
La “questione meridionale” è assente da diversi decenni dalle attenzioni della politica nazionale. Malgrado l'avvio delle politiche comunitarie di convergenza dopo il 2000, si sono decisamente rarefatte le riflessioni sul Mezzogiorno, ad eccezione delle periodiche indagini della Svimez. Anche in questa campagna elettorale, per molti versi tra le più indecenti e improbabili degli ultimi anni, la questione meridionale è la grande assente nei dibattiti. Eppure, l'Italia resta un paese per tanti versi spaccato e a due velocità, e l'ultimo decennio di crisi economica ha contribuito ad acuire il divario tra Nord e Sud. Eppure il Sud ha circa 20 milioni di abitanti, il doppio o più del doppio della Svezia, dell'Austria, della Repubblica Ceca, dell'Ungheria, della Grecia; solo quattro stati membri dell'Unione Europea hanno una popolazione maggiore.

Le analisi delle disparità interne al paese vanno collocate in un quadro più ampio, come sostiene Gianfranco Viesti – nel suo ultimo prezioso volume, Centri e periferie. Europa, Italia, Mezzogiorno dal XX al XXI secolo (Laterza, 2021, pp. 496 € 28) – che è convinto che per comprendere le cause, la situazione e le prospettive dello sviluppo di tutti i territori italiani sia indispensabile collocarle nell'ambito delle grandi trasformazioni, economiche, tecnologiche, politiche del quadro internazionale, compararle sistematicamente con ciò che avviene nel resto d'Europa, comprendere l'importanza e l'impatto di tutte le politiche pubbliche. È difficile, in altri termini, capire il Mezzogiorno o l'Italia guardando solo quel che accade nel presente, e nei loro confini.
Occorre fronteggiare la questione demografica perché – avverte Viesti – la demografia influenza l'economia, tant'è che solitamente i flussi di popolazione rafforzano le aree di destinazione e indeboliscono quelle di origine. La demografia delle regioni italiane è completamente mutata dal passato e il tasso di fecondità femminile si è allineato su valori molto bassi in tutte le regioni. Il Sud non è più un'area ad alta natalità e la sua popolazione tende ad invecchiare più velocemente. Gli immigrati che raggiungono il nostro paese sono stati – e continuano ad essere – molto sensibili al Centro-Nord, più modesti al Sud. La popolazione continua poi a spostarsi verso Nord all'interno del paese. Pertanto, le prospettive demografiche sono divenute preoccupanti, in misura maggiore nelle aree interne e nel Mezzogiorno. Infatti, come ha sottolineato Viesti, il suo problema
«non è più l'eccesso di popolazione, come nel Novecento, ma la sua carenza. Gli andamenti del reddito pro capite delle regioni italiane non sono più, come per tutta la storia unitaria, frutto di diverse velocità di crescita di reddito e abitanti, del mutevole equilibrio tra la capacità di creare benessere materiale e l'ammontare di cittadini fra cui ripartirlo, ma di un instabile equilibrio di decrescita, nel quale le risorse prodotte non aumentano a sufficienza e la popolazione, che le realizza e ne trae giovamento, tende a ridursi».
Per secoli, la popolazione italiana ha continuato ad aumentare con periodi di intense migrazioni verso l'estero; quest'ultime hanno solo contenuto l'incremento dovuto ad una natalità molto alta e ad un progressivo allungamento della vita media. L'Italia ha conosciuto una lunga transizione demografica conclusasi nel XX secolo. Il numero di decessi ha cominciato a diminuire da fine Ottocento, da 30 morti per mille abitanti fino a 10 negli anni Cinquanta del Novecento, al di là dei periodi bellici; poi è rimasto stabile. Anche il numero di nati vivi ha cominciato a scendere dagli anni Novanta dell'Ottocento, quando era un po' meno di 40 per mille abitanti, fino ai 20 alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Con il baby-boom il decremento si è fermato, ma è ripreso all'inizio degli anni Settanta. Le nascite sono scese ancora nel nuovo secolo, e nel 2019 sono state solo 420.000, quando negli anni Sessanta si era invece superato il milione; bisogna risalire al XVI secolo, quando l'Italia aveva un quarto della popolazione attuale, per trovarne un numero analogo. Il tasso di fecondità si è assestato intorno a 1,3-1,4 figli per donna in età feconda a partire sempre dagli anni Novanta, largamente al di sotto del valore (2,1) che consente di mantenere la popolazione stabile. Nota Viesti che nel quadro europeo il tasso italiano di fecondità è superiore solo a quello degli altri paesi mediterranei e della Polonia. Con il XXI secolo il quadro demografico del paese è dunque mutato. Il saldo naturale è divenuto negativo, e la popolazione è cresciuta solo grazie all'immigrazione.
