisi devono restare avvolti nell'ombra,come vittime invisibili. Così il procuratore generale militare gen. Enrico Santacroce, che dipende dalle volontà politiche dell'allora governo guidato da Antonio Segni (Giulio Andreotti alla Difesa, Giuseppe Pella agli Affari Esteri, Guido Gonella a Grazia e Giustizia, Paolo Emilio Taviani alle Finanze), archivia in forma illegale la verità sulle stragi contro i civili in Italia. Qualcuno ha ordinato, qualcuno ha eseguito. Del resto, poteva finire solo così. L'Italia è un paese a sovranità limitata. Lo ha dovuto ammettere anche Giuliano Amato raccontando ciò che sa della strage di Ustica.

 Nel libro colpiscono i dati sulla mancata epurazione dei fascisti, ben prima dell'amnistia dell'allora ministro Guardasigilli, il comunista Palmiro Togliatti.
I numeri sono impressionanti e fanno pensare perché si è arrivati fino ad oggi. Nell'immediato dopoguerra, secondo il rapporto della Commissione per l'epurazione dell'Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo del 1945, su 143.781 dipendenti pubblici dello Stato fascista esaminati, 13.737 vengono processati e, di questi solo 1.476 rimossi dal loro incarico, quindi dai gangli del potere. Negli anni Sessanta, quindici anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, su 64 prefetti, 62 sono funzionari degli Interni durante la dittatura fascista; 241 viceprefetti provengono dall'amministrazione fascista; 120 su 135 questori giungono dalle varie polizie ufficiali della Repubblica di Salò; 139 vicequestori entrano in servizio durante il fascismo. Solo 5 di loro contribuiscono in qualche modo alla Resistenza. Interi settori della Magistratura e della Polizia, dell'esercito, della burocrazia e dell'università, rimangono al loro posto, si sottraggono alle misure di bonifica democratica. Alti funzionari dello Stato fascista saranno poi gli stessi a gestire parti influenti degli apparati del nuovo Stato repubblicano. Mario Scelba, ministro degli Interni dal 1947 al 1953 e poi dal 1960 al 1962, ricolloca un buon numero di funzionari fascisti in posti chiave per l'ordine pubblico e per la repressione di ciò che viene individuato come nemico dello Stato: comunisti, socialisti, partigiani, sindacati, intellettuali. Sono quegli apparati che gestiscono nei fatti una parte della storia italiana repubblicana. Gente come Mario Roatta, Marcello Guida, Federico Umberto d'Amato, Silvano Russomanno, Guido Leto, Ettore Messana, Ciro Verdiani, Giovanni Messe, Giovanni Ravalli. Secondo Alessandro Galante Garrone. l'epurazione fu una burletta. Si sarebbe dovuto procedere dall'alto. Invece ci si accanì contro gli applicati d'ordine e gli uscieri, o magari il capo fabbricato che aveva indossato la divisa per vanità. Non si vollero o non si poterono colpire gli uomini veramente colpevoli e le vecchie strutture dello Stato e della società.

 L'Italia ha fatto i conti con il suo passato?
Purtroppo no. Come scrivo nel mio libro, a mio avviso c'è ancora molta strada da compiere, anche nelle sedi istituzionali, per difendere la memoria delle vittime delle stragi nazifasciste in Italia da operazioni di revisionismo, o peggio ancora di vero e proprio “rovescismo”, in cui le vittime diventano carnefici e gli assassini si trasformano in martiri. I vinti si prendono una rivincita postuma sui vincitori, invertendo le parti della Storia. Uno Stato democratico, con una Costituzione nata dalla Resistenza, non lo può permettere. Ma c'è un ma. Questo progetto di tipo revisionista ha avuto come ispiratori sul piano storico e politico ex repubblichini come Giorgio Pisanò, ma anche illustri giornalisti della sponda opposta come Giampaolo Pansa (autore del libro Il sangue dei vinti), e uomini delle istituzioni di sinistra come l'ex presidente della Camera Luciano Violante, che propose una sostanziale parificazione tra vincitori e vinti. Su questo punto si gioca il futuro della memoria in Italia, tra oblio e verità. Oggi è importante raccontare, e quelle contenute in questo libro sono le pagine dimenticate del nostro Paese. È la storia di 30mila morti. È la Storia d'Italia. 

Antonio Salvati

Daniele Biacchessi
Eccidi nazifascisti. L'armadio della vergogna
Jaca Book, 2023
pagine 192
€ 19,00

 

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