
Nel nuovo millennio sulla scena politica di molti paesi occidentali si sono affermati uomini politici, movimenti e partiti variamente denominati come populisti. Evidentemente dietro questa denominazione vi è un ampio spettro di fenomeni empirici che coprono l'intero arco delle posizioni politiche. La categoria di populismo non sempre viene utilizzata adeguatamente, anche a causa del fenomeno che essa cerca di descrivere, i cui confini sono decisamente indefiniti ed adattabili a molteplici situazioni. Tuttavia, esistono dei tratti comuni che accomunano tutti coloro che si definiscono populisti, come quella dell'evocazione di un'idea di popolo indistinta contrapposta a quella di élite: da una parte gli esclusi, dall'altra i privilegiati. È la convinzione di essere parte di un popolo costituito da tutti coloro che sono tartassati dal potere economico, politico, culturale ecc. Una definizione suscettibile di comprendere potenzialmente tutti coloro che sono esclusi dal potere.
Cerca di far chiarezza il volume Giorgia Serughetti, Il vento conservatore. La destra populista all'attacco della democrazia, che ha cercato di andare oltre la definizione di populismo come l'espressione di uno spirito antiestablishment che fa leva sulla contrapposizione tra «popolo» ed «élite» per intervenire nel processo politico della rappresentanza. Per la Serughetti il discorso populista si articola fondamentalmente attraverso tre proposizioni: «il “popolo” è detentore della sovranità; i “nemici del popolo” lo stanno privando del suo potere; bisogna restituire al “popolo” i suoi diritti legittimi. E un corollario: è attraverso il leader che il «popolo» può far valere la sua volontà contro l'establishment». Il populismo, pertanto, appare sempre come una forma di tribalismo, volto a descrivere confini, materiali e simbolici, per proteggere chi si trova al loro interno, e a respingere gli attacchi dell'«altro», del «diverso», di ciò che non fa parte del «noi» e in quanto tale lo minaccia.
Il populismo è un fenomeno profondamente identitario. L'ossessione della politica del XXI secolo si chiama «identità». Non a caso sotto questa bandiera, in anni recenti, si sono prodotti sconvolgimenti politici – ricorda la Serughetti – come il referendum del 2016 sulla Brexit nel Regno Unito e, nello stesso anno, l'elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Ma si definisce «identitaria» anche la politica della destra radicale che, in Europa, rigetta i valori liberali, i processi di integrazione sovranazionale e il multiculturalismo, in nome della sovranità nazionale e di ideali nativisti. L'uso politico dell'identità «non è in sé un fenomeno nuovo. La nozione, riferita a dimensioni come la religione o la «razza», ma anche il genere o la sessualità, è entrata nelle scienze sociali, e attraverso queste nel discorso comune, alla metà del secolo scorso». Tuttavia, di nuovo, nel presente, c'è che l'identità è in grado di suscitare grandi investimenti emozionali di segno opposto, reazionario, che sottopongono a crescente tensione le procedure e i principi delle democrazie avanzate. Inoltre, i conflitti identitari occupano uno spazio crescente nel campo politico. A partire dal secondo decennio del secolo, scrive Francis Fukuyama, «la politica identitaria», cioè la lotta per il riconoscimento della dignità dei gruppi sociali, «è la lente attraverso la quale gran parte delle tematiche sociali vengono viste su tutto l'arco dello spettro ideologico». Da sinistra, ma anche da destra.
Per il professore di Politica Paul Taggart, «i populisti sono spesso più sicuri di ciò che non sono piuttosto che di ciò che sono». L'interpretazione della linea di demarcazione tra «popolo» e «non popolo» ci consente di individuare le principali varianti del populismo. La prima è il «popolo unito», ovvero la nazione o il paese, che solo i partiti politici, con i loro opposti interessi e le loro divisioni ideologiche, minano nella sua interna coesione. La seconda è il popolo come etnia o parentela, secondo la quale si distingue il nostro popolo da coloro che non ne fanno parte, come gli immigrati stranieri. La terza variante è quella che si ritrova negli appelli alla mobilitazione della «gente comune» contro l'élite privilegiata, istruita, cosmopolita. I populisti affermano – o almeno hanno la presunzione – di parlare a nome della maggioranza di uomini e donne comuni, lavoratori e famiglie, i cui interessi sono. A loro avviso, trascurati dalla politica, in particolar modo dai partiti di sinistra, fondamentalmente interessati a difendere i diritti delle minoranze razziali, culturali, sessuali, e da quelli liberali che promuovono i processi di integrazione europea e sovranazionale.