Dal 2015 «l'immigrazione è però rallentata e le dinamiche naturali sono peggiorate, così che nella seconda metà degli anni Dieci la popolazione è diminuita di mezzo milione; di 800.000 quella di cittadinanza italiana. A fronte dei 420.000 nati nel 2019 in Italia, ci sono stati 650.000 morti. Le proiezioni demografiche per i prossimi decenni indicano una stazionarietà o una lieve riduzione del numero dei nuovi nati, e invece un incremento dei morti come effetto dell'invecchiamento e quindi una ulteriore diminuzione della popolazione. Non sarà facile evitarlo: anche se il tasso di fecondità aumentasse in futuro, è difficile prevedere un significativo aumento delle nascite, dato che si è ridotto e si ridurrà sempre più il numero di donne in età feconda».
Il futuro del paese dipenderà dai movimenti migratori. L'Italia ha avuto fino all'inizio degli anni Settanta un saldo migratorio negativo con l'estero, mentre diversi altri grandi paesi europei già attiravano popolazione, così che all'inizio degli anni Novanta gli stranieri in Italia erano pochi, poco più di 350.000. Gli ingressi sono però poi aumentati, parallelamente a quello che accadeva negli altri paesi europei; gli stranieri sono cresciuti di un milione fino alla fine del secolo. Poi, un aumento ancora più forte, maggiore della media europea, con un flusso annuo prima intorno alle 200.000 unità, poi a partire dal 2003 assai più consistente. Dal 2010, pur mantenendosi su valori alti in comparazione storica, il flusso di immigrazione si è ridotto, sempre più decisamente. Questi eventi hanno mutato in maniera sostanziale il volto dell'Italia. All'inizio degli anni Venti la popolazione residente nata all'estero rappresentava quasi il 10% del totale; si tratta di un valore di poco inferiore a quello degli altri grandi paesi europei con una storia di immigrazione ben più lunga. Nelle regioni del Nord-Ovest l'arrivo di popolazione dall'estero ha alimentato un processo immigratorio in corso da decenni; nel Nord-Est, nel Centro e su scala inferiore nel Mezzogiorno, invece, si è trattato di una novità storica. Del fenomeno Viesti sottolinea un aspetto importante: più che negli altri paesi europei, gli immigrati in Italia hanno un livello di istruzione modesto e si sono concentrati nei lavori meno qualificati. Nella prima metà degli anni Dieci nel Centro-Nord il 40% del personale non qualificato era composto da immigrati, il 16% degli operai ed artigiani, ma solo il 2% degli addetti a professioni tecniche e qualificate. Sensibile in particolare, soprattutto in confronto ai paesi dell'Europa centro-settentrionale, è la presenza di donne immigrate attive come collaboratrici domestiche e badanti. Infine, in corrispondenza con la grave crisi degli anni Dieci, è tornato a crescere – pochi lo sanno – anche un flusso migratorio verso l'estero, in particolare verso le economie europee più forti; partendo da valori molto bassi all'inizio del decennio, è arrivato a sfiorare un saldo negativo di 100.000 unità all'anno. Si tratta di un fenomeno in parte fisiologico, data l'accresciuta mobilità della popolazione interna all'Europa, ma che è cresciuto velocemente e al quale – purtroppo – non corrisponde un flusso in direzione opposta. Occorre aggiungere che gli italiani che vanno all'estero provengono principalmente dai territori più sviluppati del paese, oltre che da Calabria e Sicilia, e hanno un livello medio di istruzione sensibilmente maggiore rispetto agli stranieri in entrata. Tutti questi eventi hanno portato ad un progressivo invecchiamento della popolazione, nonostante i flussi migratori in entrata: la popolazione che è arrivata ha un'età media di undici anni inferiore a quella di nazionalità italiana.