L'identità equivarrebbe ad una sorta di rifugio dei «perdenti» della globalizzazione, «la cui domanda di protezione sociale si esprime, anziché nel lessico delle rivendicazioni economiche, in quello della contrapposizione culturale tra un «noi» e un «loro», fondamentalmente per via dell'impatto avverso delle migrazioni, abilmente sfruttato dalle forze populiste». Anche se poi il quadro si complica per il fatto che leader e partiti anti-immigrazione ottengono i maggiori successi nelle aree del proprio paese in cui gli stranieri sono presenti in numeri minori, persino irrilevanti, com'è avvenuto nell'elezione di Donald Trump nel 2016, ma anche del voto per il Leave nel referendum sulla Brexit, o delle elezioni per il Parlamento tedesco nel 2017, in cui la crescita di consensi per il partito della destra radicale Alternative für Deutschland si ebbe soprattutto nelle regioni orientali, che hanno i più bassi tassi d'immigrazione.
Potremmo aggiungere il quesito da molti sollevato: perché di fronte all'aumento delle disuguaglianze di reddito e la relativa perdita di status delle classi lavoratrici la sinistra non sia riuscita a capitalizzare il malcontento, che invece è andato a vantaggio della destra nazionalista. Evidentemente il legame tra «reddito» e «status» ci mostra quanto siano insufficienti le spiegazioni puramente economiche. Il nazionalista o il sovranista interpreta la perdita della relativa posizione economica in una perdita di identità e status: anche se sei sempre stato membro della nostra nazione, adesso stranieri, immigrati e i tuoi stessi compatrioti delle élite cospirano per schiacciarti; è come se il tuo paese non è più tuo e tu non sei rispettato nella tua stessa terra. Sarebbe questo risentimento, piuttosto che l'insicurezza economica a spingere molti elettori, anche in Italia, ad abbracciare i nuovi reazionari. Non c'è solo, quindi, l'accusa verso l'alto, contro le élite, ma anche verso il basso, verso i gruppi inferiori che sono ritenuti immeritatamente e ingiustamente favoriti dalle politiche delle stesse élite. Raramente, l'economia capitalistica è il diretto obiettivo polemico della destra populista. Esiste, pertanto, una «storia di sensazioni», di «sentimenti», dietro a questo fenomeno. Molti individui vogliono essere riconosciuti e ricompensati per i loro sforzi, il lavoro di una vita. Sanno però che le élite liberal definiscono le loro idee «superate, sessiste, omofobiche», che li chiamano «bifolchi», «ignoranti», «bigotti». Ecco perché si sentono «stranieri nella propria terra». Ed ecco perché mirano a riconquistarla. Maggioranze che avvertono minacciata la loro posizione sociale e la supremazia di un sistema valoriale. La globalizzazione, prima ancora che una minaccia al benessere economico, è per molti, come scrive il sociologo e politologo britannico Colin Crouch, «un attentato alla loro voglia di sentirsi orgogliosi nei vari ambiti di vita: nel loro lavoro, nella loro identità culturale, nelle loro comunità, nelle città e paesi in cui vivono». In questo senso è possibile parlare, come fanno Ronald Inglehart e Pippa Norris, di un cultural backlash, cioè di un contraccolpo culturale, una «reazione contro il cambiamento culturale di segno progressista», considerata la crescita delle forze populiste in alcuni dei paesi più egualitari e con i migliori livelli di protezione sociale in Europa, come la Svezia o la Danimarca dove è stato determinante l'impatto della «rivoluzione silenziosa» dei valori, che a partire dagli anni Settanta ha portato le nuove generazioni ad abbracciare in politica temi quali il cosmopolitismo, il multiculturalismo, l'ambientalismo, i diritti umani, l'uguaglianza di genere, i diritti delle minoranze Lgbti.
Il volume contiene queste ed altre considerazioni che ci aiutano a meglio comprendere la recente vittoria elettorale in Italia delle destre. Ne aggiungo un'altra, a mio parere, fondamentale. Quella di Miguel Benasayag, secondo il quale il futuro ha cessato di essere una promessa, per presentarsi nelle vesti della minaccia. Siccome non sappiamo più prevedere e sognare futuro, allora vorremmo fermare il tempo, o almeno invertirlo.
Resta valida la tesi di fondo del volume della Serughetti secondo la quale esiste un'affinità nascosta tra neoliberismo e conservatorismo morale: «entrambi sviliscono i valori dell'uguaglianza, della partecipazione sociale, della libertà politica e dello Stato di diritto, e l'uno finisce per rinforzare l'altro». La destra radicale populista va quindi guardata «non come una reazione democratica al dominio del mercato, ma come un “Giano bifronte”, che si alimenta degli effetti distruttivi prodotti dal neoliberismo in campo sia economico, sia sociale e politico, ma a sua volta spinge sull'individualismo competitivo, sul mantra dell'efficienza, e spesso su politiche a vantaggio dei più ricchi, mentre rafforza le gerarchie di classe, genere, “razza”, religione».
Antonio Salvati
Giorgia Serughetti
Il vento conservatore. La destra populista all'attacco della democrazia
Laterza 2021
pp. 184
€ 18,00
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