La diminuzione del Pil pro capite italiano negli ultimi anni è avvenuta a causa delle dinamiche della produttività, del tasso di occupazione e del peso delle persone in età di lavoro sul totale della popolazione (tenendo conto anche dei flussi migratori). L'invecchiamento della popolazione, attestato dalle proiezioni demografiche per il futuro, in parte sensibile determinate dai cambiamenti già avvenuti in passato, potrebbe produrre – in base agli studi citati da Viesti – fino al 2060 un calo del Pil pro capite del 16%. La popolazione nel primo ventennio del XXI secolo è aumentata al Centro-Nord di 3 milioni, frutto di un rilevante flusso di immigrati dall'estero e dal Sud, e che hanno compensato un saldo naturale fortemente negativo. Al Sud la popolazione è invece diminuita di oltre 300.000 unità, a causa di un saldo naturale divenuto negativo, dell'emigrazione verso il Centro-Nord e di un'immigrazione dall'estero molto più contenuta. Il Sud non è più l'area giovane dell'Italia e potrebbe diventarne l'area anziana, anche perché gli immigrati si sono insediati in misura nettamente prevalente nelle regioni del Centro-Nord, e questo si è sommato a persistenti movimenti migratori interni. Spiega Viesti che anche in Italia, come nell'intera Europa, le migrazioni assumono un significato diverso rispetto al passato, sia perché la popolazione non cresce più sia perché più di prima sono caratterizzate dal movimento di giovani ad alta istruzione. A partire dagli anni Novanta del secolo scorso sono ripresi i flussi migratori dal Mezzogiorno verso il Centro-Nord; il saldo fra partenze e arrivi si è aggirato intorno alle 50.000 unità all'anno nella parte finale del XX secolo, per poi crescere progressivamente fino a circa 70.000. Si tratta di valori inferiori a quelli della grande emigrazione degli anni Cinquanta e Sessanta, ma comunque significativi. Nell'ultimo ventennio hanno lasciato il Sud per le altre regioni oltre 900.000 residenti; si tratta prevalentemente di popolazione giovane (660.000 avevano fra i 15 e i 34 anni), e ciò ha provocato una diminuzione della popolazione in età di lavoro; ed è cresciuta la quota di persone con un livello di istruzione elevato. Questa migrazione è rilevante, non solo per i suoi effetti demografici ed economici, ma anche perché priva il Mezzogiorno di una delle componenti più importanti della sua società, condiziona la selezione e rallenta il ricambio delle sue classi dirigenti. Anche in Italia, come nell'intera Europa, le dinamiche demografiche – ha spiegato Viesti – sono state positive più nelle aree urbane rispetto al resto del territorio. Ma non in tutte: la popolazione è cresciuta moltissimo, tanto in valore assoluto quanto in percentuale, a Roma e Milano, ma si è ridotta a Genova, Messina e Reggio Calabria. La popolazione delle città del Sud è aumentata meno rispetto a quelle del Centro-Nord. In Italia è poi continuato il processo di relativo spopolamento delle aree interne, specie nel Mezzogiorno, nelle quali i tassi di natalità sono molto bassi e continua a verificarsi un movimento di popolazione verso le città. Facile prevedere che vi sarà negli anni Venti e Trenta un sensibile calo della popolazione in età di lavoro nelle principali regioni del Mezzogiorno. La dinamica del reddito pro capite ne sarà conseguentemente influenzata e, a parità di altre condizioni, nel Sud potrebbe esserci un dividendo demografico più negativo. La contrazione delle forze di lavoro determina una minore capacità dell'area di creare reddito; l'aumento di peso degli anziani richiede maggiori esigenze di servizi di cura, fa ridurre i bacini di domanda di altri servizi pubblici, come la scuola, e provoca una caduta del gettito fiscale necessario per finanziarli. Fenomeni già evidenti nelle aree interne del paese. È stato ad esempio stimato che la popolazione scolastica italiana diminuirà del 16% fra il 2019 e il 2030: ma tale riduzione sarà molto più intensa nel Mezzogiorno, con tutto ciò che questo implica per la necessità di nuovi insegnanti. Ad esempio, la decrescente domanda di abitazioni dovuta ad una popolazione che si riduce non solo deprime l'attività edilizia, ma può produrre anche un calo dei prezzi, e quindi dei valori, degli immobili e una conseguente contrazione della ricchezza delle famiglie. Si svilupperanno scenari del tutto inediti nella storia italiana.
Considerato che economia e demografia sembrano legate da un circolo vizioso, nel quale le tendenze negative possono influenzarsi e rafforzarsi a vicenda, la mancanza di interventi per la natalità, la forte carenza di servizi per la cura dei bambini e degli anziani, i bassi tassi di occupazione femminile renderanno difficile un aumento della fecondità e una ripresa delle dinamiche demografiche naturali. Solitamente il cattivo andamento dell'economia rallenta i flussi di immigrazione e incentiva quelli di emigrazione; le dinamiche migratorie, a loro volta, rendono più difficile la crescita economica. Non è ragionevole attendersi un rilevante cambiamento delle dinamiche naturali della popolazione per i prossimi decenni. Il futuro dell'Italia e del Mezzogiorno si giocherà – attraverso uno sguardo lungimirante – moltissimo sulla capacità di accogliere e integrare pienamente la popolazione proveniente dall'estero. L'integrazione può essere favorita da accorte politiche che riducano le difficoltà, anche di natura psicologica e relazionale, connesse alla presenza di stranieri. Ma è – e sarà – un fenomeno irreversibile. L'immigrazione non è una sventura – come ritengono politici in perfetta malafede o in possesso di visioni miopi e non ancorate alla realtà – né tantomeno una delle cause delle difficoltà del paese, ma una delle possibili soluzioni ai suoi molti problemi.
Antonio Salvati
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